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Nesso causale malattia professionale: no se lavoro discontinuo

La Corte d’Appello ha respinto la richiesta di un lavoratore per il riconoscimento di una malattia professionale (tendinopatia alla spalla). La decisione si fonda sulla natura discontinua del lavoro svolto (circa 50-60 giorni all’anno come bracciante), ritenuta insufficiente a stabilire il nesso causale tra l’attività lavorativa e la patologia, attribuita invece a fattori degenerativi e costituzionali.

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Pubblicato il 1 maggio 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Nesso Causale Malattia Professionale: La Continuità del Lavoro è Cruciale

Il riconoscimento di una malattia come professionale è un percorso complesso, che richiede una prova rigorosa del nesso causale tra malattia professionale e le mansioni svolte. Una recente sentenza della Corte d’Appello di Lecce ha ribadito un principio fondamentale: se l’attività lavorativa è discontinua e non espone il lavoratore a un rischio costante, è difficile che possa essere considerata la causa della patologia. Analizziamo insieme questa importante decisione.

Il caso: la richiesta di riconoscimento della malattia professionale

Un lavoratore, impiegato come bracciante agricolo e potatore, aveva citato in giudizio l’ente previdenziale chiedendo il riconoscimento di una “tendinopatia degli arti superiori” come malattia professionale. A suo dire, la patologia era sorta a causa delle faticose attività lavorative, caratterizzate da fresature, potature e lavori in oliveto.

La sua domanda, presentata inizialmente in via amministrativa, era stata respinta dall’ente per mancanza del nesso causale. Anche il Tribunale di primo grado aveva rigettato il ricorso, basandosi sulle conclusioni di una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) che, pur confermando l’esistenza della malattia, aveva escluso un suo legame diretto con il lavoro.

Il lavoratore ha quindi proposto appello, sostenendo che sia i testimoni sia il consulente tecnico avessero sottovalutato gli indici di rischio della sua attività, come la ripetitività dei movimenti e lo sforzo muscolare.

La decisione dei giudici sul nesso causale e la malattia professionale

La Corte d’Appello, dopo aver disposto una nuova CTU per approfondire la questione, ha confermato la decisione di primo grado, rigettando l’appello del lavoratore. Il fulcro della decisione risiede proprio nell’analisi della continuità dell’esposizione al rischio lavorativo, un elemento chiave per stabilire il nesso causale della malattia professionale.

La valutazione della Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU)

Il nuovo consulente nominato dalla Corte ha diagnosticato una “lesione della cuffia dei rotatori in artrosi acromion-claveare bilaterale”. Tuttavia, ha osservato che le attività lavorative più a rischio per questa patologia sono quelle che comportano il sollevamento prolungato delle braccia sopra le spalle.

L’analisi dell’estratto contributivo del lavoratore è stata decisiva. È emerso che, tra il 1995 e il 2022, egli aveva lavorato in modo non continuativo, con una media di sole 50-60 giornate all’anno. Questa discontinuità, caratterizzata da ampi periodi di riposo, secondo il perito, ha impedito che si realizzasse quella condizione di usura costante necessaria a provocare la malattia.

Le motivazioni: perché il nesso causale è stato escluso?

La Corte ha sposato pienamente le conclusioni della CTU, ritenendole logiche, approfondite e prive di vizi. La motivazione centrale della sentenza è chiara: l’attività lavorativa del ricorrente, essendo saltuaria e non continuativa, ha svolto un ruolo solo marginale nell’insorgenza della patologia.

La malattia, secondo i giudici, è più probabilmente riconducibile a due fattori principali:
1. Fenomeni degenerativi: Legati all’età e all’usura naturale delle articolazioni.
2. Condizione costituzionale: Una predisposizione fisica del lavoratore (spalle anteposte) che ha favorito lo sviluppo della patologia.

In assenza di manovre lavorative continuative e ripetitive, e data la presenza di lunghi periodi di recupero, non sussistono le condizioni di rischio professionale che potrebbero giustificare l’origine lavorativa della malattia. La prova del nesso di causalità, che spetta al lavoratore, non è stata quindi raggiunta.

Conclusioni: l’importanza della prova del rischio lavorativo

Questa sentenza sottolinea un aspetto cruciale nel contenzioso sulle malattie professionali: non è sufficiente dimostrare di soffrire di una patologia e di svolgere un lavoro potenzialmente usurante. È indispensabile provare che l’esposizione al rischio sia stata sufficientemente intensa e prolungata nel tempo da poter essere considerata la causa diretta ed efficiente della malattia. Un lavoro discontinuo, con poche giornate annue e lunghi periodi di pausa, rende questa prova estremamente difficile, spostando l’origine del male verso cause extra-lavorative, come la degenerazione fisica o la predisposizione individuale.

Quando una malattia può essere riconosciuta come professionale?
Per essere riconosciuta come professionale, una malattia deve avere un legame di causa-effetto diretto (nesso causale) con l’attività lavorativa svolta. Il lavoratore deve dimostrare che la patologia è stata causata specificamente dal rischio a cui era esposto durante il lavoro.

Il lavoro discontinuo o saltuario può essere causa di una malattia professionale?
Secondo questa sentenza, è molto difficile. Se l’attività lavorativa non è continuativa e prevede lunghi periodi di riposo (nel caso specifico, una media di 50-60 giorni lavorativi all’anno), la Corte ha ritenuto che il lavoro svolga un ruolo solo marginale e non possa essere considerato la causa principale della malattia, che viene invece attribuita a fattori degenerativi o costituzionali.

Cosa accade se la perizia medica (CTU) esclude il legame tra lavoro e malattia?
Se la Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) appare approfondita, logica e priva di vizi, il giudice tende a seguirne le conclusioni. Come in questo caso, se la CTU esclude il nesso causale, la domanda di riconoscimento della malattia professionale viene respinta.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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