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Mutuo consenso: fine rapporto dopo 9 anni di silenzio

Una lavoratrice, formalmente impiegata da un’agenzia, agisce in giudizio contro l’azienda utilizzatrice nove anni dopo la cessazione del rapporto per ottenerne il riconoscimento. La Corte di Cassazione conferma la decisione dei giudici di merito, stabilendo che un ritardo così prolungato e ingiustificato, unito al reperimento di un’altra occupazione, configura un’ipotesi di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, anche nel contesto di un contratto di somministrazione.

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Pubblicato il 15 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Mutuo consenso: quando il silenzio del lavoratore vale come addio

L’inerzia prolungata di un lavoratore dopo la cessazione del rapporto può essere interpretata come una volontà di risolverlo? La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13513/2024, affronta il delicato tema del mutuo consenso per fatti concludenti, specialmente in un contesto complesso come quello della somministrazione di lavoro. La sentenza chiarisce che un ritardo di nove anni nel contestare la fine del rapporto è un segnale inequivocabile della volontà di non proseguirlo, chiudendo la porta a pretese tardive.

I Fatti del Caso

Una lavoratrice, formalmente assunta da un’agenzia di somministrazione, aveva prestato la sua attività lavorativa per anni presso una grande azienda utilizzatrice. Dopo la conclusione del rapporto, lasciava trascorrere ben nove anni prima di adire le vie legali. La sua richiesta era volta a far accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato direttamente con l’azienda utilizzatrice, a causa di presunte irregolarità nel contratto di somministrazione.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano respinto la sua domanda, ritenendo che il lungo lasso temporale, unito al fatto che la lavoratrice avesse trovato un’altra occupazione, dimostrasse una chiara volontà di porre fine al rapporto per mutuo consenso, ai sensi dell’art. 1372 del Codice Civile.

La Questione Giuridica: il mutuo consenso nel rapporto trilaterale

La lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo principalmente due punti:
1. L’inapplicabilità dell’art. 1372 c.c. sul mutuo consenso, poiché non esisteva un contratto formale tra lei e l’azienda utilizzatrice da poter sciogliere. La sua azione mirava a costituire tale rapporto, non a risolverne uno esistente.
2. Un errore di valutazione da parte dei giudici di merito, che avrebbero omesso di considerare fatti decisivi o avrebbero interpretato erroneamente le circostanze.

La Corte di Cassazione è stata chiamata a decidere se il principio del mutuo consenso per fatti concludenti possa operare anche in un rapporto di lavoro “trilaterale” (lavoratore, agenzia, utilizzatore) e se un’inerzia di nove anni sia sufficiente a configurarlo.

Le motivazioni: Il principio del mutuo consenso per fatti concludenti

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato. I giudici hanno chiarito che, in caso di somministrazione di lavoro illegittima, si instaura de facto un rapporto di lavoro diretto tra il lavoratore e l’utilizzatore. Quest’ultimo subentra in tutti gli aspetti del rapporto, che quindi diventa a tutti gli effetti un contratto di lavoro a cui si applicano le norme generali, inclusa la possibilità di scioglimento per mutuo consenso.

La Corte ha specificato che il comportamento delle parti è un indicatore cruciale della loro volontà. Un’inerzia così prolungata, senza alcuna richiesta o contestazione per quasi un decennio, non può essere considerata neutra. Al contrario, rappresenta un comportamento concludente che, unito ad altri elementi (come aver trovato un altro lavoro), manifesta in modo inequivocabile la volontà di entrambe le parti di considerare terminato il rapporto.

Inoltre, la Corte ha dichiarato inammissibili le altre censure, poiché miravano a ottenere una nuova valutazione dei fatti, attività preclusa nel giudizio di legittimità. Il ricorso per Cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sul merito della controversia.

Conclusioni: Cosa significa questa sentenza

L’ordinanza n. 13513/2024 rafforza un principio fondamentale: i diritti devono essere esercitati entro tempi ragionevoli. Un’attesa sproporzionata prima di avviare un’azione legale può essere interpretata come una rinuncia implicita al diritto stesso, configurando un mutuo consenso alla cessazione del rapporto. Questa decisione ha importanti implicazioni pratiche:

* Per i lavoratori: Sottolinea l’importanza di agire tempestivamente per tutelare i propri diritti. L’inerzia può essere fatale e portare alla perdita del diritto di agire in giudizio.
* Per le aziende: Offre una maggiore certezza giuridica, stabilendo che dopo un congruo periodo di tempo, i rapporti di lavoro cessati non possono essere rimessi in discussione all’infinito. Il mutuo consenso diventa uno strumento per stabilizzare le situazioni giuridiche nel tempo.

Il lungo silenzio di un lavoratore dopo la fine del rapporto può essere considerato come accettazione della sua cessazione?
Sì, la Corte di Cassazione ha stabilito che un notevole lasso di tempo (in questo caso 9 anni) tra la fine del rapporto e l’azione legale, unito ad altri elementi come il reperimento di un’altra occupazione, può essere interpretato come una manifestazione di volontà di porre fine al rapporto per mutuo consenso.

Il principio del mutuo consenso si applica anche ai rapporti di lavoro in somministrazione, dove ci sono tre soggetti coinvolti?
Sì. La Corte ha chiarito che anche in un rapporto trilaterale, se la somministrazione è irregolare, si instaura di fatto un rapporto di lavoro con l’azienda utilizzatrice. A questo rapporto si applicano pienamente le norme generali sui contratti, inclusa la possibilità di scioglimento per mutuo consenso dedotto dal comportamento delle parti.

È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare come il giudice di merito ha valutato le prove?
No, non è possibile. La Corte di Cassazione ha ribadito che il ricorso per ‘omesso esame di un fatto storico decisivo’ non può essere utilizzato per contestare la valutazione delle prove fatta dal giudice di merito o per chiedere una nuova interpretazione dei fatti. Il ricorso è inammissibile se si limita a criticare la valutazione del giudice d’appello senza individuare un fatto storico specifico e decisivo che sia stato completamente ignorato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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