Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15277 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15277 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13219/2021 R.G. proposto da:
Regione Calabria, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME e domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione;
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli Avv.ti NOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO di ROMA n. 2281/2020 pubblicata il 9 novembre 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME ha convenuto davanti al Tribunale di Roma la Regione Calabria, chiedendo che fosse accertato il suo diritto a vedere parametrata la sua retribuzione, almeno da giugno 2008, a quella della qualifica di Funzionario regionale di categoria D6 CCNL Personale non dirigente del Comparto Regioni e Autonomie Locali in luogo della categoria D3 indicata in contratto, con condanna della Regione Calabria a pagare le differenze retributive.
In subordine, aveva domandato che, previo accertamento della natura subordinata del rapporto, la Regione Calabria fosse condannata a pagare le differenze retributive rispetto alla categoria D3, nonché ai compensi per le prestazioni professionali extra contratto degli anni 2008 e 2009 svolte a supporto del reparto di comunicazione del POR (Piano Operativo Regionale) e per la realizzazione del libro ‘Le Cose fatte’.
Ha chiesto, altresì, l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato stipulato, con condanna al risarcimento del danno.
La Regione Calabria si è costituita eccependo l’incompetenza per territorio del Tribunale di Roma e proponendo domanda riconvenzionale finalizzata al pagamento di ulteriori somme.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 557/2016, ha rigettato sia il ricorso sia la domanda riconvenzionale.
NOME COGNOME ha proposto appello.
La Regione Calabria si è costituita e ha proposto domanda riconvenzionale.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 2281/20, ha in parte accolto l’appello principale e ha rigettato quello incidentale.
La Regione Calabria ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
NOME COGNOME si è difesa con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la P.A. ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1421 c.c. e dell’art. 345 c.p.c. in quanto la corte territoriale avrebbe errato a respingere la questione di nullità del contratto da lei sollevata in appello, fondata sul mancato espletamento di una procedura concorsuale e sulla violazione dell’art. 7, comma 6, lett. b), e comma 6 bis, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Rappresenta che la stessa lavoratrice avrebbe lamentato la nullità del contratto per mancato espletamento della procedura concorsuale, chiedendo il pagamento del compenso spettante ai sensi dell’art. 36 Cost. e degli artt. 2099 e 2126 c.c.
A suo avviso, il detto pagamento varrebbe come acquiescenza alla decisione di prime cure, perché avvenuto ben sei mesi dopo la presentazione dell’appello e in assenza di sue azioni esecutive.
La decisione si sarebbe posta in contrasto con la sentenza n. 26243 del 2014 delle Sezioni Unite.
La censura è fondata.
La Corte d’appello di Roma ha ritenuto inammissibile il primo motivo di appello incidentale in quanto non sarebbe stato possibile accedere ‘alla conversione dell’eccezione in azione di nullità’ perché ‘la Regione Calabria non si è limitata ad allegare l’in validità del contratto e, quindi, l’insussistenza di uno degli elementi costitutivi della pretesa fatta valere dall’attore, da intendersi quale elemento di fatto ostativo all’accoglimento della domanda, ma ha agito in via d’azione, facendo, anzi, della sua domanda l’oggetto di un gravame incidentale’.
Così statuendo, però, la Corte territoriale si è posta in contrasto con la giurisprudenza di questa Suprema Corte, per la quale ‘La domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta, per la prima volta, in appello è inammissibile ex art. 345, primo comma, cod. proc. civ., salva la possibilità per il giudice del gravame obbligato comunque a rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione alle parti ai sensi dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. – di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall’appellante, giusta il secondo comma del citato art. 345’. Per l’esattezza, la sentenza delle Sezioni Unite n. 26243 del 12 dicembre 2014 ha precisato che vi è un ‘dovere del giudice di rilevare una causa di nullità negoziale, e di indicarla alle parti, lungo tutto il corso del processo, fino alla sua conclusione, attivando tale speculare potere rispetto a quello delle stesse parti di decidere della sorte del rapporto fondamentale, con scelte che non risulteranno prive di conseguenze processuali per quei soggetti del processo colpevolmente inerti, o callidamente silenti’.
Pertanto, egli ha l’obbligo di ‘RILEVARE’ sempre una causa di nullità negoziale. Dopo averla rilevata, ha la facoltà di ‘DICHIARARE’ nel provvedimento decisorio sul merito la nullità del negozio (salvo i casi di nullità speciali o di protezione rilevati e indicati alla parte interessata senza che questa manifesti interesse alla dichiarazione), e ‘RIGETTARE LA DOMANDA’ – di adempimento, risoluzione, annullamento, rescissione -, specificando in motivazione che la ratio decidendi della pronuncia di rigetto è costituita dalla nullità del negozio, con una decisione che ha attitudine a divenire cosa giudicata in ordine alla nullità negoziale.
Deve, quindi, ‘RIGETTARE’ la domanda di adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento ‘SENZA RILEVARE’ – né ‘DICHIARARE’ – l’eventuale nullità, se fonda la decisione sulla base della individuata ragione più liquida: non essendo stato esaminato, neanche incidenter tantum , il tema della validità del negozio, non vi
è alcuna questione circa la nullità (e non si forma alcun giudicato sul punto).
Il giudice, però, ‘DICHIARA LA NULLITA” del negozio nel dispositivo della sentenza, dopo aver indicato come tema di prova la relativa questione, all’esito della eventuale domanda di accertamento (principale o incidentale) proposta da una delle parti, con effetto di giudicato in assenza di impugnazione; inoltre, ‘DICHIARA LA NULLITA” del negozio nella motivazione della sentenza, dopo aver indicato come tema di prova la relativa questione, in mancanza di domanda di accertamento (principale o incidentale) proposta da una delle parti, con effetto di giudicato in assenza di impugnazione.
In appello e in Cassazione, invece, in caso di mancata rilevazione officiosa della nullità in primo grado, il giudice ‘HA SEMPRE FACOLTÀ DI RILEVARE D’UFFICIO LA NULLITA”.
Le Sezioni Unite hanno rammentato che, in sede di gravame, il thema decidendum è definitivamente cristallizzato dal contenuto della decisione impugnata e che è altrettanto noto che l’art. 345 c.p.c. detta il principio della inammissibilità, da dichiararsi d’ufficio, delle domande nuove proposte dinanzi al giudice dell’impugnazione.
La norma va, tuttavia, coordinata, nella sua portata precettiva, con il perdurante obbligo di rilevare di ufficio una causa di nullità negoziale imposto al giudice di appello (al pari di quello di legittimità) dall’art. 1421 c.c., che non conosce né consente limitazioni di grado.
Ne consegue che:
da un lato, al giudice di appello investito di una domanda nuova volta alla declaratoria di nullità di un negozio del quale in primo grado si era chiesta l’esecuzione, la risoluzione, la rescissione, l’annullamento (senza che il giudice di prime cure abbia rilevato né indicato alle parti cause di nullità negoziale), è preclusa la facoltà di esaminarla perché inammissibile;
dall’altro lato, a quello stesso giudice è fatto obbligo di rilevare d’ufficio una causa di nullità non dedotta né rilevata in primo grado,
indicandola alle parti ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c. (norma di portata generale e, dunque, applicabile anche in sede di appello);
ancora, tale obbligo deve ritenersi altresì attivabile da ciascuna delle parti ai sensi dell’art. 345, comma 2, c.p.c., che consente la proposizione di eccezioni rilevabili di ufficio.
La corretta coniugazione di tali, distinti aspetti processuali conduce:
alla declaratoria di inammissibilità della domanda di nullità per novità della questione, che peraltro non ne impedisce (secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte) la conversione e l’esame sub specie di eccezione di nullità, legittimamente proposta dall’appellante in quanto rilevabile di ufficio;
alla (eventuale) rilevazione della nullità, nell’esercizio di un potere-dovere officioso, e alla indicazione del nuovo tema da esplorare in questa nuova fase del giudizio, se nessuna delle parti abbia sollevato la relativa eccezione.
Non può, pertanto, ritenersi preclusa al giudice, rilevata in limine la inammissibilità della domanda nuova, la facoltà di motivare in ordine alla ritenuta validità del contratto (come si è verificato nel caso di specie), con argomentazioni perfettamente speculari rispetto a quelle che avrebbe svolto se quella nullità egli stesso avesse autonomamente rilevato.
Lungi da risultare ‘sovrabbondante o illegittima’, una tale motivazione si configura come doverosa disamina della (domanda inammissibile convertita in) eccezione di nullità negoziale formulata dalla parte appellante. Egli non potrà, quindi, limitarsi ad una declaratoria di inammissibilità in ragione della novità della domanda di nullità – emanando una pronuncia che racchiuderebbe, in tal caso, un significante esplicito (l’inammissibilità della domanda) ed un implicito significato (la validità negoziale) -ma deve, in conseguenza della conversione della domanda (inammissibile) in
eccezione (ammissibile) di accertamento della nullità, esaminare il merito della questione.
Nella specie, la corte territoriale ha omesso proprio di considerare la questione della nullità del contratto di lavoro in esame alla stregua di un’eccezione, rifiutando di tenere conto dell’avvenuta conversione dell’appello incidentale sul punto solo perché la parte aveva prospettato la nullità del negozio non come ‘elemento di fatto ostativo all’accoglimento della domanda’, ma ‘in via d’azione’.
Si tratta di un esito, però, in palese contrasto con la citata pronuncia delle citate Sezioni Unite.
D’altronde, muovendosi in tale ottica, questa Sezione ha di recente affermato che ‘ Il mancato rilievo da parte del giudice di appello di una nullità contrattuale, perché non prospettata dalla parte in primo grado o nell ‘ atto di impugnazione, non integra il vizio di omessa pronuncia, ma è denunciabile in cassazione ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per violazione delle norme che prevedono la rilevabilità d ‘ ufficio della questione, ovvero ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., ove il mancato esercizio del potere in questione sia rimasto privo di motivazione o questa sia meramente apparente (Cass., Sez. L, n. 31517 del l’ 8 dicembre 2024).
Sempre con quest’ultima pronuncia, la S.C. ha sottolineato che ‘ In tema di pubblico impiego contrattualizzato, le decisioni datoriali che comportano spese a carico della P.A., incidendo sul costo del personale, sono nulle se adottate in assenza della necessaria copertura finanziaria e di spesa e la relativa invalidità va rilevata d ‘ ufficio dal giudice, pure in appello e anche se non prospettata in primo grado o al momento dell ‘ impugnazione, purché i relativi presupposti di fatto siano stati dimostrati tempestivamente, emergendo dalle prove ritualmente ammesse e fatti salvi, comunque, i poteri istruttori esercitabili d ‘ ufficio dal giudice del merito, le esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione e la possibilità di rimessione in termini, ove ne sussistano i requisiti di legge ‘ .
Ne deriva l’accoglimento del motivo.
2) Con il secondo motivo la P.A. ricorrente lamenta la violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2094 c.c., in quanto avrebbe contestato, in primo grado, la natura subordinata del rapporto in esame.
Inoltre, osserva che la non contestazione, ritenuta operativa dal giudice di appello, non avrebbe potuto valere con riferimento alla qualificazione giuridica di un rapporto di lavoro, trattandosi di profilo di diritto e non di fatto.
Infine, evidenzia che, in appello, avrebbe argomentato in ordine alla natura non subordinata del rapporto in esame, in quanto la questione era stata riproposta in appello e che, comunque, sarebbe stato onere della ricorrente dimostrare la natura subordinata del rapporto, atteso; al contrario, la Corte d’appello di Roma avrebbe accolto il gravame sulla base della mera allegazione di parte ricorrente.
Con il terzo motivo la P.A. ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 346 c.p.c. e 2909 c.c. in quanto sostiene che avrebbe corrisposto a controparte il dovuto, ossia il trattamento previsto dalla legge Regione Calabria n. 8 del 1997, commisurato a quello di un funzionario di categoria D posizione economica D3, il quale era attribuito in misura fissa e indipendente dalle dinamiche della contrattazione collettiva.
Rappresenta che, comunque, avrebbe contestato la richiesta economica della lavoratrice.
Peraltro, espone che il rigetto in primo grado della domanda di pagamento della somma complessiva di € 49.787,13, ove tutte quelle voci non facenti parte della retribuzione che la controricorrente aveva chiesto anche in via subordinata erano state ritenute dal giudicante non spettanti e sulle quali si era formato il giudicato perché, sul punto, non vi sarebbe stato appello, avrebbe dovuto tradursi nel rigetto del primo motivo di appello.
Con il quarto motivo la P.A. ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c., dell’art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 32, comma 5, d.l. n. 183 del 2010.
Le tre censure non devono essere esaminate, alla luce dell’accoglimento del primo motivo di ricorso.
Il ricorso è accolto quanto al primo motivo, assorbiti gli altri.
La sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel