Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25505 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25505 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24263/2020 R.G. proposto da:
NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, COGNOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE che li rappresenta e difende
-controricorrenti-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 1375/2020 depositata il 24/02/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Premesso che:
1.NOME COGNOME ricorre con tre motivi per la cassazione della sentenza in epigrafe con cui la Corte di Appello di Roma ha respinto il gravame di esso ricorrente contro la sentenza del Tribunale di Roma con la quale era stata respinta la domanda riconvenzionale di usucapione avanzata da esso COGNOME nei confronti di NOME COGNOME riguardo ad un immobile in Roma, INDIRIZZO, ed era stato imposto al medesimo COGNOME, in accoglimento delle domande principali, di rilasciare l’immobile e di pagare al COGNOME la somma di 67.767,00 euro a titolo di risarcimento del danno per illegittima occupazione dell’immobile; 2.resistono con controricorso NOME COGNOME e NOME
COGNOME, eredi di NOME COGNOME;
3.la causa perviene al Collegio a seguito di richiesta di decisione formulata dal ricorrente ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. in riferimento alla proposta di definizione del giudizio per inammissibilità o comunque manifesta infondatezza del ricorso. La parte controricorrente ha depositato memoria;
considerato che:
1.con il primo motivo di ricorso vengono lamentate ‘violazione e falsa applicazione dell’art.1141, 1158, 1165 e 2944 c.c.’ in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, c.p.c., per avere la Corte di Appello ritenuto che l’allora appellante e attuale ricorrente non avesse provato di aver posseduto l’immobile de quo. Deduce il ricorrente che la Corte di Appello stessa aveva accertato che egli aveva occupato l’immobile fino dal 1975, che il COGNOME non aveva mai dato prova dell’esistenza di un titolo originario di detenzione, che la Corte di Appello aveva errato nel ritenere che la circostanza
che esso ricorrente avesse, nel 1991, consentito ad un consulente tecnico nominato dal giudice di un giudizio tra il COGNOME ed un terzo di accedere all’immobile fosse indicativa della assenza di animus possidendi ;
2. il motivo è inammissibile perché non si confronta con quanto effettivamente affermato dalla Corte di Appello. Si legge infatti nella sentenza impugnata che difettava sia la prova ‘dell’inizio del possesso’ – non è quindi vero che la Corte di Appello abbia dato conto del fatto che il ricorrente occupava l’immobile dal 1975 – sia la prova della ‘estensione e della modalità del possesso’ , niente potendosi dedurre da ricevute di pagamento di utenze prodotte dall’appellante in quanto, per un verso, dette ricevute erano prive di riferimento all’interno 4 (il bene oggetto di domanda) e, per altro verso, l’appellante conduceva in locazione dal 1970 l’interno 3. Si legge inoltre che, come accertato dal CTU in un giudizio tra il COGNOME e terzi e come emergeva anche da una ‘missiva dell’amministratore del condominio del 16.2.2015’, l’unità immobiliare occupata dallo COGNOME era stata ricavata ‘dalla fusione e dal successivo frazionamento degli originari interni nn. 3 e 4’ in interni ‘3, 3 a, 4, 4 a e 4 b’. Si legge infine che l’appellante non aveva fornito ‘elementi per accertare se l’appartamento occupato fosse o meno ricompreso nell’unità immobiliare ricevuta in locazione nel 1970 e dunque se egli avesse iniziato a utilizzare lo stesso titolo di detenzione qualificata ovvero come possessore’ 3. con il secondo motivo di ricorso vengono lamentate ‘violazione dell’art. 2043 c.c. e mancanza assoluta di motivazione’, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3 e n.4, c.p.c. Deduce il ricorrente che la Corte di Appello ha confermato la sentenza di primo grado in punto di risarcimento del danno da illegittima occupazione, senza aver ‘mai accennato alla eccezione circa la data di decorrenza del diritto al risarcimento’, individuata dal Tribunale nel 7 ottobre 2009 invece che nel 7 ottobre 2014 allorché era stata
ricevuta dall’attuale ricorrente la notifica dell’atto originario di citazione ovvero dal marzo 2010, allorché il COGNOME aveva inviato allo COGNOME una raccomandata (il cui contenuto non è dal ricorrente precisato). Deduce inoltre il ricorrente che la Corte di Appello ha errato nel ritenere il danno da illegittima occupazione in re ipsa .
4.il motivo è infondato.
Per un verso, dallo stesso ricorso (pagina 5) emerge che l’attuale ricorrente aveva formulato un motivo specifico di appello centrato sull’avere il Tribunale ritenuto ‘ in re ipsa ‘ il danno da illegittima occupazione e che solo nelle conclusioni dell’atto di appello – non quindi mediante una specifica censura – era stato chiesto di determinare la decorrenza del diritto della controparte al risarcimento del danno dalla data della notifica della citazione o dal 7 ottobre 2010. Non è dunque prospettabile il vizio di difetto di motivazione sul rigetto di cui al la suddetta ‘conclusione’. Per altro verso, il motivo in esame appare mirato ad ottenere in questa sede di legittimità una decisione di merito sulla decorrenza del ridetto diritto.
Quanto al dedotto errore in cui la Corte di Appello sarebbe incorsa ritenendo ‘in re ipsa’ il danno da illegittima occupazione, occorre ricordare che la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6-2 n. 39 del 7 gennaio 2021 e Sez. 2 n. 20708 del 31 luglio 2019; Sez. 3, n.14268 del 25/05/2021) è nel senso che non si pone un postulato di danno in re ipsa ma una presunzione semplice di danno. Ciò ricordato, l’errore denunciato dal ricorrente non è ravvisabile avendo la Corte di Appello dato conto della specificità della fattispecie concreta di occupazione abusiva di immobile posto in una zona centrale e di pregio di Roma così che era da ritenersi probabile una diversa utilizzazione economica da parte del proprietario reimmesso in possesso. La Corte di Appello ha anche
precisato che lo COGNOME non ha fornito alcuna controprova per vincere la presunzione radicata nella concretezza;
5. con il terzo motivo di ricorso viene lamentata la ‘violazione dell’art. 1226 e dell’art. 2043 c.c.’, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3 c.p.c., per avere la Corte di Appello liquidato il danno sulla base del valore locativo stimato in 1000 euro per mese laddove invece, come dedotto nell’atto di appello, ‘una sentenza tra i COGNOME aveva indicato in 200 euro al mese il danno subito da NOME COGNOME per mancato godimento del bene e da una consulenza in atti si evinceva chiaramente che il bene era inutilizzabile’;
il motivo è inammissibile. La Corte di Appello ha stimato l’effettivo valore locativo dell’immobile in 1000 euro il mese tenendo conto delle dimensioni (‘circa 40 m’) e della ubicazione dell’immobile stesso (in INDIRIZZO, strada prestigiosa e nota per la storica presenza di antiquari in pieno centro storico a pochi passi da INDIRIZZO‘). Ha precisato che l’allegazione dell’appellante per cui l’immobile sarebbe stato fatiscente era rimasta indimostrata e che l’appellante ‘non aveva indicato un diverso valore locativo e non aveva allegato differenti stime immobiliari’ Ciò detto, con il motivo in esame il ricorrente chiama questa Corte ad una valutazione in fatto, auspicando di avere una stima del valore locativo inferiore rispetto a quella motivatamente effettuata dalla Corte d’Appello. Pretende di stravolgere il ruolo di questa Corte da giudice di legittimità a giudice di merito;
7.in conclusione il ricorso deve essere rigettato;
8.le spese seguono la soccombenza;
poiché la trattazione è stata chiesta ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ. a seguito di proposta di inammissibilità o comunque infondatezza del ricorso, e poiché la Corte ha deciso in conformità alla proposta, va fatto applicazione del terzo e del quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., in assenza di indici che possano far
propendere per una diversa applicazione della norma. Sulla scorta di quanto esposto, la parte ricorrente va condannata al pagamento di una somma, equitativamente determinata in € 8 .500,00, in favore della controparte e di una ulteriore somma, pari ad € 3.000,00, in favore della cassa delle ammende;
10. sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in € 8. 500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e altri accessori di legge se dovuti;
condanna la parte ricorrente al pagamento, ai sensi dell’art. 96, comma terzo, cod. proc. civ., della somma di € 8 .500,00 in favore della parte controricorrente nonché, ai sensi dell’art. 96, comma quarto, cod. proc. civ., di un’ulteriore somma di € 3 .000,00 in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 12 settembre 2024.