Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19042 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 19042 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/07/2024
SENTENZA
sul ricorso 2237-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
sul ricorso 3048-2021 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente principale –
R.G.N. 2237/2021 R.G.N.3048/2021
COGNOME.
Rep.
Ud. 14/05/2024
PU
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME che la rappresentano e difendono;
– controricorrente ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 1544/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/07/2020 R.G.N. 3196/2017; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/05/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME; udito il P.M. in persona del l’AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’AVV_NOTAIO;
udito l’AVV_NOTAIO.
Fatti di causa
NOME COGNOME ha agito in giudizio per ottenere la condanna della RAGIONE_SOCIALE al pagamento RAGIONE_SOCIALE retribuzioni non percepite, nel periodo compreso tra aprile 2012 e marzo 2016, e parametrate al VI livello del c.c.n.l. RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE dalla stessa rivendicato. La sua domanda era basata sulla sentenza del Tribunale di Roma n. 12245/2009, pronunciata in separato procedimento, che aveva accertato l’interposizione fittizia di manodopera nell’appalto di servizi tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (poi divenuta RAGIONE_SOCIALE) e riconosciuto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la lavoratrice e la RAGIONE_SOCIALE dal 4.2.2002 al 31.3.2003; questa sentenza era stata in parte riformata dalla Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 2426/ 2012, che, in accoglimento dell’appello incidentale della RAGIONE_SOCIALE, ne aveva accertato come tuttora in essere il rapporto con la RAGIONE_SOCIALE e ordinato a quest’ultima il ripristino del rapporto medesimo (il ricorso per cassazione avverso la sentenza n.
2426/2012 è stato respinto con sentenza Cass. n. 27105/2018). La società non ha ottemperato all’ordine di ripristino e la lavoratrice, nel giudizio per cui ora è causa, ha reclamato il diritto al pagamento RAGIONE_SOCIALE retribuzioni per il periodo 2012-2016 (parametrate al VI livello del c.c.n.l. RAGIONE_SOCIALE), sul presupposto della avvenuta messa in mora, coincidente con la notifica dell’originario ricorso (26.10.2007) per l’accertamento della illegittima interposizione.
Il tribunale, qualificata come risarcitoria l’obbligazione gravante sul datore di lavoro, ha respinto la domanda della COGNOME.
La Corte d’appello di Roma (sentenza n. 1544/2020) ha richiamato il principio di diritto enunciato dalle S.U. della Corte di cassazione con la sentenza 2990 del 2018, secondo cui ‘in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, salvo gli effetti dell’art. 29, comma 3 bis, d.lgs. n. 276/2003, a decorrere dalla messa in mora’; ha accertato che la RAGIONE_SOCIALE non aveva ottemperato all’ordine di ripristino del rapporto di lavoro; ha riconosciuto il diritto dell’appellante alle retribuzioni per il periodo da aprile 2012 a marzo 2016; ha ritenuto che i pagamenti eventualmente eseguiti da terzi nel periodo in contestazione non potessero avere incidenza liberatoria, ai sensi dell’art. 1180, comma 1, c.c., essendo pacifico che la RAGIONE_SOCIALE non aveva più lavorato su appalti RAGIONE_SOCIALE dopo il 31.3.2003; ha accertato che le mansioni svolte dalla predetta, come descritte nel ricorso introduttivo del separato giudizio concluso con la sentenza n. 12245/2009 e come ricostruite in tale sentenza (ora passata in giudicato), erano
riconducibili al quarto livello contrattuale; ha condannato la RAGIONE_SOCIALE al pagamento RAGIONE_SOCIALE retribuzioni pari ad euro 72.738,70, detraendo dall’importo originariamente richiesto (parametrato al IV livello contrattuale e non contestato dalla società), la somma di euro 20.000,00 quale somma già riconosciuta alla lavoratrice con sentenza del Tribunale di Roma n. 5259/2019 per il periodo dal 2015 in poi.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione (notificato il 15.1.2021 e iscritto come R.G. n. NUMERO_DOCUMENTO) sulla base di due motivi, illustrati da memoria. NOME COGNOME ha resistito con controricorso. Avverso la stessa sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione (notificato il 15.1.2021 e iscritto come R.G. n. NUMERO_DOCUMENTO) affidato a due motivi e la RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso e ricorso incidentale (notificato il 24.2.2021) basato su due motivi (identici a quelli oggetto del ricorso principale).
Come statuito da questa Corte, il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notifica della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’annuale) di impugnazione in astratto operativi (v. Cass. n. 5695 del 2015; n. 440 del 2020; n. 36057 del 2021).
Alla luce di tali principi e dovendosi procedere alla riunione RAGIONE_SOCIALE impugnazioni (art. 335 c.p.c.), il ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE, notificato nella stessa data in cui è stato notificato il separato ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE ma con numero di iscrizione anteriore (R.G. 2237/2021), assume la veste di ricorso principale, mentre l’autonomo ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE (R.G. n. 3048/2021) assume la veste di ricorso incidentale. Il ricorso incidentale, proposto dalla RAGIONE_SOCIALE in sede di controricorso nel proc. R.G. n. 3048/2021, va, invece, dichiarato inammissibile per le ragioni che saranno esposte nel prosieguo (v. infra § 12).
7. La controversia, originariamente fissata per l’adunanza camerale del 13 dicembre 2023, in vista della quale entrambe le parti avevano depositato memorie, è stata rinviata per la trattazione in pubblica udienza. La RAGIONE_SOCIALE ha depositato una nuova memoria. L’AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
Ragioni della decisione
Ricorso della RAGIONE_SOCIALE nel proc. 2237/2021
8. Con il primo motivo di ricorso la società deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 c.c. nonché degli artt. 3, 4, 24 e 111 Cost., in relazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale. Sostiene che la sentenza RAGIONE_SOCIALE Sezioni Unite n. 2990 del 2018 violerebbe il principio di proporzionalità quando afferma che l’effettività della tutela giurisdizionale potrebbe essere garantita soltanto dal rimedio del diritto all’adempimento dell’obbligazione retributiva anziché dal rimedio del diritto al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute; inoltre, lamenta che la citata sentenza neppure distingue il caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro avvenga in p resenza di un titolo esecutivo giudiziale provvisoriamente esecutivo ma
in attesa di conoscere l’esito dell’impugnazione proposta, rispetto al caso in cui l’inadempimento riguardi un titolo esecutivo giudiziale già passato in giudicato.
Con il secondo motivo di ricorso la società denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 e 1463 c.c., e censura la sentenza nella parte in cui ha statuito che col ricorso introduttivo di primo grado del 26.10.2007 (nell’ambito del separato giudizio sul riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato tra la lavoratrice e la RAGIONE_SOCIALE) la RAGIONE_SOCIALE aveva messo in mora la società RAGIONE_SOCIALE. Afferma che, secondo i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2990 del 2018, l’atto giuridico di messa in mora nei confronti del datore di lavoro deve essere successivo alla pronuncia dell’ordine giudiziale di ripristino del rapporto; che la sentenza appellata ha affermato il diritto della COGNOME di ricevere la retribuzione pur in mancanza della prestazione lavorativa, senza aver accertato se la stessa avesse offerto, oppure no, la sua prestazione alla RAGIONE_SOCIALE in epoca successiva alla sentenza che aveva ordinato il ripristino del rapporto; che con il ricorso introduttivo di primo grado la lavoratrice neppure aveva allegato di aver offerto la prestazione alla società dopo la pronuncia della sentenza contenente l’ordine di ripristino del rapporto.
Ricorso incidentale della RAGIONE_SOCIALE nel proc. 3048/2021
Con il primo motivo di ricorso la società deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 c.c. nonché degli artt. 3, 4, 24 e 111 Cost., in relazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale, reiterando gli argomenti già esposti nel primo motivo di ricorso nel proc. 2237/2021.
Con il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli
artt. 1206, 1207, 1217 e 1463 c.c., in relazione al presupposto della costituzione in mora, reiterando gli argomenti già esposti nel secondo motivo di ricorso nel proc. 2237/2021.
Preliminarmente, data l’ammissibilità e la procedibilità del ricorso (principale) proposto dalla RAGIONE_SOCIALE nel proc. n. 2237/2021 e rilevata l’identità dei motivi articolati nel ricorso incidentale svolto dalla medesima società nel proc. n. 3048/2021, deve dichiararsi inammissibile tale ricorso incidentale (notificato per ultimo) in ossequio ai principi già affermati da questa Corte (v. Cass n. 27555 del 2011; n. 15582 del 2020) secondo cui ‘nell’ipotesi in cui vengano iscritti due ricorsi per cassazione di identico contenuto, proposti dalla stessa parte contro la medesima sentenza, uno in via principale e l’altro in via incidentale rispetto al ricorso principale di un’altra parte, qualora la loro notificazione sia stata coeva, in sede di loro riunione, deve essere data priorità di esame a quello iscritto per primo, e, se esso sia ammissibile e procedibile, la sua decisione rende inammissibile, in via sopravvenuta, l’altro ricorso’.
Esame ricorso principale della RAGIONE_SOCIALE
Il primo motivo del ricorso COGNOME (nel proc. 2237/2021) non è fondato, alla luce dell’univoca giurisprudenza di legittimità, già richiamata da questa Corte in analoga controversia (v. Cass. n. 13815 del 2023).
La questione della natura dei crediti vantati dai lavoratori per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro da parte della committente, nonostante la sentenza di accertamento della interposizione fittizia di manodopera, ha trovato soluzione nel senso della natura retributiva e non più risarcitoria, in base all’insegnamento RAGIONE_SOCIALE Sezioni unite civili di questa Corte con la sentenza n. 2990 del 2018. In tale pronuncia, valorizzando alcuni spunti tratti dalla sentenza
della Corte Cost. n. 303 del 2011, si è cercato di individuare un punto di equilibrio tra ‘il più generale fenomeno dell’incoercibilità del comportamento e della cooperazione datoriale e il principio della necessaria effettività della tutela processuale e, dunque, della piena attuazione dei diritti del lavoratore’. Si è quindi adottata un’interpretazione costituzionalmente orientata, in relazione agli artt. 3, 36 e 41 Cost., con superamento della regola sinallagmatica della corrispettività giudicata ‘in idonea a fornire al lavoratore una tutela effettiva’ e ad evitare che il predetto debba subire ‘le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all’esecuzione dell’ordine giudiziale’. Secondo la pronuncia RAGIONE_SOCIALE S.U. cit., ‘il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico RAGIONE_SOCIALE retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore’.
15. A tale indirizzo la Corte costituzionale, con la sentenza n. 29 del 2019, ha riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto, anche per la fattispecie della illegittima cessione di ramo d’azienda, evidenziando come la pronuncia RAGIONE_SOCIALE S.U. n. 2990 d el 2018 miri a ‘ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro’. Questo Collegio condivide e fa propri gli argomenti esposti nella sentenza appena citata, non scalfiti dal motivo di ricorso in esame, che deve pertanto essere respinto.
16. Il secondo motivo di ricorso della RAGIONE_SOCIALE pone la questione della necessità di una messa in mora della società, da parte della lavoratrice, collocata temporalmente in epoca successiva alla pronuncia della sentenza che, accertata l’interposizione fittizi a di manodopera quale effetto della non
genuinità dell’appalto, abbia dichiarato esistente un rapporto di lavoro subordinato tra la lavoratrice e l’utilizzatore e ordinato a quest’ultimo il ripristino del rapporto.
17. La tesi propugnata dalla società fa leva su alcune espressioni adoperate nella sentenza RAGIONE_SOCIALE Sezioni Unite e lette come significative di una successione temporale tra la sentenza che accerta l’interposizione fittizia e dichiara esistente un rapporto di lavoro subordinato e la messa in mora ad opera della lavoratrice attraverso l’intimazione a ricevere la prestazione. La società fa riferimento, in particolare, alla sentenza RAGIONE_SOCIALE S.U. nella parte in cui afferma che ‘nel momento successivo alla declarato ria di nullità dell’interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo’ (§ 13) e là dove statuisce: ‘Ciò induce a ritenere che nelle ipotesi in cui i lavoratori, dopo aver richiesto l’accertamento giudiziale della invalidità del contratto in violazione di norme imperative in tema di divieto di interposizione di manodopera in un appalto di servizi, abbiano ottenuto l’ordine giudiziale di ripristino del rapporto nei confronti del reale datore di lavoro (nella specie: l’impresa committente), offrano a quest’ultima le loro prestazioni, senza essere stati riammessi in servizio, deve evitarsi, secondo i principi generali in tema di adempimento contrattuale, che subiscano le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispet to all’esecuzione dell’ordine giudiziale’ (§ 14). Nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ha aggiunto come in senso analogo depongano successive pronunce della Sezione Lavoro (Cass. n. 26762 del
2019; n. 21160 del 2019; n. 30091 del 2023; n. 31642 del 2023) in cui è scritto che ‘una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione RAGIONE_SOCIALE energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva’ (memoria p. 2, ultimo cpv. e p. 3).
La tesi della società ricorrente è argomentata assumendosi che, nella ricostruzione fatta dalle Sezioni Unite, il superamento della regola sinallagmatica della corrispettività avrebbe una finalità in senso lato sanzionatoria (una finalità di astreinte e compulsoria) nei confronti del datore di lavoro e che la necessità di una messa in mora successiva alla sentenza che accerta il fenomeno interpositorio risponderebbe all’esigenza di individuare un ‘punto di equilibrio’ tra ‘il più generale fenomeno dell’ incoercibilità del comportamento e della cooperazione datoriale’ e la ‘necessaria effettività della tutela processuale e, dunque, della piena attuazione dei diritti del lavoratore’.
La pretesa della società ricorrente in ordine alla necessaria posteriorità temporale della messa in mora rispetto alla sentenza dichiarativa della interposizione fittizia di manodopera, non trova riscontro nella decisione RAGIONE_SOCIALE S.U. e nelle successive pronunce di questa Corte e nei principi generali dell’ordinamento, il che comporta l’insussistenza della violazione di legge denunciata.
Occorre partire dalla premessa per cui, in base alla disciplina dettata dall’art. 1460 c.c. in materia di contratti a prestazioni corrispettive, il rifiuto, di uno dei contraenti, di eseguire la prestazione è legittimo solo quando la controparte non abbia adempiuto la propria prestazione o non abbia offerto di adempierla contemporaneamente. Da ciò discende
che, non potendosi considerare inadempiente colui che offre di adempiere ma non può farlo per il rifiuto della controparte, il mancato adempimento di quest’ultima riveste carattere di illegittimità. In tale contesto, l’intimazione a ricevere la prestazione costituisce un atto giuridico volto a formalizzare il rifiuto della controparte (v. Cass. 24886 del 2006).
Ai fini che qui interessano, deve inoltre rilevarsi che la sentenza dichiarativa della interposizione fittizia e della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’effettivo utilizzatore ha effetto ex tunc , dall’inizio della interposizione (v. Cass. n. 8385 del 2019; n. 823 del 2020). Ciò comporta che la messa in mora, o meglio l’intimazione a ricevere la prestazione, ove a suo tempo effettuata col ricorso introduttivo del giudizio o con atto separato successivo, risulta eseguita nei confronti di chi, ex post e in conseguenza della pronuncia giudiziale, deve essere considerato de iure datore di lavoro.
A fronte di tale condizione di mora accipiendi , non vi è alcuna ragione di ordine giuridico e sistematico che possa fondare la necessità di una ulteriore messa in mora della società datoriale a fronte del persistere della medesima condotta inadempiente (rifiuto di ricevere la prestazione), anche dopo e nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico. Né rileva, a tal fine, la diversa natura dell’obbligazione che viene a gravare sulla parte datoriale nei due distinti segmenti temporali: natura risarcitoria per il periodo precedente la pronunzia di illegittimità della vicenda interpositiva o traslativa (Cass. n. 5788 del 2023; n. 6902 del 2023; n. 22041 del 2023) e natura retributiva per il periodo successivo a tale pronuncia giudiziale (Cass. S.U. 2990 del 2018 cit.).
E’ utile al riguardo ricordare come il carattere retributivo dell’obbligo facente capo al datore di lavoro, giudizialmente
riconosciuto tale, che senza giustificato motivo non ricostituisce il rapporto, è affermata dalle S.U. non solo in base al principio di effettività della tutela processuale ma, prima ancora, per la ragione che ‘dal rapporto di lavoro, riconosciuto dalla pr onuncia giudiziale, discendono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti ed, in particolare, con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare la retribuzione, e ciò anche in caso di mora credendi e, quindi, di mancanza della prestazione lavorativa per rifiuto di riceverla’ (sentenza S.U., p. 16, § 13).
Ciò in perfetta sintonia con quanto statuito dalla Corte Cost. nella sentenza n. 303 del 2011 (§ 3.3.1) secondo cui ‘a partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva’.
Poste tali premesse, deve quindi ritenersi che la sentenza RAGIONE_SOCIALE SU n. 2990 del 2018 individua, quali elementi costitutivi dell’obbligo retributivo del datore di lavoro effettivo, e del corrispondente diritto del lavoratore, la sentenza dichiarativa della interposizione fittizia e di esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con l’effettivo utilizzatore e la messa in mora (o meglio, l’intimazione a ricevere la prestazione) nei confronti di quest’ultimo, affinché risulti l’impossibilità della presta zione per fatto imputabile all’utilizzatore medesimo. Tali elementi costitutivi non sono richiesti secondo una rigida e predeterminata sequenza temporale, come preteso dalla società ricorrente, ma unicamente come requisiti che devono concorrere al fine di
fondare l’obbligo retributivo del datore di lavoro che non si conformi all’ordine giudiziale.
26. Nel caso in esame, la Corte d’appello ha accertato che ‘con la notifica dell’originario ricorso COGNOME NOME ha altresì messo in mora la società nonché offerto le proprie prestazioni lavorative (v. punto 15 del ricorso -doc. 1 del fascicolo di primo grado di COGNOME NOME), con la conseguenza che avendo la RAGIONE_SOCIALE rifiutato di ricevere la prestazione offerta e negato la riammissione in servizio della lavoratrice, non ottemperando all’ordine giudiziale che ha accertato l’interposizione fittizia di manodopera e affermato la sussistenza del rapporto di lavoro con l’interponente RAGIONE_SOCIALE fin dall’origine – la RAGIONE_SOCIALE stessa, quale effettivo datore di lavoro, è tenuta all’adempimento dell’obbligazione retributiva’ (sentenza appello p. 6, penultimo cpv.).
La sentenza d’appello, riconosciuto valore di messa in mora al ricorso introduttivo del giudizio del 26.10.2007, a fronte della sentenza (Corte d’appello n. 2426/2012) dichiarativa della interposizione fittizia e della esistenza di un rapporto subordin ato con RAGIONE_SOCIALE fin dall’origine, ha riconosciuto il diritto della lavoratrice alle retribuzioni per il periodo, come rivendicato, dall’aprile 2012 (successivo alla citata sentenza) al marzo 2016.
28. Il secondo motivo di ricorso della RAGIONE_SOCIALE risulta, in conclusione, infondato.
Ricorso NOME COGNOME nel proc. n. 3048/2021 – ricorso incidentale
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 2103 c.c. per avere la Corte d’appello violato il procedimento ermeneutico, non distinguendo le categorie di inquadramento e sussumendo erroneamente le mansioni della ricorrente nel quarto livello; inoltre, per aver adottato
una motivazione apparente su un punto decisivo della controversia.
Si premette che la contrattazione collettiva applicata al rapporto (c.c.n.l. RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE) non contempla le figure dell’addetto all’help desk o l’operatore di call center e che deve necessariamente farsi ricorso all’analogia; si tra scrivono le declaratorie di IV, V e VI livello; si rileva che la sentenza ora impugnata ha tratto il proprio convincimento da quanto accertato nella sentenza del Tribunale di Roma n. 12245/2009 ai fini, non del corretto inquadramento contrattuale, bensì unicamente dell’interposizione fittizia di manodopera; si assume che i giudici di appello abbiano omesso di indagare sulla minore o maggiore complessità RAGIONE_SOCIALE risposte fornite agli uffici periferici del RAGIONE_SOCIALE e di valutare la complessità dei manuali operativi predisposti dai dipendenti RAGIONE_SOCIALE.
Il motivo di ricorso è inammissibile.
La ricorrente incidentale, sia pure sotto la formale denuncia di violazione dell’art. 2103 c.c., censura nella sostanza la valutazione operata dalla Corte d’appello riguardo agli elementi probatori raccolti e desunti, legittimamente, dall’accertamento contenuto nella sentenza n. 12245/2009, sulla base RAGIONE_SOCIALE allegazioni svolte in quel procedimento dalla lavoratrice ed espressamente richiamate in questo giudizio.
Come è noto, il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, RAGIONE_SOCIALE quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione del relativo utilizzo (Cass. n. 840 del 2015; n. 25067 del 2018).
La critica rivolta alla decisione di appello poggia sulla necessaria rivalutazione degli elementi fattuali, operazione
non consentita in questa sede di legittimità ed estranea all’ambito del vizio di violazione di legge. Resta fermo quanto ancora di recente ribadito dalle Sezioni unite civili circa l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (v. Cass. S.U. n. 34476 del 2019; conf. S.U. n. 33373 del 2019; S.U. n. 25950 del 2020).
35. La motivazione sul punto non è di certo qualificabile come apparente atteso che non ricorrono le anomalie individuate dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 e implicanti una violazione di legge costituzionalmente rilevante ed è invece percepibile e intelligibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale per respingere l’impugnazione della lavoratrice.
36. Con il secondo motivo la ricorrente incidentale deduce violazione e falsa applicazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Assume che la Corte d’appello avrebbe erroneamente detratto l’importo di euro 20.000,00 sul presupposto di un bis in idem in realtà inesistente e, difatti, mai eccepito dalla società; che nel giudizio definito con la sentenza n. 5529/2019 (allegata al ricorso per cassazione) la RAGIONE_SOCIALE aveva chiesto il pagamento RAGIONE_SOCIALE retribuzioni da aprile 2016 al 28 febbraio 2018, quindi per un periodo assolutamente non sovrapponibile a quello oggetto di causa; che, nel giudizio odierno, la difesa della RAGIONE_SOCIALE aveva prodotto la sentenza n. 5529/2019 al fine di fare constatare l’avvenuto
riconoscimento del VI livello contrattuale; che non aveva prodotto il ricorso della lavoratrice che è stato prodotto in allegato al ricorso per cassazione.
Il motivo è inammissibile in quanto l’errore che si assume commesso dai giudici di appello si fonda su un atto processuale, il ricorso introduttivo del giudizio definito con la sentenza del Tribunale di Roma n. 5529/2019, che la stessa parte ricorrente allega non essere stato prodotto nei gradi di merito ma per la prima volta solo nel giudizio di cassazione (v. ricorso della COGNOME nel proc. n. 3048/2021, p. 15, ultimo cpv.); tale produzione è inammissibile ai sensi dell’art. 372 c.p.c.
38. Per le ragioni esposte, si deve respingere il ricorso della RAGIONE_SOCIALE nel procedimento n. 2237/2021 e dichiarare inammissibile il ricorso di NOME COGNOME e il ricorso incidentale della RAGIONE_SOCIALE proposti nel proc. n. 3048/2021, con compensazione RAGIONE_SOCIALE spese del giudizio di legittimità in ragione della reciproca soccombenza.
39. Il rigetto e la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte, riunito al presente procedimento quello n. 3048/2021, rigetta il ricorso della RAGIONE_SOCIALE nel proc. n. 2237/2021 e dichiara inammissibile il ricorso di NOME COGNOME e il ricorso della RAGIONE_SOCIALE proposti nel proc. n. 3048/2021.
Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della RAGIONE_SOCIALE e di NOME COGNOME dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto. Così deciso all’udienza del 14 maggio 2024