Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 20199 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 20199 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3743/2022 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE, in persona del presidente p.t. NOME COGNOME, rappresentata e difesa dagli AVV_NOTAIO e NOME AVV_NOTAIO COGNOME, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO;
-ricorrente e controricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO, con domicilio in Roma, INDIRIZZO, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
-ricorrente e controricorrente –
e
COGNOME NOME, in proprio ed in qualità di erede di COGNOME NOME, rappresentato e difeso dagli AVV_NOTAIO e NOME COGNOME, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO;
COMMISSARIO AD ACTA PER GLI USI CIVICI DEL RAGIONE_SOCIALE DI RAGIONE_SOCIALE; -intimato -avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 7752/21, depositata il 23 novembre 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 marzo 2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. NOME COGNOME, proprietario di un fondo sito in RAGIONE_SOCIALE (LT), località Nespole, riportato in Catasto al foglio 8, particelle 76, 123, 124 e 176, convenne in giudizio il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE e il Commissario ad acta per gli usi civici del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, per sentir accertare la nullità o l’inopponibilità della conciliazione stragiudiziale tra gli stessi intervenuta il 16 maggio 1989, con la condanna del RAGIONE_SOCIALE e dell’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni cagionati dalla perdita della proprietà di un’area della superficie di mq. 8449 del predetto fondo, occupata per la costruzione di alloggi di edilizia residenziale pubblica ed assegnata all’RAGIONE_SOCIALE in diritto di superficie.
Premesso che nel corso dell’occupazione il Commissario per gli usi civici del Lazio aveva disposto il sequestro giudiziario del fondo, ritenuto parte del demanio civico del RAGIONE_SOCIALE, vietando la prosecuzione dei lavori e promuovendo d’ufficio la rivendicazione, riferì che il 16 maggio 1989 il RAGIONE_SOCIALE e l’RAGIONE_SOCIALE erano addivenuti a una conciliazione della controversia, nell’ambito della quale avevano concordato la cessione alla RAGIONE_SOCIALE del diritto di superficie sull’area assegnata, ritenendone certa la demanialità. La causa era poi proseguita ed era stata decisa dal Commissario per gli usi civici con sentenza del 23 dicembre 1991, che aveva dichiarato la demanialità civica del fondo, e la costruzione degli alloggi era ripresa, senza che si procedesse all’espropriazione dell’area.
Si costituì il RAGIONE_SOCIALE, ed eccepì il difetto di legittimazione attiva, la vali-
dità della conciliazione e la prescrizione della pretesa risarcitoria, chiedendo il rigetto della domanda.
Si costituì inoltre l’RAGIONE_SOCIALE, e resistette alla domanda, chiedendo in via riconvenzionale la condanna dell’attore al risarcimento dei danni.
Il giudizio fu sospeso in attesa della decisione in ordine all’impugnazione della sentenza del Commissario per gli usi civici, che fu riformata dalla Corte d’appello di Roma, con la rimessione della causa al Commissario. Quest’ultimo dichiarò la libertà del fondo da usi civici, con sentenza del 17 aprile 2009, che fu poi confermata dalla Corte d’appello, con sentenza del 20 gennaio 2012.
1.1. A seguito della riassunzione del giudizio, il Tribunale di Latina, con sentenza del 10 ottobre 2017, accolse la domanda, dichiarando l’inopponibilità della conciliazione all’attore e condannando il RAGIONE_SOCIALE e l’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni nella misura di Euro 232.167,00, oltre interessi e rivalutazione.
L’impugnazione proposta da NOME e NOME COGNOME, in qualità di eredi di NOME COGNOME, è stata accolta dalla Corte d’appello di Roma, che con sentenza del 23 novembre 2021 ha rigettato gli appelli incidentali proposti dal RAGIONE_SOCIALE e dall’RAGIONE_SOCIALE, rideterminando la somma dovuta a titolo di risarcimento in Euro 451.206,00, oltre interessi e rivalutazione.
A fondamento della decisione, la Corte ha confermato la spettanza della controversia alla giurisdizione del Giudice ordinario, osservando che, in quanto proposta in data anteriore al 1° luglio 1998, la domanda, avente ad oggetto il risarcimento del danno per occupazione appropriativa, risultava assoggettata al criterio di riparto fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi.
Ha dichiarato inammissibile, in quanto nuova, l’eccezione di difetto di legittimazione attiva, osservando comunque che il diritto di proprietà dell’attore era stato accertato con efficacia di giudicato dalle sentenze del Commissario per gli usi civici e della Corte d’appello. Per tale ragione, ha ritenuto accertata anche la titolarità attiva del rapporto controverso, rilevando comunque che era stata prodotta in giudizio la denuncia di successione di NOME COGNOME, padre adottivo dell’attore, trascritta nei registri immobiliari.
Ha ritenuto altresì provata la legittimazione processuale di NOME e NOME COGNOME, in qualità di eredi di NOME COGNOME, reputando a tal fine sufficiente la produzione in giudizio del certificato di morte e della denuncia di successione del de cujus , nonché la proposizione della domanda da parte dei chiamati all’eredità a titolo di successione legittima, qualificabile come accettazione tacita.
La Corte ha ritenuto poi infondata l’eccezione di prescrizione, non essendo stato allegato il momento in cui si era verificata la trasformazione irreversibile del fondo, configurabile come dies a quo del termine di prescrizione, e non potendo comunque la decorrenza essere ancorata ad una data anteriore alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 486 del 1991.
Ha dichiarato inammissibile l’eccezione di nullità della c.t.u., per mancata indicazione della documentazione irritualmente prodotta in giudizio ed utilizzata dal c.t.u.
Ha escluso inoltre l’applicabilità dell’art. 42bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, in quanto riguardante le procedure espropriative avviate in data anteriore al 30 giugno 2003, ritenendo invece applicabile l’art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458, poiché l’espropriazione era finalizzata alla realizzazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.
Ha confermato la responsabilità solidale del RAGIONE_SOCIALE e dell’RAGIONE_SOCIALE, rilevando che quest’ultima era stata delegata alla realizzazione degli alloggi ed all’espletamento delle procedure espropriative in nome e per conto del primo, ai sensi dell’art. 60 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e ritenendo irrilevante nei confronti dei terzi una lettera del 24 dicembre 1990, con cui era stata comunicata all’RAGIONE_SOCIALE la sospensione delle procedure espropriative, per effetto della conciliazione intervenuta con il RAGIONE_SOCIALE.
Quanto, infine, alla liquidazione del risarcimento, la Corte ha ritenuto non condivisibile la commisurazione dello stesso al valore del diritto di superficie sul fondo occupato, anziché al valore venale del bene, osservando che l’illegittima procedura di esproprio aveva determinato la perdita della piena proprietà da parte dell’attore. Ha affermato inoltre che la stima del fondo doveva aver luogo in base alla sua effettiva potenzialità edificatoria, indipendentemente dalla sua destinazione alla realizzazione del Piano per l’edilizia econo-
mica e popolare, osservando che l’art. 5bis , comma terzo, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, confluito nel d.P.R. n. 327 del 2001, distingueva unicamente tra aree edificabili ed aree non edificabili, e richiamando il principio secondo cui i corrispettivi dovuti dai beneficiari dell’espropriazione devono coprire i costi sostenuti dall’Amministrazione per l’ablazione e l’urbanizzazione delle aree espropriate, ma escludendone la riferibilità ai costi sostenuti dall’Amministrazione a titolo di risarcimento per una propria condotta illecita, i quali non sono riversabili sui privati.
Avverso la predetta sentenza l’RAGIONE_SOCIALE e il RAGIONE_SOCIALE hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, articolati rispettivamente in cinque e quattro motivi, illustrati anche con memorie. Hanno resistito con controricorsi il RAGIONE_SOCIALE, l’RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME, in proprio ed in qualità di erede di NOME COGNOME, il quale ha depositato anche memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va disposta, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., la riunione dei ricorsi, proposti separatamente e notificati il medesimo giorno, ma aventi ad oggetto la stessa sentenza.
Con il primo motivo d’impugnazione, l’RAGIONE_SOCIALE denuncia la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 476 e 2697 cod. civ. e degli artt. 81 e 100 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sufficiente, ai fini del riconoscimento della legittimazione degli appellanti, la produzione in giudizio della denuncia di successione, avente finalità di carattere fiscale, senza considerare che, ai fini della prova della qualità di erede, è necessario un atto idoneo ad esprimere in modo certo l’intenzione univoca di assumere la predetta qualità.
2.1. Il motivo è infondato.
Correttamente, in proposito, la sentenza impugnata ha richiamato il principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il figlio che aziona in giudizio un diritto del genitore, del quale afferma essere erede ab intestato , ove non sia stato contestato il rapporto di discendenza con il de cuius , al fine di dare prova della sua legittimazione ad agire, non deve ulteriormente dimostrare l’esistenza di tale rapporto, producendo l’atto
dello stato civile attestante la filiazione, essendo sufficiente che egli, in quanto chiamato all’eredità a titolo di successione legittima, abbia accettato, anche tacitamente, l’eredità, circostanza che può ricavarsi dall’esercizio stesso della azione (cfr. Cass., Sez. II, 19/03/2018, n. 6745; Cass., Sez. III, 20/10/2014, n. 22223). Come si evince dalla comparsa di costituzione in appello, trascritta in parte qua a corredo del motivo di ricorso, la ricorrente non aveva infatti contestato l’esistenza del rapporto di filiazione tra l’attore e gli appellanti, ma solo la qualità di eredi di questi ultimi, i quali, pur avendo prodotto in giudizio soltanto il certificato di morte del loro genitore e la denuncia di successione, avevano concretamente dimostrato la loro volontà di accettare l’eredità, non essendosi limitati a resistere all’impugnazione proposta dal RAGIONE_SOCIALE e dalla RAGIONE_SOCIALE, ma avendo assunto essi stessi l’iniziativa dell’appello, al fine di ottenere la liquidazione di un importo superiore a quello riconosciuto dal Giudice di primo grado. La valorizzazione dell’atteggiamento difensivo tenuto dalla ricorrente si pone d’altronde in linea con l’orientamento costante di questa Corte che, nel ribadire l’insufficienza della denuncia di successione o di una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ai fini della prova della qualità di erede di una delle parti del giudizio, in considerazione della limitazione dei relativi effetti ai soli rapporti con la Pubblica Amministrazione e ai procedimenti amministrativi cui si riferiscono, ha precisato che, anche alla stregua del principio di non contestazione, il giudice deve valutare il comportamento in concreto assunto dalla parte nei cui confronti i predetti documenti vengono fatti valere, e, in caso di contestazione, il grado di specificità della stessa, che deve risultare strettamente correlato e proporzionato a quello dei medesimi documenti (cfr. Cass., Sez. Un., 29/05/2014, n. 12065; Cass., Sez. VI, 15/ 05/2020, n. 8973; 10/05/2018, n. 11276).
E’ parimenti infondato il secondo motivo, con cui la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 476 e 2697 cod. civ. e degli artt. 81 e 100 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sufficiente, ai fini della prova della piena proprietà del fondo occupato, la produzione in giudizio della denuncia di successione, la quale non rivestiva valore indiziario, in mancanza della dimostrazione del rapporto di parentela tra COGNOME COGNOME e NOME COGNOME.
3.1. Com’è noto, infatti, nel giudizio di risarcimento dei danni cagionati a un bene immobile da un illecito comportamento del convenuto, non è richiesta una prova rigorosa della proprietà, poiché, avendo la pretesa ad oggetto non già l’accertamento della stessa, ma il ristoro del pregiudizio subìto dal titolare, il convincimento del giudice in ordine alla legittimazione attiva può formarsi sulla base di qualsiasi elemento documentale e presuntivo sufficiente ad escludere un’erronea destinazione del pagamento dovuto (cfr. Cass., Sez. III, 22/01/2024, n. 2203; 21/05/2004, n. 9711; Cass. Sez. I, 26/09/2016, n. 18841). Nella specie, d’altronde, la sentenza impugnata non si è limitata a dare atto dell’avvenuta produzione in giudizio della denuncia di successione di NOME COGNOME, padre adottivo di NOME COGNOME, ma ha richiamato le sentenze pronunciate nel corso del giudizio promosso dal Commissario per RAGIONE_SOCIALE usi civici del Lazio, che, in contraddittorio sia con il RAGIONE_SOCIALE che con la RAGIONE_SOCIALE, avevano accertato con efficacia di giudicato la piena proprietà del fondo occupato da parte dell’attore.
E’ invece inammissibile, per difetto di pertinenza, il terzo motivo, con cui la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 194 e 195 cod. proc. civ. e degli artt. 87 e 90 disp. att. cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la nullità della c.t.u., espletata mediante l’utilizzazione di documenti irritualmente prodotti dalle parti.
4.1. Le censure proposte dalla ricorrente non attingono infatti la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale non si è pronunciata sul merito della questione riguardante la nullità della c.t.u., avendo rilevato l’inammissibilità del relativo motivo di gravame, in quanto non accompagnato dall’indicazione del contenuto della documentazione di cui si lamentava l’irrituale acquisizione. A tale difetto di specificità non si sottrae d’altronde neppure il motivo in esame, anch’esso privo della predetta indicazione, in contrasto con il principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la parte che, in sede di legittimità, deduca la nullità della consulenza tecnica d’ufficio, causata dall’utilizzazione di documenti irritualmente prodotti, ha infatti l’onere di specificare, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, il contenuto della documentazione di cui lamenta l’irregolare acquisizione e quali accertamenti o valutazioni del c.t.u., poi utilizzati dal giudice,
siano fondati sul tale documentazione (cfr. Cass., Sez. III, 15/05/2018, n. 11752; Cass., Sez. I, 19/04/2016, n. 7737; Cass., Sez. lav., 5/04/2001, n. 5093).
Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e degli artt. 2043, 2051 e 2055 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto la sua responsabilità per i danni cagionati dalla perdita della proprietà dell’intera area occupata, senza tenere conto dell’effettiva assegnazione ad essa ricorrente di una superficie di mq. 4.438,86, e della destinazione del residuo ad opere infrastrutturali.
5.1. Il motivo è infondato.
In tema di occupazione appropriativa, questa Corte ha infatti affermato costantemente che dell’illecito risponde sempre e comunque l’ente che ha posto in essere le attività materiali di apprensione dell’immobile e di realizzazione dell’opera pubblica, cui consegue il mutamento del regime di appartenenza del bene, potendo tuttavia residuare, nel caso in cui lo stesso abbia curato la realizzazione dell’opera in qualità di delegato, concessionario o appaltatore, la responsabilità del delegante, concedente o committente, da valutare sulla base dell’incidenza causale delle singole condotte, a seconda che si tratti di concessione traslativa ovvero di delega ai sensi dell’art. 60 della legge n. 865 del 1971 (cfr. Cass., Sez. Un., 23/11/2007, n. 24397; Cass., Sez. I, 24/02/2016, n. 3619; 18/09/2013, n. 21333). Tale principio è stato ritenuto applicabile anche in riferimento all’ipotesi in cui, avendo l’espropriazione ad oggetto suoli da destinare alla realizzazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, l’occupante abbia agito in qualità di delegato dell’ente espropriante ai sensi dell’art. 60 della legge n. 865 del 1971: è stato tuttavia precisato che, anche in tal caso, l’ente espropriante resta pure sempre il dominus della procedura, poiché la legge dispone che l’espropriazione si svolge non soltanto «in nome e per conto» del delegante, ma anche «d’intesa» con quest’ultimo, che conserva ogni potere di controllo e di stimolo, il cui mancato esercizio è fonte di responsabilità concorrente e solidale con il delegato per i danni da questo materialmente arrecati, senza che assuma rilievo la natura del negozio intercorso tra delegante e delegato (cfr. Cass., Sez. I,
22/12/2016, n. NUMERO_DOCUMENTO; 24/02/2016, n. 3619; 27/05/2011, n. 11800).
A tale orientamento si è puntualmente attenuta la sentenza impugnata, la quale, nel confermare la responsabilità concorrente e solidale dei convenuti, ha rilevato che la RAGIONE_SOCIALE era stata incaricata non solo di realizzare gli alloggi, ma anche di curare le procedure espropriative per delega del RAGIONE_SOCIALE, ai sensi dell’art. 60 della legge n. 865 del 1971, limitando ai rapporti interni tra l’ente espropriante e la delegata la rilevanza della nota con cui il primo aveva comunicato alla seconda l’intervenuta sospensione del procedimento di espropriazione, a seguito della conciliazione. Tali conclusioni non trovano smentita nella circostanza, fatta valere dalla ricorrente, che l’assegnazione del suolo occupato in suo favore abbia avuto ad oggetto soltanto una parte della superficie da espropriare, non potendo essa andare esente da responsabilità, non solo per aver materialmente proceduto all’apprensione del fondo, ivi compresa la parte non assegnatale, ma anche per essersi sottratta all’obbligo di curare diligentemente e portare tempestivamente a compimento la procedura espropriativa, nell’esercizio dei poteri ad essa delegati ai sensi dell’art. 60 cit., non essendo stato in alcun modo dedotto che la delega si riferisse esclusivamente all’espropriazione dell’area assegnatale, ed essendo stato anzi precisato che l’area residua era destinata ad opere di urbanizzazione (strada comunale, verde attrezzato, parcheggi, etc.).
6. E’ infine inammissibile il quinto motivo, con cui la ricorrente deduce la violazione dell’art. 5bis , comma terzo, del d.l. n. 333 del 1992, dell’art. 3 della legge n. 458 del 1988, dell’art. 2, comma ottantanovesimo, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e dell’art. 35 della legge n. 865 del 1971, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che il valore dell’area occupata dovesse subire una riduzione in ragione della sua destinazione all’edilizia residenziale pubblica, senza considerare che tale destinazione esclude la possibilità di quantificare i volumi realizzabili mediante l’applicazione dell’indice fondiario di edificabilità, imponendo di tenere conto degli spazi riservati ad infrastrutture e servizi di carattere generale.
6.1. Le doglianze del ricorrente si appuntano infatti contro l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui, anche nel caso di occupazione di aree destinate alla realizzazione di alloggi di edilizia residenziale pub-
blica, il principio d’integralità del risarcimento esige che la stima dell’immobile sia effettuata avendo riguardo alla sua effettiva potenzialità edificatoria, indipendentemente dall’inclusione del fondo nel piano per l’edilizia economica e popolare. In quanto volta a giustificare la riforma della decisione di primo grado, nella parte in cui aveva commisurato il risarcimento al valore del diritto di superficie sul fondo occupato, anziché a quello della piena proprietà, tale argomentazione non consente d’individuare i parametri adottati per la determinazione del valore venale del fondo, in ordine al quale la Corte territoriale si è limitata a richiamare la stima compiuta dal c.t.u., osservando che le parti non avevano sollevato contestazioni al riguardo. Nell’impugnare tale apprezzamento, la ricorrente solleva una diversa questione, riguardante proprio l’individuazione dei parametri di valutazione, ed in particolare di quello relativo alle potenzialità edificatorie del fondo, omettendo tuttavia di riportare i passi salienti della relazione del c.t.u. e i rilievi eventualmente mossi alla stessa, e limitandosi ad invocare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, che in tema di valutazione dei fondi inclusi nei piani per l’edilizia economia e popolare afferma la necessità di tenere conto di indici medi di edificabilità riferiti all’intera zona omogenea, anziché dell’indice fondiario (a meno che l’area non sia collocata in un comprensorio già completamente urbanizzato: cfr. Cass., Sez. I, 14/06/2018, n. 15579; 26/09/2016, n. 18841; 5/09/2008, n. 22421). Il motivo risulta pertanto carente di specificità, ponendosi in contrasto con il principio, anch’esso costantemente ribadito da questa Corte, secondo cui la parte che in sede di legittimità intenda lamentare l’acritico recepimento delle conclusioni del c.t.u., è tenuta, in ossequio alla natura del ricorso per cassazione, quale mezzo di impugnazione a critica vincolata, ad indicare specificamente le lacune di accertamento e gli errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia fatto proprio l’operato, trascrivendo nel ricorso almeno i passaggi salienti della relazione, e riportando il contenuto specifico delle critiche mosse alla stessa, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del vizio lamentato (cfr. Cass., Sez. III, 13/07/2021, n. 19989; Cass., Sez. I, 17/07/2014, n. 16368; Cass., Sez. II, 13/06/2007, n. 13845).
Con il primo motivo del suo ricorso, il RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE lamenta la
nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 112 e 132, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., nella parte in cui ha ritenuto nuovo il motivo di gravame riguardante la legittimazione dell’attore, senza considerare che fin dalla comparsa di costituzione in primo grado erano state eccepite la destinazione del fondo occupato all’uso pubblico e l’assegnazione dello stesso in diritto di superficie all’RAGIONE_SOCIALE, in epoca anteriore alla proposizione della domanda di risarcimento. Aggiunge che illogicamente la Corte di merito ha desunto il diritto di proprietà degli attori dalla sentenza emessa dal Commissario per gli usi civici, che aveva invece escluso la natura privata dell’immobile, dovendo la legittimazione ad agire essere accertata in riferimento al momento della presentazione della domanda.
7.1. Il motivo è infondato.
Pur avendo ritenuto nuova l’eccezione di difetto di legittimazione attiva proposta da RAGIONE_SOCIALE, in quanto sollevata soltanto in appello, la sentenza impugnata non si è infatti sottratta al compito di esaminarla nel merito, rigettandola con motivazione piuttosto stringata, ma comunque idonea a consentire d’individuare le ragioni della decisione, in virtù del richiamo alle sentenze del Commissario per gli usi civici del Lazio e della Corte d’appello di Roma, passate in giudicato, che avevano accertato la spettanza all’attore della piena proprietà del fondo occupato. Non possono quindi ritenersi sussistenti, nella specie, né l’omissione di pronuncia né il difetto di motivazione, i quali, oltre a non essere deducibili con il medesimo motivo, a pena di contraddittorietà (cfr. Cass., Sez. V, 5/03/ 2021, n. 6150; Cass., Sez. lav., 18/06/2014, n. 13866; Cass., Sez. III, 17/07/2007, n. 15882), presuppongono, rispettivamente, la totale mancanza del provvedimento indispensabile per la risoluzione del caso concreto (cfr. Cass., Sez. III, 29/01/2021, n. 2151; Cass., Sez. VI, 3/03/ 2020, n. 5730) e l’impossibilità di ricostruire il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione, a causa dell’inesistenza dei motivi sotto il profilo materiale e grafico, oppure della mera apparenza, perplessità o grave contraddittorietà della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. II, 13/08/2018, n. 20721). Quanto poi alla logicità della motivazione, premesso che, in quanto configurabile come condizione dell’azione, e non già come presupposto processuale, la legittimazione attiva e passiva delle
parti, anche se assente all’atto della proposizione della domanda, può ben sopravvenire nel corso del giudizio, essendo sufficiente che sussista al momento della decisione (cfr. Cass., Sez. II, 17/03/2016, n. 5321; 18/12/2014, n. 26769; 9/06/2010, n. 13882), si osserva che il richiamo alle predette sentenze, pur comprendendo anche quella emessa dal Commissario per gli usi civici il 23 dicembre 1991, che dichiarò la natura demaniale del fondo, dev’essere correttamente riferito a quella del 17 aprile 2009, che a seguito della riforma della precedente sentenza, disposta dalla Corte d’appello con sentenza del 21 dicembre 1996, dichiarò la natura privata dell’immobile e la libertà da usi civici, ed a quella emessa dalla Corte d’appello il 20 gennaio 2012, che confermò la seconda sentenza: la natura dichiarativa di tali pronunce, consentendo di escludere ab origine il carattere demaniale del fondo, conferma peraltro la sussistenza della legittimazione dell’attore fin dal momento della proposizione della domanda, dissipando quindi ogni dubbio in ordine all’infondatezza dell’eccezione sollevata dall’Amministrazione.
8. Con il secondo motivo, il RAGIONE_SOCIALE denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di prescrizione della pretesa risarcitoria, per mancata indicazione del dies a quo del termine di prescrizione, senza considerare che lo stesso attore aveva riconosciuto che i lavori di costruzione degli alloggi avevano avuto inizio in data anteriore a quella di emissione del decreto di sequestro del fondo da parte del Commissario per gli usi civici. Aggiunge che la Corte territoriale ha omesso di spiegare le ragioni per cui il termine di prescrizione non poteva decorrere da data anteriore a quella di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 486 del 1991.
8.1. Il motivo è infondato.
E’ opportuno premettere che in ordine all’operatività dell’occupazione appropriativa si è formato il giudicato interno, non avendo le parti censurato la sentenza di primo grado, nella parte in cui ha accertato l’intervenuto acquisto della proprietà del fondo occupato da parte dell’Amministrazione, ai sensi dell’art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458, che conferì dignità normativa al predetto istituto, avente origine giurisprudenziale, estendendolo all’utilizzazione del terreno per finalità di edilizia residenziale pubblica.
Ciò posto, si osserva che la sentenza impugnata non si è limitata a confermare la genericità dell’eccezione di prescrizione, a causa della mancata indicazione del dies a quo del relativo termine, non identificabile con la data d’inizio dei lavori di costruzione degli alloggi, ma l’ha esaminata anche nel merito, dichiarandola infondata, in virtù dell’osservazione che la prescrizione non poteva essere fatta decorrere da una data anteriore a quella della sentenza della Corte costituzionale n. 486 del 1991, con cui fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 cit., nella parte in cui non prevedeva che al proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica senza che fosse stato emesso alcun provvedimento di esproprio potesse applicarsi la disciplina prevista per l’ipotesi in cui, nella medesima situazione, il provvedimento espropriativo fosse stato dichiarato illegittimo.
Orbene, l’esclusione della possibilità di ancorare la decorrenza del termine di prescrizione alla data d’inizio dei lavori, e la conseguente affermazione dell’inidoneità della stessa a fornire indicazioni al riguardo, trovano conforto nel costante orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di occupazione appropriativa, secondo cui la predetta decorrenza non coincide necessariamente né con l’inizio dei lavori né con l’ultimazione dell’opera pubblica, ma con la data in cui si verifica la trasformazione irreversibile del fondo, la cui prova dev’essere fornita dalla parte che eccepisce la prescrizione, ovverosia con il momento in cui, delineandosi l’opera nei suoi connotati definitivi e nelle caratteristiche previste, diviene impossibile il ripristino dello status quo ante , se non attraverso nuovi interventi altrettanto eversivi della fisionomia assunta dal bene (cfr. Cass., Sez. I, 28/05/2008, n. 14050; 27/11/1998, n. 12041; 17/05/1990, n. 4295). L’affermazione dell’impossibilità di far decorrere la prescrizione da data anteriore a quella di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 486 del 1991 trova invece giustificazione nel richiamo di un altro principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la predetta sentenza, avendo fatto venir meno la limitazione del diritto al risarcimento dei danni all’ipotesi, prevista dall’art. 3 della legge n. 458 del 1988, in cui sia stato annullato il decreto di espropriazione, ed avendo quindi rimosso ogni ostacolo all’esercizio dell’azione risarcitoria anche nell’ipotesi in cui, come nella specie, il decreto non sia stato emesso, nonostante
la realizzazione dell’opera programmata, segna anche il momento da cui decorre il termine di prescrizione, conformemente al principio actio nondum nata non praescribitur , giacché in precedenza il proprietario non era legittimato ad agire per il risarcimento del danno cagionato dalla perdita della proprietà del fondo (cfr. Cass., Sez. VI, 23/01/2014, n. 1433).
E’ altresì infondato il terzo motivo, con cui il RAGIONE_SOCIALE deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver riconosciuto la responsabilità dell’Amministrazione, senza tenere conto della impossibilità di proseguire il procedimento di espropriazione in pendenza del procedimento di sequestro, che aveva sottratto ogni potere all’Autorità procedente, ed a seguito della conciliazione stragiudiziale, che aveva comportato l’attribuzione del diritto di superficie all’RAGIONE_SOCIALE.
9.1. La sentenza impugnata non ha affatto omesso di pronunciare in ordine alla responsabilità del RAGIONE_SOCIALE, avendola espressamente riconosciuta, in virtù dell’intervenuta acquisizione della proprietà del fondo occupato e della mancata emissione del decreto di esproprio: non è quindi configurabile il vizio di cui all’art. 112 cod. proc. civ., ai fini del quale, come si è detto, è necessaria la totale mancanza del provvedimento indispensabile per la risoluzione del caso concreto, non risultando sufficiente l’omesso o insufficiente esame delle argomentazioni delle parti, il quale integra un vizio di natura diversa, inerente all’attività svolta dal giudice per supportare l’adozione del provvedimento (cfr. Cass., Sez. II, 25/06/2020, n. 12652; Cass., Sez. III, 3/03/2020, n. 5730; Cass., Sez. I, 18/02/2005, n. 3388).
Rinviando alle considerazioni svolte in precedenza relativamente alla responsabilità concorrente e solidale dei convenuti per l’occupazione e la trasformazione del fondo, la RAGIONE_SOCIALE in qualità di autrice materiale dell’illecito e delegata all’esercizio del potere ablatorio ed il RAGIONE_SOCIALE in qualità di ente delegante, obbligato a vigilare sul corretto esercizio del predetto potere, si osserva poi che, ai fini dell’esclusione della responsabilità del RAGIONE_SOCIALE, non possono considerarsi determinanti la situazione d’incertezza generata dal procedimento avviato dal Commissario per gli usi civici e l’indisponibilità del fondo determinata dal provvedimento di sequestro dallo stesso adottato: tali
circostanze avrebbero infatti potuto giustificare l’inerzia degli occupanti soltanto fino all’esito del predetto procedimento, che, comportando il definitivo accertamento della natura privata del fondo e della sua libertà da usi civici, imponeva di procedere immediatamente alla restituzione dell’immobile o alla regolarizzazione della situazione determinata dall’illegittima occupazione. Non è stato d’altronde chiarito se la realizzazione degli alloggi abbia avuto luogo in pendenza del sequestro, che avrebbe dovuto impedire qualsiasi immutazione dello stato dei luoghi, o successivamente, essendo pacifico che la RAGIONE_SOCIALE ha continuato ad occupare il fondo senza promuovere l’emissione del decreto di esproprio, ed avendo anzi i convenuti continuato ad insistere sul difetto di legittimazione dell’attore e sull’opponibilità della conciliazione stragiudiziale, esclusa invece, come si è detto, per effetto del giudicato formatosi nell’altro giudizio.
E’ infine inammissibile il quarto motivo, con cui il RAGIONE_SOCIALE lamenta l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nella liquidazione del risarcimento, la sentenza impugnata si è limitata a richiamare le risultanze della c.t.u., senza prendere in esame i rilievi formulati da esso ricorrente, riflettenti la destinazione dell’area occupata all’edilizia economica e popolare, e la conseguente necessità di determinarne il valore in riferimento alla data dell’immissione in possesso.
10.1. A sostegno delle proprie censure, il ricorrente si limita infatti a riportare le critiche mosse alla sentenza di primo grado, che aveva determinato il valore del fondo occupato sulla base della stima effettuata dal c.t.u., omettendo di trascrivere nel ricorso i passi salienti della relazione di quest’ultimo, con la conseguenza che risulta impossibile cogliere il senso e la portata delle censure rivolte alla sentenza impugnata, nella parte in cui, nel confermare la decisione di primo grado, si è limitata a ribadire la necessità di tenere conto delle effettive potenzialità edificatorie del fondo.
Entrambi i ricorsi vanno pertanto rigettati, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 12.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i ricorsi dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 27/03/2024