Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19377 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19377 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 14/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 19264-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 450/2024 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 18/07/2024 R.G.N. 177/2024;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Oggetto
Licenziamento per giusta
causa
R.G.N.19264/2024
COGNOME
Rep.
Ud.09/04/2025
CC
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 60/2024 il Tribunale di Prato aveva parzialmente accolto l’opposizione di RAGIONE_SOCIALE all’ordinanza del medesimo Tribunale che, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, e come corretta con provvedimento del 3.4.2023, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento dalla stessa società intimato a Trentanove Lorenzo ed aveva condannato la RAGIONE_SOCIALE al pagamento in favore del lavoratore di un’indennità risarcitoria pari a 10 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto (appl icando la tutela obbligatoria ex lege n. 604/1966); con tale sentenza, infatti, il Tribunale aveva, da un lato, ridotto da 10 a 4 il numero di mensilità oggetto della condanna, dall’altro, aveva aggiunto la condanna della datrice di lavoro al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso pari ad € 68.854,88.
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Firenze, in parziale accoglimento del reclamo incidentale proposto dal lavoratore contro detta sentenza, ha determinato in 6 mensilità, anziché in 4 mensilità, la misura dell’indennizzo spettante al Trentanove ai sensi dell’art. 8 legge 604/1966, ha respinto, per il resto, il reclamo incidentale ed ha respinto (integralmente) il reclamo principale della RAGIONE_SOCIALE contro la medesima sentenza.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva: a) che, con una seconda contestazione disciplinare con lettera del 14.10.2021 (seguita ad altra che non aveva avuto conseguenze sanzionatorie), ossia, quella che aveva condotto dal recesso datoriale per giusta causa, la società aveva addebitato al lavoratore lo svolgimento di progetti e la conclusione di affari -sfruttando le risorse, i
mezzi ed il know how aziendali -in proprio mediante la partecipazione alla RAGIONE_SOCIALE e alla RAGIONE_SOCIALE, facente capo alla moglie del lavoratore, NOME COGNOME e che queste condotte integravano, secondo la società, una violazione di doveri di fedeltà, diligenza, correttezza e buona fede; b) che il Tribunale, respinte le eccezioni sollevate dalla società per quanto riguarda l’ammissibilità della domanda proposta in base alla c.d. tutela obbligatoria ( ex lege 604/1966), e respinta, altresì, l’eccezione d’intempestività della contestazione disciplinare sollevata dal lavoratore, sempre su altra eccezione di quest’ultimo, aveva reputato generica una seconda parte della stessa contestazione (ma non la prima); c) che il Tribunale aveva ritenuto provato documentalmente l’inadempimento contestato, sicché escludeva il denunciato carattere ritorsivo del licenziamento, ma aveva concordato con il giudice della fase sommaria per quanto riguarda la sproporzione tra fatto contestato e sanzione applicata.
Riferiti, quindi, i motivi dei contrapposti reclami, la Corte giudicava anzitutto infondate le questioni preliminari sulle quali insisteva la reclamante principale: I) in merito all’inammissibilità o improcedibilità della domanda formulata (solo con le deduzioni a verbale del 29.4.2022) per l’applicazione della tutela prevista dall’art. 8 legge 604/66; II) circa l’inammissibilità della domanda relativa all’indennità sostitutiva del preavviso, domanda che, secondo la società, il Trentanove aveva formulato solo nel giudizio di opposizione.
Per altro verso, la Corte riteneva che non potessero essere accolte le eccezioni sollevate dal lavoratore reclamato per quanto riguarda la genericità ed il difetto di tempestività
della contestazione disciplinare.
Passando a considerare il merito in senso stretto della causa, la Corte in sintesi: a) evidenziava come le condotte oggetto di contestazione non fossero state negate, nella sostanza, dal lavoratore incolpato per quanto egli ne avesse evidenziato la compatibilità con il rapporto in essere con RAGIONE_SOCIALE; b) riteneva che, analizzata tale condotta, essa non integrava una forma di concorrenza sleale in senso proprio perché non era emerso che le due società per le quali il lavoratore aveva svolto attività operassero nello stesso settore economico della RAGIONE_SOCIALE; c) osservava che, considerando, dunque, le circostanze del caso concreto e la mancanza di evidenza di un danno subito da RAGIONE_SOCIALE, la condotta contestata non appariva così grave da giustificare il recesso del datore di lavoro, che doveva quindi dirsi illegittimo; d) concordava con il Tribunale laddove aveva evidenziato due aspetti: – in primo luogo, il fatto che le condotte in questione fossero avvenute molti anni prima del licenziamento (negli anni 2014 e 2015), senza che la società ne avesse ricevuto alcun danno concreto; – in secondo luogo, il fatto che -dopo tali condotte -il percorso professionale del Trentanove fosse proseguito senza intoppi ed, anzi, con ‘continui riconoscimenti’; e) riteneva che la sussistenza di una condotta disciplinarmente rilevante induceva ad escludere il carattere ritorsivo del licenziamento; f) considerava che l’indennità spettante al lavoratore ex art. 8 l. n. 604/1966 doveva essere liquidata nella misura di 6 mensilità.
Avverso tale decisione RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
L’intimato resiste con controricorso e successiva
memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia ex art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 1, co. 47, 48 e 51 L. n. 92/2012, 101, 112, 414 e 420 c.p.c. e 111 Cost.)’. Deduce che: ‘la sentenza è affetta da errore di diritto poiché nel procedimento ex art. 1 co. 47 L. 92/2012 poteva trovare ingresso esclusivamente la domanda formulata in via principale da Trentanove, relativa alla nullità della risoluzione del rapporto per ritorsione/discriminazione, atteso che l’unica ulteriore domanda formulata in via di ipotesi da controparte -relativamente all’applicazione delle conseguenze di cui all’art. 18, co. 4, 5 e 7 L. 300/1970 era affetta da inammissibilità per carenza del requisito dimensionale di COGNOME che all’udienza 29/04/2022 la difesa di COGNOME non ha contestato (doc. A fascicolo di cassazione); parimenti la Corte territoriale doveva dichiarare inammissibile la domanda di liquidazione dell’indennità sostitutiva del preavviso in quanto chiesta da controparte solo con il ricorso in opposizione e non con il ricorso introduttivo della fase sommaria’.
Con il secondo motivo denuncia ex art. 360 co. 1 n. 3) c.p.c. denuncia ‘violazione degli artt. 1362, 1363, 2104, 2105, 2119, 2592, 2593 e 2598 c.c. e 238 del contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti da aziende del terziario della distribuzione e dei servizi del 30/07/2019)’. Deduce che: ‘la Corte di Appello richiama il concetto di concorrenza ‘sleale’ -per valutare l’insussistenza dell’antigiuridicità della condotta del Trentanove -erroneamente perché questo è un istituto giuridico che trova applicazione solo nei rapporti tra imprese
mentre Trentanove è stato licenziato per la violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. il quale sancisce uno dei principali doveri a carico del lavoratore, vale a dire quello di non trattare affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio, così come imposto anche da norme di fonte collettiva (cfr. art. 238 del contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti da aziende del terziario della distribuzione e dei servizi) che puniscono la mancanza con il licenziamento’.
Con il terzo motivo deduce ex art. 360 co. 1 n. 4) c.p.c. in relazione all’art. 132 n. 4 c.p.c. e 111 Cost., che ‘la gravità delle reiterate condotte di Trentanove è stata, con motivazione illogica e irragionevole, sminuita dalla Corte territoriale perché i riconoscimenti economici a Trentanove sono stati evidentemente assegnati dalla società in quanto non era a conoscenza delle sue malefatte e non ha quindi senso razionale affermare, come viceversa sostenuto dai Giudici di appello, che le condotte sono avvenute ‘molti anni prima del licenziamento’ perché nel momento in cui la società avesse appreso l’infedeltà di Trentanove lo avrebbe immediatamente licenziato, appunto, ‘molti anni prima’ per grave lesione degli art. 2105 c.c. e 238 ccnl; d’altro canto la contestazione disciplinare non è stata dalla Corte di Appello dichiarata tardiva, così attestandosi implicitamente la tempestività della reazione disciplinare della società nel momento in cui ha appreso delle condotte tenute da Trentanove risalenti nel tempo’.
Il primo motivo è infondato.
5. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai sensi dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012, con il rito c.d. ‘Fornero’ possono essere proposte, oltre alle domande relative all’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 Stat. Lav. anche quelle che siano fondate su fatti costitutivi già dedotti. Così sono state ritenute ammissibili domande di pagamento del t.f.r. e dell’indennità di preavviso sul rilievo che -poiché scaturiscono dalla cessazione del rapporto, e sono fondate su fatti costitutivi già dedotti -il loro esame non comporti un indebito ampliamento sul tema sottoposto a decisione, e consenta di evitare un frazionamento dei processi e delle pronunce in mero rito, permettendo, al contrario, che un’unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro dia luogo ad un unico processo (cfr. Cass. 12/08/2016 n. 17091, e 16/08/2016 n. 17107, entrambe richiamate dalla Corte distrettuale; v. anche in termini il § 7.4. di Cass. n. 38209/2021). Del pari è stata ritenuta ammissibile l’estensione dell’indagine all’esistenza di una giusta causa o della giustificatezza del recesso nel caso di impugnazione di licenziamento ritenuto discriminatorio o, ancora, per il caso di comporto breve in luogo di quello prolungato (cfr. Cass. 04/04/2019 n. 9458). E’ stato, altresì, ritenuto che non costituisce nuova, inammissibile per mutamento della causa peten di, la deduzione di ulteriori motivi di invalidità del licenziamento impugnato, ove fondata sui medesimi fatti costitutivi rispetto a quelli dedotti nella fase sommaria (Cass. n. 9458/2019; n. 27655/2017; in termini nella motivazione v. § 5.1. di Cass. n. 19178/2022). Inoltre, è stato deciso che, al fine dell’applicazione del c.d. rito Fornero è determinante l’istanza di applicazione delle tutele previste dall’art. 18 st. lav. a prescindere dalla fondatezza delle allegazioni che possono
riguardare la effettiva titolarità del rapporto ovvero la sussistenza del requisito dimensionale necessario per procedere alla procedura di licenziamento collettivo (Cass. n. 5240/2020).
Tanto considerato, risulta ex actis : a) che alla prima udienza del 29.4.2022 della fase sommaria del procedimento il difensore dell’istante, alla luce della memoria avversa, precisava, ‘pur richiamandosi alla giurisprudenza in punto di continenza della tutela obbligatoria richiesta, le proprie conclusioni chiedendo, in via subordinata, la tutela ai sensi dell’art. 8 della Legge n. 604 del 1966’ (cfr. il relativo verbale prodotto in questa sede dalla ricorrente e trascritto alle pagg. 27-28 del ricorso); b) che nelle conclusioni (trascritte alle pagg. 30-32 del ricorso per cassazione) formulate nel ricorso in opposizione del lavoratore (pure qui prodotto dalla ricorrente) il lavoratore opponente aveva chiesto, sia pure ‘in via ulteriormente subordinata, accertata l’illegittimità del licenziamento per manifesta insussistenza del fatto contestato, per carenza di giusta causa o giustificato motivo’, di ‘condannare la società convenuta ex art. 8, Legge 604/1966’.
Per quanto riguarda l’indennità sostitutiva del preavviso, sempre nelle conclusioni del ricorso in opposizione del lavoratore risulta che egli aveva chiesto di: ‘in ogni caso, condannare RAGIONE_SOCIALE al pagamento dell’indennità di mancato preavviso, ex art. 2118 c.c. pari a euro 68.854,88 lordi quantificata, come detto, in applicazione dei parametri di cui all’accordo 02.01.2006 ovverosia la somma maggiore o minore, anche in applicazione dei parametri di cui al CCNL, che il Tribunale riterrà di giust NOME
7.1. Mette conto aggiungere a quest’ultimo proposito che
la Corte territoriale, nell’esaminare le questioni preliminari a riguardo riproposte dalla reclamante principale COGNOME aveva già notato, rispetto alla domanda ‘che ha ad oggetto l’indennità sostitutiva del preavviso’, che essa era ‘peraltro già contenuta nel corpo del ricorso che ha introdotto la c.d. fase sommaria’ (così alla fine di pag. 5 dell’impugnata sentenza).
Ed in effetti nel punto 18) a pag. 5 del ricorso ex art. 1, comma 48, l. n. 92/2012 il lavoratore aveva dedotto che: ‘l’indennità sostitutiva del preavviso è pari ad 8 mesi, anziché 120 giorni previsti dal CCNL applicato, in ragione dell’accordo datato 02.01.2006 (doc. 24)’.
Tutto ciò considerato, la sentenza impugnata, a riguardo diffusamente motivata (cfr. pagg. 4-5 della stessa), risulta conforme a tutti i su richiamati principi enunciati da questa Corte.
8.1. In particolare, l’ormai non recente Cass. n. 16662/2015, di nuovo richiamata in senso contrario dalla ricorrente e pur già considerata dai giudici del reclamo, per discostarsene (v. alla fine di pag. 4 della sentenza gravata), costituisce precedente rimasto isolato e ormai da tempo superato dalla giurisprudenza di questa Corte.
Non condivisibile, comunque, è la lettura che sostiene la ricorrente dell’art. 1, comma 51, secondo periodo, l. n. 92/2012, che recita: ‘Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi o siano svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intende essere garantiti’.
9.1. In particolare, contrariamente a quanto assume la ricorrente (ponendo in luce che ‘il Trentanove con il ricorso della fase sommaria non aveva richiesto il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso’), tale disposizione non individua una preclusione in forza della quale nel ricorso che introduce la fase di opposizione il lavoratore, per quanto qui interessa, non possa introdurre domande diverse da quelle formulate con il precedente ricorso introduttivo. La stessa norma, invece, delinea l’area delle ‘domande diverse da quelle di cui al’ precedente comma 47 dello stesso articolo 1, e non diverse da quelle effettivamente proposte con l’iniziale ricorso ex art. 1, comma 48; domande che possono essere formulate con il ricorso in opposizione a condizione, per quello che qui rileva, che ‘siano fondate sugli identici fatti costitutivi’.
Pertanto, in ordine all’indennità sostitutiva del preavviso (che, peraltro, pur in difetto di conclusione specifica a riguardo nel ricorso introduttivo, era stata oggetto di apposita deduzione anche della specifica fonte), la relativa domanda, basandosi sui medesimi fatti costitutivi esposti nell’impugnativa di licenziamento, era senz’altro ammissibile nel ricorso in opposizione.
In relazione alla tutela obbligatoria ex art. 8 l. n. 64/1966, la relativa richiesta era stata ammissibilmente proposta, sia pure in subordine, durante la fase sommaria, e peraltro, per l’appunto in tale chiave, il giudice di quella fase (come poi quelli della fase a cognizione piena e del reclamo) accolse l’impugnativa del lavoratore.
11.1. Invero, non è questionabile che la relativa domanda fosse comunque fondata sui medesimi fatti costitutivi già fatti valere giusta quanto previsto dall’art. 1, comma 47, L. n.
92/2012, e, in concreto, esposti e dedotti nel ricorso introduttivo ex comma 48 dello stesso articolo, integrando all’evidenza solo una tutela meramente obbligatoria, più ‘ debole ‘ anche di quelle disciplinate dai commi quinto, sesto e settimo dell’art. 18 l. n. 300/1970, come novellato dalla stessa l. n. 92/2012.
11.2. Contrariamente, infatti, a quanto deduce tuttora la ricorrente l’esistenza del requisito dimensionale, come disciplinato dai commi ottavo e nono dell’art. 18 cit. novellato, non costituisce un fatto costitutivo delle domande che siano proposte secondo il cd. rito Fornero, nè integra un elemento d’ammissibilità delle stesse, e piuttosto l’assenza di quel requisito, come esattamente evidenziato dalla Corte di merito sulla scorta anzitutto di Sez. un. n. 141/2006, rappresenta un fatto impeditivo che dev’ essere allegato e provato dal datore di lavoro (successivamente in termini tra le altre Cass. n. 9867/2017).
11.3. Pertanto, come già anticipato, ai fini dell’applicazione del rito speciale in questione (poi abrogato), era necessario e sufficiente che, secondo la prospettazione del lavoratore ricorrente, fossero richieste le tutele di cui all’ ‘articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni’, attenendo la sussistenza o meno del requisito dimensionale in questione (come quello necessario alla procedura di licenziamento collettivo) alla possibilità di accogliere nel merito le relative domande in base alle ‘disposizioni dei commi dal quarto al settimo’ dell’art. 18 cit. novellato (v. comma ottavo).
Ma, una volta provato in causa il difetto di tale requisito dimensionale (come nella specie), senz’altro resta ammissibile
la minorata tutela obbligatoria ex art. 8 l. n. 64/1966, ove richiesta ed accordata per i medesimi fatti costitutivi allegati ai fini della tutela maggiore.
Parimenti infondato è il secondo motivo.
Occorre anzitutto considerare che tale censura non coglie pienamente la ratio decidendi dell’impugnata sentenza.
13.1. In particolare, il ragionamento decisorio dei giudici di reclamo come quello dei giudici singoli della doppia fase di primo grado è fondato su un giudizio di sproporzione tra i fatti contestati e la massima sanzione espulsiva applicata.
Invero, anche la Corte territoriale ha annesso rilievo disciplinare a parte della condotta complessivamente contestata, ma ha concluso che essa ‘non appare così grave da giustificare il recesso del datore di lavoro, che deve quindi dirsi illegittimo’.
Ebbene, anzitutto costituisce indirizzo consolidato di questa Corte, anche di recente ribadito, quello per cui, in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso – rimesso al giudice di merito si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento addebitato al lavoratore in relazione al concreto rapporto, e l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 cod. civ., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (così da ultimo, tra le tante,
Cass. n. n. 7827/2025).
15. Nella specie, la Corte di merito ha accertato: a) che il lavoratore fosse stato, in costanza di rapporto di lavoro, amministratore (e poi anche liquidatore) della RAGIONE_SOCIALE, nel cui oggetto sociale erano incluse attività analoghe a quelle di RAGIONE_SOCIALE (locazione, affitto, gestione ed amministrazione di immobili ed altro), e che in riferimento a detta società risultava che il Trentanove si fosse dedicato a pubblicare su Facebook contenuti diretti alla sua promozione, anche durante l’orario di lavoro; b) che il Trentanove, sempre durante l’orario di lavoro, aveva svolto attività (quantomeno) di catalogazione ed archiviazione di documenti relativi alla società RAGIONE_SOCIALE, amministrata dalla moglie, senza però constatare che quest’altra attività si ponesse in concorrenza con quella della datrice di lavoro; c) che lo stesso aveva acquistato un immobile a Scandicci per il quale sarebbe emerso un disinteresse della società RAGIONE_SOCIALE, società che il lavoratore amministrava su incarico di COGNOME
15.1. Nota, poi, il Collegio che la Corte di merito aveva premesso che la contestazione disciplinare prodromica al licenziamento (al netto della parte di essa reputata generica già nella doppia fase di primo grado) addebitava al lavoratore ‘lo svolgimento di progetti e la conclusione di affari sfruttando le risorse, i mezzi ed il know how aziendali’, ma che su quest’ultimo profilo della contestazione, che poteva rientrare tra le ‘notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa’, cui si riferisce l’art. 2105 c.c., non emerge che i giudici di merito del doppio grado di giudizio abbiano accertato alcunché.
15.2. E la Corte ha giudicato tale complessiva condotta
del lavoratore nei limiti accertati munita di rilievo disciplinare, ma essenzialmente perché lo stesso si era ‘dedicato in modo significativo (come emerge dalla documentazione prodotta, all. 7A e seguenti) ad attività estranee rispetto a quelle oggetto del contratto di lavoro, in tal modo sviando il tempo di lavoro dalle finalità per le quali era retribuito’, e non, in ipotesi, sviando la clientela attuale o potenziale della datrice di lavoro.
16. La ricorrente nella censura in esame incentra, tra l’altro, la propria critica sul punto in cui la Corte ha scritto: ‘Tale condotta, tuttavia, non integra una forma di concorrenza sleale in senso proprio perché non è emerso che le due società in questione operassero effettivamente nello stesso settore economico della RAGIONE_SOCIALE‘.
16.1. Giova, allora, premettere che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è incontroverso che ‘la violazione del dovere di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c., il quale si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, senza necessità che esse siano idonee ad integrare una concorrenza sleale, a termini degli artt. 2592, 2593 e 2598 c.c. (Cass. 5 aprile 1990, n. 2822; Cass. 30 gennaio 2017, n. 2239), riguardi la concorrenza che il prestatore possa svolgere non già, dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella che egli abbia svolto illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso (Cass. 19 luglio 2004, n. 13394; Cass. 29 agosto 2014, n. 18459)’ (così nel § 3.1. di Cass. n. 3543/2021). E’ stato ribadito che il dovere di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c. si sostanzia nell’obbligo del
lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro e in esso è incluso anche il divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore nel medesimo settore produttivo o commerciale (cfr. Cass. 20 gennaio 2017, n. 2239, cit., Cass. 19 aprile 2006, n. 9056; e, più di recente, nella motivazione Cass. n. 3013/2023).
Per altro verso, è consolidato l’indirizzo di questa Corte che riconosce al dovere di fedeltà del dipendente un contenuto più ampio di quello desumibile dall’art. 2105 c.c. dovendo tale precetto integrarsi con il principio di correttezza e buona fede (Cass. n. 144/2015, Cass. n. 98711/2017, Cass. n. 2474/2008) a tale fine venendo in rilievo anche la mera potenzialità lesiva della condotta (Cass. n. 2474/2008, Cass. n. 7990/2020; e, più di recente, in termini nella motivazione Cass. n. 11172/2022).
16.2. Orbene, rispetto a questi principi di diritto ritiene il Collegio che il riferimento nell’impugnata sentenza alla nozione di ‘concorrenza sleale’ neppure sia suscettibile di correzione in diritto ai sensi dell’art. 384, ult. comma, c.p.c.
Invero, la Corte territoriale, da un lato, ha specificato che la condotta del lavoratore, a suo giudizio, non integrava ‘una forma di concorrenza sleale in senso proprio’, vale a dire, nell’accezione tecnica di ‘concorrenza sleale’ di cui in particolare all’art. 2598 c.c.; dall’altro lato, ha spiegato che non era ‘emerso che le due società in questione operassero effettivamente nello stesso settore economico della RAGIONE_SOCIALE‘.
E tale ultimo accertamento probatorio è anzitutto in linea con l’art. 2105 c.c., disposto rispetto al quale, come si è visto,
ben potrebbe assumere rilievo in ipotesi il trattare affari anche per conto di terzi in concorrenza con l’imprenditore, ma nel medesimo settore produttivo o commerciale.
Lo stesso accertamento fattuale è, inoltre, senz’altro coerente con quanto in precedenza constatato dalla Corte in relazione all’attività svolta dal dipendente per la RAGIONE_SOCIALE (rispetto alla quale non è evidenziato, come già notato, una coincidenza dei rispettivi campi operativi delle due imprese), ma anche con ciò che era stato verificato per la RAGIONE_SOCIALE (vale a dire, attività solo analoghe a quelle della RAGIONE_SOCIALE).
Ma il giudizio, confermato dalla Corte, di non proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla concreta gravità della complessiva condotta accertata, come già riportato in narrativa, è stato ulteriormente argomentato in base a due aspetti già valorizzati in primo grado.
17.1. Questi ultimi formano oggetto piuttosto delle anomalie motivazionali denunciate con il terzo motivo di ricorso.
17.2. Ebbene, non è esatto l’assunto ivi sostenuto che ‘i Giudici di merito hanno riconosciuto la tempestività della contestazione disciplinare’ (così al punto 116 a pag. 61 del ricorso).
Invero, i giudici del reclamo non si sono espressi su questo profilo perché come quelli della doppia fase del grado precedente hanno ritenuto (dirimente) l’illegittimità del licenziamento per sproporzione rispetto ai fatti contestati nei limiti accertati.
17.3. Del resto, il primo rilievo operato da (tutti) i giudici di merito non attiene ad una prolungata e magari tollerante inerzia della datrice di lavoro prima di decidere il recesso.
La Corte di merito, piuttosto, ha considerato anzitutto il fatto obiettivo ‘che le condotte in questione siano avvenute molti anni prima del licenziamento (nel 2014, 2015) senza che la società ne abbia ricevuto alcun danno’. E, contrariamente a quanto assume la ricorrente, il dato del considerevole arco temporale intercorso tra l’ultimo anno delle condotte addebitate (2015) e il licenziamento del 22.10.2021 ben può assumere rilievo nell’ottica di escludere, sia pure a posteriori , la potenzialità lesiva delle stesse condotte. Infatti, mentre rispetto a comportamenti antecedenti ma prossimi al recesso datoriale, è apprezzabile ex ante detta potenzialità lesiva, rispetto a comportamenti più risalenti, se non remoti, cui segua un distanziato licenziamento, è verificabile ex post se essi siano stati nelle more concretamente produttivi di pregiudizio per il datore di lavoro. Sul piano giuridico, perciò, incensurabilmente i giudici di merito hanno valorizzato il dato dell’arco temporale in questione ‘senza che la so cietà ne abbia ricevuto alcun danno’.
18. Il secondo aspetto evidenziato dalla Corte, ossia, , in realtà, concorre con il primo, cioè, convalida indirettamente che la società non aveva risentito danno dalle condotte del dipendente. Per altro verso, ridimensiona anche la portata della conclusione tratta in precedenza dalla stessa Corte, e cioè che il lavoratore si fosse dedicato ad attività, non in concorrenza effettiva con la datrice
di lavoro, ma ‘estranee rispetto a quelle oggetto del contratto di lavoro, in tal modo sviando il tempo di lavoro dalle finalità per le quali era retribuito’; attività, queste, pur giudicate non ‘meramente occasionali e di limitato impegno temporale’. In altre parole, la Corte ha considerato che, nonostante detta ‘distrazione’ in tali attività dei tempi del suo lavoro per la COGNOME, quest’ultima aveva a più riprese concretamente e in positivo apprezzato l’opera comunque prestata dal lavoratore. Quello che ha così valorizzato la Corte non è, quindi, il fatto che la datrice di lavoro non avesse tempestivamente ‘reagito’ a comportamenti del lavoratore, che potevano ad essa essere ignoti.
Questi ultimi rilievi consentono di superare anche gli argomenti della ricorrente che fanno leva sull’art. 238 del CCNL per i dipendenti da aziende del terziario della distribuzione e dei servizi del 30/7/2019, dove prevede il licenziamento disciplinare per la mancanza consistente nella ‘esecuzione, in concorrenza con l’attività dell’azienda, di lavoro per conto proprio o di terzi, fuori dell’orario di lavoro’.
19.1. A prescindere dal rilievo che la ricorrente si riferisce a norma di un CCNL del 2019, successivo perciò all’epoca di consumazione delle condotte addebitate, quanto constatato in fatto dai giudici di merito non collima con la richiamata previsione collettiva in una duplice chiave.
Da un primo e più rilevante punto di vista, la Corte distrettuale non ha riscontrato un’attività del lavoratore ‘in concorrenza con l’attività dell’azienda’, nei termini dianzi chiariti.
Da un secondo ma convergente punto di vista, ha
piuttosto verificato lo svolgimento di attività ‘estranee rispetto a quelle oggetto del contratto di lavoro’, e ‘anche durante l’orario di lavoro’. Ma anche in questo caso ha, poi, circoscritto la valenza di queste condotte sul piano effettuale, come sopra spiegato.
19.2. Del resto, la Corte di merito ha completato le proprie considerazioni richiamando anche l’orientamento di questa Corte in merito alla non vincolatività in tema di giusta causa delle tipizzazioni delle condotte sanzionate in fonti collettive.
Alla luce di quanto osservato nel disattendere il secondo motivo le anomalie motivazionali denunciate nel terzo motivo non sussistono.
Proprio, infatti, rispetto a quanto insegnato nelle sent. n. 8053 e 8054 del 2014 dalle Sezioni unite di questa Corte (e poi sempre confermato), richiamate dalla ricorrente, la motivazione resa dai giudici del reclamo, come sopra esaminata, non è certamente ‘apparente’, o ‘perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, e neanche induce un ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’.
La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 9.4.2025.
Il Presidente
NOME COGNOME