Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 7721 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 7721 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 22/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 20038-2019 proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME, elettivamente domiciliate in INDIRIZZO, nello studio dell’ AVV_NOTAIO, rappresentate e difese dall’ AVV_NOTAIO
– ricorrenti –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO , nello studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentata e difesa dagli AVV_NOTAIOti NOME COGNOME e NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1789/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 23/04/2019;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 14.4.2014 COGNOME NOME e COGNOME NOME evocavano in giudizio COGNOME NOME e COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Pavia, invocandone la condanna al risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto di servitù di veduta che le attrici avrebbero esercitato mediante una finestra interclusa dai convenuti, nonché alla demolizione di un manufatto edificato su una striscia di terreno di proprietà delle attrici.
Nella contumacia dei convenuti il Tribunale, con sentenza n. 929/2017, accoglieva le domande.
Con la sentenza impugnata, n. 1789/2019, la Corte di Appello di Milano rigettava il gravame interposto dalle odierne ricorrenti -la seconda quale erede del defunto NOME– avverso la decisione di prima istanza, confermandola.
Propongono ricorso per la cassazione di tale pronuncia COGNOME NOME e COGNOME NOME, affidandosi a otto motivi.
Resiste con controricorso COGNOME NOME.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la nullità del procedimento per violazione degli artt. 163, 164 e 354 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe dovuto rilevare l’omessa o assolutamente incerta determinazione della cosa oggetto della domanda, in relazione all’azione di rivendicazione, e l’omessa esposizione dei fatti costitutivi della stessa, in riferimento invece alla actio confessoria servitutis .
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha affermato che ‘… ben si comprende quale fosse il petitum immediato e mediato, così come la causa petendi (i fatti storici a fondamento delle domande, le norme giuridiche e le conseguenze in diritto derivanti dalla fattispecie in esame)’ ed ha anche rilevato che la stessa copiosità dell’atto di appello smentiva implicitamente la fondatezza dell’eccezione, poiché l’art. 164 c.p.c., che disciplina le ipotesi di nullità della citazione, è finalizzato ad assicurare il diritto della parte convenuta ad apprestare una difesa adeguata (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata). La parte ricorrente tenta di superare tale statuizione allegando che gli originari attori non avevano specificato da quale momento avrebbero acquistato il preteso diritto di servitù di veduta, né depositato alcun titolo a fondamento dello stesso, né avrebbero identificato topograficamente o catastalmente la striscia di terreno oggetto della domanda di rivendicazione da essi proposta. In realtà, dalla stessa lettura del ricorso emerge che la domanda era articolata in una azione di rivendicazione di una porzione di terreno occupata dalle odierne ricorrenti mediante un manufatto da loro realizzato, ed in una azione a tutela di un diritto di servitù di veduta esercitato attraverso una finestra ostruita dalla realizzazione di altra struttura da parte degli odierni ricorrenti (in particolare, di un vano scala). L’esposizione dei fatti costitutivi delle due pretese, dunque, era sufficiente ad assicurare l’identificazione del bene della vita del quale la parte attrice invocava tutela e ad individuare i contorni della richiesta di protezione. L’eventuale difetto del titolo, o la inesatta o insufficiente identificazione del bene oggetto della domanda, costituiscono profili che non attengono all’individuazione del contenuto della stessa, bensì al diverso, e successivo, aspetto della prova del diritto fatto valere.
Con il secondo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto preclusa la produzione documentale eseguita in seconde cure dall’odierna parte ricorrente, nonostante si trattasse di mere difese, e non già di eccezioni in senso stretto. Si duole, inoltre, della mancata ammissione di mezzi istruttori (non meglio precisati) che sarebbero stati articolati in grado di appello.
La censura è infondata per la prima parte, ed inammissibile per la seconda.
La Corte di Appello ha ritenuto che la produzione documentale e la formulazione di richieste istruttorie fosse preclusa, in secondo grado, a fronte della contumacia della parte appellante in prime cure, in difetto di espressa rimessione in termini o di autorizzazione alla rinnovazione di atti nulli promananti dal giudice (cfr. pag. 4 della sentenza). La statuizione è coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui in appello non è consentita la formulazione di istanze istruttorie non proposte in prime cure, ivi inclusa la produzione di documenti (Cass. 26522/17 e 7055/17, richiamate a pag. 10 del controricorso). In particolare, va ribadito che ‘Nel giudizio di appello, la nuova formulazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c., quale risulta dalla novella di cui al D. L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012 (applicabile nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012), pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, senza che assuma rilevanza l’indispensabilità degli stessi, e ferma per la parte la possibilità di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26522 del 09/11/2017, Rv.
646466). E’ quindi possibile soltanto produrre documenti già prodotti in prime cure, dietro onere della parte interessata di ‘… dimostrare che gli stessi coincidono con quelli già presentati al primo giudice in osservanza degli adempimenti prescritti dagli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c.; in difetto, è precluso al giudice dell’impugnazione l’esame della produzione, senza che rilevi la mancata opposizione della controparte, non trattandosi di salvaguardare il principio del contradditorio sulla prova, bensì di assicurare il rispetto della regola -di ordine pubblico processuale- stabilita dall’art. 345, comma 3, c.p.c.’ (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 16235 del 19/05/2022, Rv. 664905). Né è possibile superare il divieto, di cui all’art. 345, comma 3, c.p.c., di produzione di documenti nuovi in appello, ‘… argomentando dalla natura, in senso lato, di un’eccezione proposta, per la prima volta, in sede d’impugnazione, atteso che il giudice è, invece, chiamato, onde legittimare la nuova produzione documentale, alla verifica dell’impossibilità per la parte di provvedere tempestivamente, nel giudizio di primo grado, a tale produzione per causa ad essa non imputabile’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 29506 del 24/10/2023, Rv. 669299).
Peraltro, va anche ribadito che le mere difese, che sfuggono all’applicazione del divieto dei ‘nova’ di cui all’art. 345, secondo comma, c.p.c., si risolvono nella pura attività di contrasto generico delle avverse pretese, senza tradursi nell’allegazione di un fatto impeditivo, modificativo o estintivo rispetto alle stesse (cfr. Cass. Sez. 6 -1, Ordinanza n. 23796 del 01/10/2018, Rv. 650608; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14515 del 28/05/2019, Rv. 654080), le quali devono invece essere sollevati nei termini previsti per la formulazione e precisazione delle domande ed eccezioni.
Tanto premesso, la doglianza in esame è infondata, quanto al profilo della preclusione della produzione documentale in appello.
E’ invece inammissibile, per difetto di specificità (ex art. 366 n. 6 cpc), la censura concernente la mancata ammissione dei mezzi istruttori che la parte ricorrente aveva articolato in secondo grado, poiché nel ricorso non vengono riportate neppure le richieste che la Corte distrettuale avrebbe ingiustamente disatteso.
Con il terzo motivo, la parte ricorrente si duole dell’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe ravvisato il carattere esplorativo della C.T.U. disposta in prima istanza.
La censura è inammissibile, in primis perché si configura una ipotesi di cd. ‘doppia conforme’ , (cfr . art. 348 ter cpc applicabile ratione temporis) ed in ogni caso perché la parte odierna ricorrente non deduce di aver tempestivamente sollevato la contestazione all’ammissibilità della C.T.U., essendo peraltro essa rimasta contumace in prime cure. Peraltro, l’omesso esame denunziato neppure si configura, non vertendo esso su un fatto storico, bensì sulla ammissibilità di una istanza istruttoria.
Sul punto, va ribadito che l’omesso esame denunziabile in sede di legittimità deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, ‘… dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17761 del 08/09/2016, Rv. 641174; cfr. anche Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 2805 del 05/02/2011, Rv. 616733). Non sono quindi ‘fatti’ nel senso indicato
dall’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, ed infine neppure le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio.
Con il quarto motivo, le ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe rilevato che il manufatto costituente il vano scala era stato edificato sin dal 1986, e dunque ravvisato l’intervenuta estinzione del diritto di servitù di veduta per impossibilità di fatto del suo esercizio.
Con il quinto motivo, si dolgono invece dell’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente interpretato il contenuto degli atti autorizzativi rilasciati dalle autorità competenti alle odierne ricorrenti.
Analogamente, con il sesto motivo censurano l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe dovuto considerare che il vano scala era stato realizzato prima del 1967 e dunque per esso non era necessario alcun atto autorizzativo.
Ed anche con il settimo motivo, le ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe ritenuto fondata la domanda di rivendicazione della striscia di terreno occupata dalle odierne ricorrenti in difetto della relativa prova.
Le predette censure sono tutte inammissibili, sia per il richiamato principio della doppia conforme , sia perché esse invocano una
rivalutazione del fatto e delle prove. Al riguardo, va ribadito che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).
Con l’ottavo ed ultimo motivo, infine, le ricorrenti lamentano la nullità del procedimento e la violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello non si sarebbe pronunciata sul motivo di gravame con il quale era stata contestata la condanna delle odierne ricorrenti al risarcimento del danno.
La censura è inammissibile per difetto di specificità (art. 366 n. 6 cpc), posto che le ricorrenti non riportano testualmente il motivo di appello del quale denunciano l’omesso esame, la cui proposizione non risulta dalla lettura della sentenza impugnata.
In ogni caso, il rigetto dei motivi di impugnazione relativi alla fondatezza delle domande di rivendicazione e di tutela del diritto di servitù che erano state proposte, in primo grado, dalle odierne controricorrenti, e la conseguente conferma della decisione di prime cure, espressamente pronunciata dalla Corte di Appello (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata), implica la stabilità del decisum del Tribunale anche in relazione alla condanna risarcitoria conseguente all’accoglimento delle pretese che erano state invece formulate dall’originaria parte attrice.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di quella controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €. 4.000,00 di cui € 200,00 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in ragione del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda