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Obbligo di fedeltà del lavoratore: i limiti del divieto

Un lavoratore è stato licenziato per giusta causa per aver svolto attività per altre società. La Corte di Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento, ritenendo la sanzione sproporzionata. La Corte ha chiarito i confini dell’obbligo di fedeltà del lavoratore, affermando che la condotta, sebbene disciplinarmente rilevante, non era così grave da giustificare la risoluzione del rapporto, soprattutto in assenza di un danno effettivo per il datore di lavoro e considerato il tempo trascorso dai fatti.

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Obbligo di fedeltà del lavoratore: i limiti del divieto e la proporzionalità della sanzione

L’obbligo di fedeltà del lavoratore, sancito dall’art. 2105 del Codice Civile, rappresenta uno dei pilastri del rapporto di lavoro subordinato. Tuttavia, la sua violazione non comporta automaticamente la legittimità del licenziamento per giusta causa. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre importanti spunti di riflessione sui concetti di concorrenza, proporzionalità della sanzione e rilevanza del danno per l’azienda. Analizziamo insieme questo caso per capire quali sono i limiti di tale obbligo e come viene valutato dai giudici.

I Fatti del Caso: Licenziamento per Sospetta Concorrenza

Il caso ha origine dal licenziamento per giusta causa intimato da un’azienda a un suo dipendente. La società contestava al lavoratore di aver svolto, parallelamente al suo impiego, attività per altre due società, di cui una amministrata dalla moglie. Secondo il datore di lavoro, queste attività, che includevano la promozione su social media e la gestione di immobili, integravano una violazione dei doveri di fedeltà, diligenza e correttezza, sfruttando il know-how aziendale per fini personali e potenzialmente concorrenziali.

Il Tribunale di primo grado, pur riconoscendo l’esistenza della condotta, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, riducendo l’indennità risarcitoria ma riconoscendo al lavoratore l’indennità sostitutiva del preavviso. La decisione era basata su un giudizio di sproporzione tra i fatti contestati e la massima sanzione espulsiva.

La Decisione della Corte d’Appello e il ricorso in Cassazione

La Corte d’Appello, adita sia dall’azienda che dal lavoratore, ha sostanzialmente confermato la decisione di primo grado, aumentando leggermente l’indennizzo per il dipendente. I giudici di secondo grado hanno ribadito che la condotta del lavoratore non integrava una forma di concorrenza sleale in senso proprio, in quanto non era stato provato che le società terze operassero nello stesso settore economico dell’azienda datrice di lavoro. Inoltre, la Corte ha valorizzato due aspetti cruciali: le condotte risalivano a diversi anni prima del licenziamento (2014-2015) senza che l’azienda avesse subito alcun danno concreto e, successivamente a tali episodi, il percorso professionale del lavoratore era proseguito con successo e riconoscimenti interni. Di conseguenza, il licenziamento è stato ritenuto una sanzione sproporzionata.

L’azienda ha quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra le altre cose, una violazione e falsa applicazione delle norme sull’obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.) e sulla concorrenza.

L’Obbligo di Fedeltà del Lavoratore e il Giudizio di Proporzionalità

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, confermando l’illegittimità del licenziamento. La decisione si fonda su un’attenta analisi del principio di proporzionalità, che deve sempre guidare il giudice nella valutazione della legittimità di una sanzione disciplinare, specialmente quella espulsiva. La Corte ha chiarito che, sebbene le attività extra-lavorative del dipendente fossero disciplinarmente rilevanti (in quanto svolte sviando tempo di lavoro dalle finalità contrattuali), non raggiungevano una gravità tale da giustificare la risoluzione del rapporto.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si sono concentrate su più punti. In primo luogo, è stato ribadito che l’obbligo di fedeltà vieta al lavoratore di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore. Tuttavia, nel caso di specie, non era emersa una reale concorrenza, poiché le attività delle società terze non si sovrapponevano a quelle del datore di lavoro. Mancava quindi l’elemento della concorrenza effettiva nello stesso settore produttivo o commerciale.

In secondo luogo, la Corte ha dato grande peso all’assenza di un danno concreto per l’azienda e al notevole lasso di tempo intercorso tra i fatti contestati e il licenziamento. Questo arco temporale, secondo i giudici, permette di escludere, a posteriori, anche una mera potenzialità lesiva delle condotte. Se un comportamento non ha prodotto alcun pregiudizio per anni, è difficile sostenere che abbia minato irreparabilmente il vincolo fiduciario.

Infine, il fatto che il lavoratore avesse continuato a ricevere riconoscimenti professionali dopo gli episodi contestati è stato interpretato come una prova indiretta che la società non aveva risentito di alcun danno e, anzi, aveva continuato ad apprezzare l’operato del dipendente. Questo ha ulteriormente ridimensionato la gravità della “distrazione” di tempo e risorse.

Le conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un importante principio: la violazione dell’obbligo di fedeltà non legittima di per sé il licenziamento per giusta causa. È sempre necessario un giudizio di proporzionalità che tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto: la natura della condotta, l’assenza di un danno effettivo o potenziale per l’azienda, il tempo trascorso dai fatti e il comportamento complessivo del lavoratore. Un licenziamento è giustificato solo in presenza di un inadempimento notevole, tale da ledere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e non consentire la prosecuzione del rapporto.

Svolgere un’attività per un’altra società viola sempre l’obbligo di fedeltà?
Non necessariamente. La violazione sussiste se l’attività è in concorrenza con quella del datore di lavoro, ovvero se viene svolta nello stesso settore produttivo o commerciale. Come precisa la sentenza, la condotta può essere disciplinarmente rilevante per altre ragioni (es. uso del tempo di lavoro), ma non integra automaticamente una violazione dell’obbligo di fedeltà se manca l’elemento della concorrenza.

Un licenziamento per giusta causa è legittimo anche se l’azienda non ha subito un danno concreto?
La Corte ha stabilito che l’assenza di un danno concreto è un elemento fondamentale nella valutazione della proporzionalità della sanzione. Se le condotte contestate, avvenute anni prima, non hanno prodotto alcun pregiudizio per il datore di lavoro, è difficile sostenere che abbiano compromesso in modo irreparabile il rapporto di fiducia, rendendo sproporzionata la sanzione espulsiva.

Il tempo trascorso tra la condotta e la contestazione ha rilevanza?
Sì, ha una notevole rilevanza. Nel caso esaminato, il considerevole arco temporale tra le condotte (2014-2015) e il licenziamento (2021), unito all’assenza di danni, ha permesso alla Corte di escludere a posteriori la potenzialità lesiva di tali comportamenti. Inoltre, il fatto che nel frattempo il lavoratore abbia continuato la sua carriera con successo all’interno dell’azienda ha ulteriormente indebolito la gravità dell’addebito.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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