Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 26035 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 26035 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 24/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16414-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 650/2023 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 05/06/2023 R.G.N. 271/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/07/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Fatti di causa
Oggetto
Licenziamento
ex lege n. 92 del 2012
R.G.N. 16414/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 08/07/2025
CC
Con lettera del 10.2.2022 la RAGIONE_SOCIALE ha intimato a NOME COGNOME licenziamento per giustificato motivo oggettivo per la soppressione, nell’organigramma aziendale, della posizione di ‘Responsabile Ufficio Tecnico’ e con essa delle posizioni di ‘Responsabile RAGIONE_SOCIALE‘ e ‘Responsabile Gestione Multe’, tutte perimetrate nell’Area tecnico, nonché della posizione di ‘Responsabile Servizio Gestione Certificazioni’ sino ad allora ricoperte dal lavoratore presso la sede di Busto Garolfo (MI).
Impugnato il recesso, il Tribunale di Milano ha respinto le domande del lavoratore ritenendo che non si trattava di un recesso discriminatorio né ritorsivo e che era stata provata la sussistenza del giustificato motivo oggettivo addotta dal datore di lavoro.
La Corte di appello di Milano, con la sentenza n. 650 del 2023, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato, invece, l’illegittimità del licenziamento, con ordine di immediata reintegrazione di NOME COGNOME nel luogo di lavoro e con condanna della società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori, detratta la somma netta percepita nel periodo corrispondente all’importo lordo di euro 21.767,23 entro il limite di dodici mensilità, nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
I giudici di seconde cure hanno rilevato, conformemente al Tribunale, che non si trattava di un licenziamento discriminatorio per attività sindacale né ritorsivo; hanno, poi, precisato che la società non aveva adempiuto all’obbligo del repêchage non avendo dimostrato che, anziché licenziare il lavoratore, avrebbe potuto impiegarlo, anche in via provvisoria, a copertura della posizione di addetto
all’esercizio settore movimento per qualche mese e, successivamente, collocarlo in sostituzione del dipendente Taormina che sarebbe andato in pensione nell’aprile del 2023.
Avverso la sentenza di secondo grado la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi cui ha resistito con controricorso NOME COGNOME
Le parti hanno depositato memorie.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604/1966, anche in relazione all’art. 2103 cod. civ. e 41 cost., ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc. Si sostiene che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che il COGNOME potesse essere adibito alle mansioni assegnate al dipendente Taormina, trattandosi di figure di professionalità distinte e, per lo più, collocate in differenti parametri/livelli nonché di categorie legali di inquadramento, e che, nel periodo di ‘passaggio’ (pari a quindici mesi) potesse svolgere le mansioni di addetto al movimento.
Con il secondo motivo si censura la motivazione apparente e contraddittoria nonché la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604/1966 anche in relazione all’art. 2103 cod. civ. e 41 Cost. ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 4 cpc, perché la gravata sentenza non era chiara su quale tipologia di mansioni il datore di lavoro avrebbe potuto compiere le verifiche connesse al rispetto dell’obbligo di repêchage e perché, poi, se quelle di addetto all’esercizio
fossero state idonee ad assolvere al citato obbligo, il COGNOME avrebbe dovuto essere assegnato in via definitiva a quelle di responsabile di esercizio.
Con il terzo motivo si obietta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1375 e 1175 cod. civ. in relazione alla nozione di ‘congruo arco temporale successivo’ nel quale non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato, con conseguente violazione e/o falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della legge n. 604/1966, anche in relazione all’art. 2103 cod. civ. e all’art. 41 Cost., ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc. Si rappresenta l’erroneità della statuizione della Co rte territoriale che ha esteso l’obbligo di repêchage sotto il profilo temporale oltre ogni ragionevole applicazione rispetto al limite individuato dai principi di buona fede e correttezza.
Con il quarto motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1375 e 1175 cod. civ. in relazione all’art. 21103 cod. civ. con riferimento all’estensione dell’obbligo del repêchage rispetto a tutte le mansioni svolte dal lavoratore nel corso dell’intera durata del rapporto di lavoro, con conseguente violazione e/o falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della legge n. 604/1966, all’art. 2103 cod. civ. e all’art. 41 Cost, ai sensi dell’ art. 360 co. 1 n. 3 cpc.
Con il quinto motivo si eccepisce l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti rappresentato dal possesso delle abilitazioni alla guida che rappresentavano un elemento imprescindibile per l’assegnazione delle mansioni di addetto all’esercizio/controlleria, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc.
Con il sesto motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970 in
relazione alla quantificazione dell’indennità risarcitoria con riferimento agli elementi retributivi componenti la retribuzione globale di fatto, a sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte territoriale ricompreso nella quantificazione della retribuzione globale di fatto compensi eventuali, di cui non era certa la percezione, ovvero compensi che non avevano alcuna funzione retributiva.
Con il settimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 co. 4 della legge n. 300 del 1970, in relazione alla determinazione della misura dell’indennità pari a dodici mensilità, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte territoriale erroneamente liquidato un importo superiore alle dodici mensilità previsto quale tetto massimo dall’art. 18 co. 4 della legge n. 300 del 1970.
I primi quattro motivi, che per la loro connessione logicogiuridica possono essere scrutinati congiuntamente, non sono fondati.
Preliminarmente, va sottolineato che la sentenza n. 128/2024 della Corte costituzionale, nella parte cui fa riferimento alla tutela spettante al lavoratore, licenziato per motivi economici, in ipotesi di violazione dell’obbligo di repêchage , non è pertinente al caso di specie riguardando solo i dipendenti cui si applica il regime del Jobs act , nei quali non rientra il Picaro.
Sempre in via preliminare, va respinta la doglianza con la quale si denuncia la apparenza e contraddittorietà della motivazione della Corte territoriale.
Invero, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di
contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. n. 7090/2022).
Nella specie, la Corte distrettuale ha svolto argomentazioni chiare e logiche in ordine alla ravvisata violazione dell’obbligo di repêchage, operando una disamina sull’esistenza di mansioni che il datore di lavoro avrebbe potuto assegnare al dipendente al fine di evitarne il licenziamento, individuandole in quelle di ‘addetto all’esercizio -settore movimento’, perché già svolte in passato dal lavoratore in quanto corrispondenti ad un solo livello di inquadramento inferiore al suo e perché l’espletamento di tali mansioni non richiedevano il possesso di alcuna specifica patente; per completezza, i giudici di seconde cure hanno, poi, aggiunto che, dopo circa un anno dall’attribuzione di quelle mansioni, il COGNOME avrebbe potuto essere assegnato alle mansioni di responsabile di esercizio di un dipendente (tale Taormina) che sarebbe andato in pensione nell’aprile del 2023.
L’iter logico seguito, in ordine al rilevato mancato assolvimento dell’obbligo di repêchage è, quindi, desumibile con chiarezza e non è assolutamente viziato da ‘apparenza’
o ‘affermazioni inconciliabili’ essendo i passaggi decisionali comprensibili, ragionati e consequenziali.
Con riguardo, poi, alle problematiche del repêchage in relazione alla mobilità verticale (mansioni inferiori) va rilevato che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto sussistente, sia con riferimento alla precedente versione dell’art. 2103 cod. civ. che alla nuova, l’obbligo di repêchage nelle mansioni del livello immediatamente inferiore, purché siano compatibili con il bagaglio professionale del lavoratore e non comportino mutamenti dell’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall ‘imprenditore ai sensi dell’art. 41 Cost. (Cass. n. 13379; Cass. n. n. 22798/2016; Cass. n. 4509/2016).
Inoltre, è stato precisato che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a seguito della soppressione del posto di lavoro, ai fini dell’obbligo del repêchage , non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un’ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro (Cass. n. 31520/2019; Cass. n. 17036/2024).
La gravata sentenza è in linea con tali principi e tutte le altre doglianze, di cui ai motivi, attengono ad accertamenti di fatto, compiuti dalla Corte territoriale e adeguatamente motivati, di talché essi non sono sindacabili in questa sede.
In particolare, la valutazione del ‘congruo periodo’, entro il quale non debba essere effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica del lavoratore licenziato, attenendo
all’esame sull’assolvimento da parte del datore di lavoro dell’onere della prova della impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in mansioni equivalenti a quelle del posto di lavoro soppresso, è incensurabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata ed immune da vizi, come appunto avvenuto nel caso di specie.
Il quinto motivo è infondato.
L’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (per tutte, Cass. n. 17005/2024).
Nella fattispecie, il fatto storico del mancato possesso, da parte del Picaro di alcuni tipi di patente (E e D), è stato valutato e ritenuto ininfluente ai fini dell’assegnazione alle mansioni di addetto al movimento: tanto basta per rendere non meritevole di accoglimento la censura.
Il sesto motivo è anche esso infondato.
In tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 St. lav. (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012), la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a
quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato – dovendosi ricomprendere nel suo complesso anche ogni compenso avente carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento -, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale (Cass. n. 15066/2015; Cass. n. 6744/2022).
La Corte territoriale si è attenuta a tali principi e, anche in questo caso, con un accertamento di fatto (esame della busta paga), ha ritenuto che tra gli emolumenti fissi mensili rientrassero anche il bonus mensile e i buoni pasto.
Il settimo motivo, infine, è inammissibile.
La doglianza di avere i giudici di seconde cure liquidato una indennità risarcitoria con un importo superiore alle dodici mensilità, a fronte della motivata quantificazione operata in sentenza, è generica risolvendosi unicamente in una contestazione senza alcuna critica specifica della ratio decidendi della statuizione.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, con distrazione in favore dei Difensori del controricorrente dichiaratisi antistatari.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dei Difensori del controricorrente dichiaratisi antistatari. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, l’8 luglio 2025
La Presidente
Dott.ssa NOME COGNOME