Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 14190 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 14190 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 28/05/2025
SENTENZA
sul ricorso 31455-2019 proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa da ll’avv. NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa da ll’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata nello studio del l’avv. NOME COGNOME in ROMA, INDIRIZZO
-controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 4271/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata in data 24/09/2018
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
udito il P.G., nella persona del sostituto dott. NOME COGNOME il quale ha concluso per il rigetto del ricorso principale di quello incidentale;
udito l’avv. NOME COGNOME per parte controricorrente e ricorrente incidentale, che ha invocato il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento di quello incidentale
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 3.9.2001 COGNOME NOME evocava in giudizio COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, lamentando che la convenuta aveva innalzato il piano di campagna del suo terreno, a confine con la proprietà dell’attrice, di circa 4 metri, aveva realizzato sul confine, in sostituzione della preesistente recinzione, un muro in tufo privo di fondazioni e di spessore non adeguato, sul quale aveva aperto fori che consentivano il deflusso delle acque meteoriche a carico del fondo dell’attrice, con conseguente creazione di una servitù di stillicidio e danni da infiltrazioni al sottostante locale deposito esistente nella proprietà COGNOME. Chiedeva quindi la condanna della convenuta a ripristinare lo statu quo ante , eliminando la maggiore altezza del muro rispetto alla preesistenza, rispettando le distanze legali e chiudendo le aperture che creavano l’illecita servitù, nonché il risarcimento del danno, tanto
all’amenità del fondo, quanto al locale deposito, a causa delle infiltrazioni provenienti dal fondo Ferrandino.
Si costituiva quest’ultima, resistendo alla domanda.
Nelle more del giudizio di prime cure l’attrice depositava ricorso ex art. 700 c.p.c. denunciando il pericolo del crollo del muro oggetto di causa, che veniva rigettato dal Tribunale per carenza di legittimazione attiva della Di Meglio.
Con sentenza n. 211/2011 il Tribunale accoglieva la domanda, ordinando l’eliminazione del muro realizzato dalla Ferrandino a confine tra i due fondi, la realizzazione, in suo luogo, di un muro rispettoso delle distanze legali, la cessazione dello stillicidio ed il ripristino delle originarie quote dei terreni. Riconosceva altresì alla Di Meglio il risarcimento del danno, nella misura di € 108.623,64.
Con la sentenza impugnata, n. 4271/2018, la Corte di Appello di Napoli accoglieva, per quanto di ragione, il gravame interposto dalla COGNOME avverso la decisione di prime cure, riformandola in relazione al capo d) e rigettando la domanda risarcitoria. La Corte distrettuale confermava, innanzitutto, che il muro oggetto di causa, per le sue caratteristiche, dovesse essere considerato sub specie di costruzione, non assolvendo esso soltanto alla funzione di contenimento del terrapieno artificiale creato dalla COGNOME a seguito dell’innalzamento del piano di campagna del suo fondo. Escludeva poi l’applicabilità, in favore della COGNOME, dell’istituto della prevenzione, poiché il C.T.U. aveva accertato l’esistenza, nel fondo COGNOME, di una costruzione adibita a deposito posta a 40 cm. dal muro della COGNOME, realizzato in epoca successiva. Escludeva, invece, il risarcimento del danno, osservando che le opere realizzate dalla COGNOME si collocavano sul retro della proprietà COGNOME e non avevano intaccato negativamente l’estetica del paesaggio, anche
perché all’esito delle stesse un immobile prima fatiscente era stato reso decoroso ed erano stati rimossi ‘ciarpame e cianfrusaglie’ esistenti in loco (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione COGNOME NOMECOGNOME affidandosi a quattro motivi.
Resiste con controricorso NOME NOME spiegando ricorso incidentale affidato a nove motivi, a sua volta resistito da controricorso.
In prossimità dell’udienza pubblica, il P.G. ha depositato requisitoria scritta e la parte ricorrente ha depositato memoria.
Sono comparsi all’udienza pubblica il P.G., che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale, come da requisitoria depositata, e l’avv. NOME COGNOME che ha invocato il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento di quello incidentale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Per ragioni di priorità logica, occorre esaminare preliminarmente il ricorso incidentale, con il primo motivo del quale si denunzia la violazione ed erronea applicazione degli artt. 832, 922, 949, 1376, 2697 c.c., 101, 112, 115, 116, 183 e 184 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n.n. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe dovuto ravvisare la carenza di legittimazione attiva della Di COGNOME, in quanto non proprietaria, né titolare del possesso, del terreno confinante con la proprietà NOME
La censura è infondata.
L’eccezione di carenza di legittimazione attiva della COGNOME, che dalla lettura della sentenza impugnata non risulta veicolata in seconde cure con apposito motivo di gravame, ed in relazione alla quale, comunque, il motivo in esame non indica il come e il quando essa sarebbe stata sollevata in prime cure e/o riproposta in appello, è assolutamente incompatibile con la linea difensiva prescelta
dall’odierna ricorrente nel corso del giudizio di merito. Dall’esame degli atti processuali, consentito al collegio in presenza della deduzione di un vizio di natura processuale, risulta infatti che sin dalla comparsa di costituzione in prime cure la COGNOME aveva dato atto che la COGNOME si era dichiarata proprietaria del compendio immobiliare confinante con il suo (cfr. pag. 1 della comparsa) e si era difesa senza contestare in alcun modo la spettanza, alla predetta COGNOME, del diritto di proprietà sul proprio fondo (cfr. pag. 2 della comparsa). Va pertanto data continuità al principio secondo cui ‘La titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 2951 del 16/02/2016, Rv. 638371; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14652 del 18/07/2016, Rv. 640517; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15037 del 21/07/2016, Rv. 640745; Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 22525 del 24/09/2018, Rv. 650493 .
Con il secondo motivo, la ricorrente incidentale lamenta la violazione o erronea applicazione degli artt. 873, 874, 875 e 877 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ordinato la demolizione e l’arretramento del muro di contenimento, in assenza di violazione della normativa in tema di distanze. Ad avviso della Ferrandino il muro, assolvendo alla funzione di contenimento del terrapieno, non avrebbe dovuto essere considerato come costruzione.
Con il terzo motivo, invece, la COGNOME si duole della violazione o erronea applicazione degli artt. 873, 877, 2697, 2712 c.c., 132, 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c.,
perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente escluso che il muro assolvesse alla funzione di contenere un terrapieno naturale. Secondo la Ferrandino, il dislivello tra i due fondi sarebbe rimasto inalterato, onde il muro avrebbe dovuto essere considerato come struttura di contenimento di terrapieno naturale, non assoggettabile al regime di cui all’art. 873 c.c.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono prive di fondamento.
La Corte di Appello, confermando sul punto la decisione di prime cure, ha accertato che ‘… in seguito alla demolizione della parracina, l’Ufficio Tecnico del Comune di Barano d’Ischia autorizzava la costruzione di un muro a scaloni di 2,25 ciascuno per complessivi 4,5 metri di dislivello. Nei fatti invece la COGNOME, attraverso riporto di terreno, ‘sollevava’ il piano di calpestio della parte sottomessa del fondo fino al raggiungimento di quello della parte sovrastante; successivamente, invece di realizzare il muro di contenimento mediante due scaloni alti 2,25 metri ciascuno, lasciando inalterata la morfologia del luogo costituita da due terrazzamenti, realizzava un unico muro. Ovviamente detto muro, dovendo contenere gli eventuali smottamenti dei due terrazzamenti ormai unificati, veniva realizzato per un’altezza di 4,50 metri; in tale maniera, benché il dislivello fra i due fondi restasse inalterato nella misura complessiva, si realizzava una radicale trasformazione dello stato dei luoghi adiacenti, al fine di edificare su di un suolo più ampio ed omogeneo. La complanarità tra i due terrazzamenti, ottenuta con il sollevamento della zona posta più in basso, aveva comportato, in concreto, la realizzazione di un muro di contenimento di un’altezza pari al doppio di quella consentita ed il posizionamento del manufatto a circa 40 cm. da un deposito attrezzi e/o ricovero per animali, realizzato nel fondo sottomesso della Di
Meglio’ (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata). A fronte di detta ricostruzione dei fatti, la Corte territoriale riteneva applicabile la normativa in tema di distanze, essendo essa esclusa soltanto per il muro di contenimento del terrapieno naturale, ma non anche ‘… in presenza di un dislivello artificiale, creato oppure accentuato dall’intervento umano’ (cfr. pag. 9 della sentenza).
La statuizione della Corte di merito è coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui ‘Il muro di contenimento tra due fondi posti a livelli differenti, qualora il dislivello derivi dall’opera dell’uomo o il naturale preesistente dislivello sia stato artificialmente accentuato, deve considerarsi costruzione a tutti gli effetti e soggetta, pertanto, agli obblighi delle distanze previste dall’art. 873 c.c. e dalle eventuali norme integrative’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1217 del 22/01/2010, Rv. 611224; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 145 del 10/01/2006, Rv. 585913 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4511 del 21/05/1997, Rv. 504571). Anche la semplice accentuazione del dislivello naturale, dunque, comporta l’assoggettamento del muro atto a contenerlo alle norme in tema di distanze. E non v’è dubbio che, nel caso di specie, la modifica del declivio naturale vi sia stata, posto che la Corte di merito ha accertato che la COGNOME aveva modificato il dislivello naturale tra i fondi, trasformando due terrazzamenti in modo da elevare la parte inferiore sino all’altezza di quella superiore, al fine di pareggiare il piano di campagna del proprio fondo. Non è quindi possibile sostenere, come vorrebbe la COGNOME, che il dislivello contenuto dal muro oggetto di causa abbia origine naturale.
Ciò posto, occorre evidenziare anche che l’accertamento dell’intervenuta modificazione del declivio naturale corrisponde ad un apprezzamento di fatto della Corte di Appello, al quale la COGNOME contrappone una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza
tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328 e Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 16467 del 04/07/2017, Rv. 644812).
Non sussiste, infine, alcuna violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dovendosi ribadire, al riguardo, che ‘In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte
dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 01). Mentre, con riferimento alla deduzione relativa alla violazione dell’art. 116 c.p.c., va ribadito che ‘In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativa- secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 02; conf. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16016 del 09/06/2021, Rv. 661360). Nel caso di specie, la Corte distrettuale non è incorsa in alcuna delle violazioni suindicate, essendosi limitata a svolgere un apprezzamento in punto di fatto, sulla base degli accertamenti tecnici acquisiti agli atti del giudizio di merito mediante apposita C.T.U. e delle altre risultanze istruttorie.
Con il quarto motivo, la ricorrente incidentale censura la violazione o erronea applicazione degli artt. 873 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente riconosciuto il diritto di prevenzione in favore della COGNOME, in assenza di specifica deduzione da parte di quest’ultima, così addossando l’onere della prova della preesistenza del muro a carico della COGNOME.
La censura è infondata.
La Corte distrettuale non ha riconosciuto il diritto di prevenzione in favore della COGNOME, ma si è limitata ad escludere la possibilità di applicarlo in favore della COGNOME, posto che il manufatto insistente sul fondo COGNOME era preesistente rispetto all’intervento di realizzazione del nuovo muro di contenimento, collocato dalla Corte di merito nel 1987. In particolare, secondo la Corte partenopea, ‘In relazione alla doglianza dell’appellante, proposta in via gradata, relativa all’asserita violazione delle distanze legali in applicazione del cd. principio di prevenzione in presenza di un fondo frontistante inedificato, osserva il Collegio che detta circostanza è priva di fondamento, in quanto le indagini tecniche dell’ausiliario hanno confermato la presenza nel fondo dell’appellata di una costruzione adibita a deposito e/o ricovero di animali a distanza di 40 cm. dal muro della Ferrandino’ (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata). La prospettiva seguita dal giudice di seconde cure, dunque, è esattamente opposta a quella ipotizzata dalla ricorrente incidentale, in quanto ha escluso, all’esito di una valutazione in fatto, che il fondo di proprietà COGNOME fosse inedificato, nel momento in cui la COGNOME aveva eretto il muro di cui è causa. Né può sostenersi che fosse onere della COGNOME dimostrare la preesistenza del suo manufatto, poiché, una volta qualificato il muro di cui è causa come costruzione, spettava alla
COGNOME, che lo aveva realizzato, dimostrare che esso fosse stato realizzato nel rispetto delle distanze, e quindi (ai fini dell’applicazione del principio di prevenzione) che il fondo COGNOME fosse privo di edificazioni; prova che, nella fattispecie, il giudice del gravame ha, peraltro, ritenuto non conseguita fondando il proprio convincimento sulle risultanze della C.T.U.
Anche questa doglianza, come la precedente, attinge quindi la valutazione in punto di fatto operata dalla Corte napoletana, onde per essa si rinvia a quanto già esposto in occasione dello scrutinio di precedenti secondo e terzo motivo.
Con il quinto motivo, la ricorrente incidentale lamenta la violazione o erronea applicazione degli artt. 873, 877, 2730 c.c., 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la costruzione della Di Meglio, adibita a ricovero attrezzi e per animali, non fosse in aderenza al muro di cui è causa, anche se il C.T.U. non aveva rinvenuto evidenza dell’esistenza di detto manufatto né in Catasto, né presso l’Agenzia del Territorio, né presso il Comune di Barano d’Ischia, e nonostante che la stessa COGNOME avesse affermato, nel proprio atto di citazione introduttivo del giudizio di prime cure, trattarsi di fabbrica realizzata in aderenza.
Con il sesto motivo, invece, la COGNOME si duole della violazione o erronea applicazione degli artt. 873, 874, 875 e 877 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe escluso la configurabilità di una costruzione in aderenza, nonostante tra il manufatto della COGNOME ed il muro vi fossero solo modeste intercapedini, agevolmente colmabili.
Le due censure, suscettibili di trattazione perché entrambe relative alla configurabilità dell’aderenza tra il muro oggetto di causa ed il deposito insistente sul terreno COGNOME, sono infondate.
La Corte di Appello ha accertato la preesistenza, rispetto al muro di cui si discute, del manufatto della COGNOME, posto a 40 cm. di distanza dal predetto muro. Non si configura dunque una ipotesi di aderenza, dovendosi ribadire, sul punto, il principio secondo cui ‘Affinché si verifichi l’ipotesi di costruzione in aderenza è necessario che la nuova opera e quella preesistente combacino perfettamente da uno dei lati, in modo che non rimanga tra i due muri, nemmeno per un breve tratto o ad intervalli, uno spazio vuoto, ancorché totalmente chiuso, che lasci scoperte, sia pure in parte, le relative facciate’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21227 del 05/10/2009, Rv. 609569; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1407 del 23/01/2007, Rv. 598212; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9354 del 16/12/1987, Rv. 456520).
La possibilità di ravvisare l’aderenza anche in presenza di ‘… modeste intercapedini, ove queste derivino da mere anomalie edificatorie e siano, altresì, agevolmente colmabili senza appoggi o spinte sul manufatto preesistente’ è stata riconosciuta da questa Corte soltanto in casi limite, quando la distanza sia davvero minima (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3601 del 07/03/2012, Rv. 621423, relativa ad una fattispecie in cui due fabbricati, sigillati sul fronte, erano distaccati da tre a dodici centimetri sugli altri lati) ovvero causata dall’andamento irregolare del fronte di uno dei due edifici (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5894 del 24/03/2004, Rv. 571490, concernente una ipotesi in cui la costruzione del prevenuto non era in perfetta aderenza a quella realizzata, con sporgenze, dal preveniente secondo una linea spezzata). In ogni altro caso, prevale l’esigenza generale di
tutela della salubrità dei luoghi, che impone di evitare la creazione di intercapedini dannose. E’ evidente che anche la valutazione della dannosità dell’intercapedine si risolve in un giudizio di fatto, ancorché ancorato a parametri previsti per legge, onde, non essendo stata violata dalla Corte partenopea alcuna disposizione normativa, ed essendo stati, anzi, rispettati i principi affermati, in materia di distanze ed intercapedini, da questa Corte, le doglianze in esame assumono contenuto meritale, essendo volte a contrastare l’accertamento in punto di fatto condotto dal giudice di merito. Per le stesse, quindi, si rinvia agli argomenti già esposti in relazione ai precedenti motivi del ricorso incidentale, anche per quel che concerne la dedotta -ma in realtà insussistente- violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c .
La questione del riempimento, peraltro, non è stata neppure affrontata specificamente dalla sentenza impugnata e – come eccepito dalla ricorrente principale nel controricorso in replica al ricorso incidentale (v. pag. 20) – la COGNOME non precisa, nelle censure in esame, il momento del giudizio di merito nel quale essa sarebbe stata introdotta, né indica il relativo strumento processuale. L’argomento, dunque, che di per sé implica accertamenti di fatto, va anche ritenuto nuovo, perché sollevato per la prima volta in sede di legittimità.
Nella specie, inoltre, la Corte distrettuale ha confermato la condanna dell’odierna ricorrente incidentale ad arretrare il muro oggetto di causa sino al rispetto della distanza di tre metri anche perché lo stesso creava, a carico del fondo COGNOME, uno stillicidio (cfr. pag. 9 della sentenza). L’esclusione della possibilità di mantenere la distanza di 40 cm. rilevata tra le due fabbriche – il muro ed il sottostante manufatto adibito a deposito- si giustifica quindi anche in relazione al predetto accertamento.
Con il settimo motivo, la ricorrente incidentale lamenta la violazione o erronea applicazione degli artt. 873, 877 c.c. e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ordinato l’integrale arretramento del muro da lei realizzato, senza considerare che la COGNOME aveva chiesto il ripristino dello stato dei luoghi, invocando soltanto l’eliminazione della maggiore altezza del muro rispetto a quello preesistente. Il giudice di merito, in tal modo, avrebbe pronunciato ultra petita .
La censura è infondata.
La Corte di Appello, dopo aver qualificato il muro realizzato dalla COGNOME come costruzione, aver escluso l’operatività in favore della stessa del principio della prevenzione ed averne ordinato l’arretramento sino al rispetto della distanza legale, ha anche fatto riferimento all’esigenza che il manufatto da realizzare in sostituzione di quello illecito ‘… deve essere dotato di un saldo impianto per evitare possibili smottamenti anche in considerazione dell’elevato rischio sismico della zona in cui ricadono i fondi, così come di un sistema di deflusso che eviti lo stillicidio delle acque che si riversano sul fondo dell’appellante nel fondo sottomesso della Di Meglio’ ed ha ritenuto ‘adeguata allo scopo … la progettazione redatta dal C.T.U. in occasione delle indagini tecniche sui luoghi di causa, in quanto conforme ai principi di diritto nonché rispettosa delle norme tecniche e delle regole del buon costruire’ (cfr. pagg. 9 e 10 della sentenza impugnata). In tal modo, la Corte territoriale non ha soltanto ordinato l’arretramento del muro oggetto di causa, ma anche fissato le modalità di ripristino della situazione antecedente alla sua realizzazione, dando, in tal modo, corretta e completa risposta all’istanza di tutela proveniente dalla Di Meglio. Quest’ultima, infatti, nell’invocare il ripristino dello status quo ante , mediante eliminazione della parte del muro di cui si controverte
eccedente la preesistenza, aveva espressamente richiesto, inter alia , la ‘realizzazione di un idoneo muro di confine conforme alla normativa antisismica’ (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata), in tal modo non limitando la sua richiesta alla semplice riduzione del muro stesso. Inoltre, la Di COGNOME aveva anche invocato la sistemazione del terrapieno artificiale che il muro era preposto a contenere, con modalità tali da precludere la creazione di una illecita servitù di stillicidio a carico del suo fondo. La statuizione complessivamente assunta dalla Corte di merito, confermativa di quella del Tribunale, non eccede i limiti della domanda e corrisponde al contenuto di essa, dovendosi dare continuità, sul punto, al principio secondo cui ‘Il dovere imposto al giudice di non pronunciare oltre i limiti della domanda, né di pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti, non comporta l’obbligo di attenersi all’interpretazione prospettata dalle parti in ordine ai fatti, agli atti ed ai negozi giuridici posti a base delle loro domande ed eccezioni, essendo la valutazione degli elementi documentali e processuali, necessaria per la decisione, pur sempre devoluta al giudice, indipendentemente dalle opinioni, ancorché concordi, espresse in proposito dai contendenti. Al riguardo non è configurabile un vizio di ultrapetizione, ravvisabile unicamente nel caso in cui il giudice attribuisca alla parte un bene non richiesto, o maggiore di quello richiesto’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 702 del 04/03/1968, Rv. 331920; conf. Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 16608 del 11/06/2021, Rv. 661686). Non costituisce quindi vizio di ultrapetizione la valutazione dei mezzi di prova dedotti dalle parti, relativamente ai fatti sui quali permanga la contestazione tra le medesime, che sia condotta dal giudice di merito nei limiti della questione che è stata sottoposta alla sua cognizione (cfr. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 15734 del 17/05/2022, Rv. 665101), né l’individuazione
di una soluzione che, sulla base delle evidenze istruttorie, liberamente valutate dal giudice di merito, sia ritenuta idonea ad assicurare alla parte istante l’attribuzione del cd. bene della vita del quale la stessa aveva invocato la protezione.
Con l’ottavo motivo, la ricorrente incidentale denunzia ancora la violazione o erronea applicazione degli artt. 91 disp. att., 191, 194 e 201 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe dovuto ravvisare la nullità del supplemento di C.T .U. al quale si riferisce la relazione peritale del 24.7.2008 per omesso avviso al C.T. di parte dell’inizio delle operazioni peritali, con conseguente violazione del principio del contraddittorio.
La censura è inammissibile.
La sentenza impugnata non indica che la questione sia stata sollevata mediante apposito motivo di gravame, né la ricorrente incidentale dà atto, con la doglianza in esame, di aver assolto al predetto onere di riproposizione della questione in secondo grado. Peraltro, poiché la COGNOME solleva un vizio idoneo ad incidere sul rispetto del contraddittorio nel corso della C.T.U. svolta in prime cure, va ribadito il principio secondo cui ‘Le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicché sono soggette al termine di preclusione di cui al comma 2 dell’art.157 c. p. c., dovendo, pertanto, dedursi -a pena di decadenza- nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito’ (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 19427 del 03/08/2017, Rv. 645178; conformi Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4448 del 25/02/2014, Rv. 630339 e Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 15747 del 15/06/2018, Rv. 649414). Sarebbe quindi stato onere della ricorrente incidentale non soltanto dimostrare di aver sollevato la questione con i motivi di appello, ma anche di averla proposta tempestivamente, nella prima difesa utile
dopo il deposito dell’elaborato peritale in prime cure, e di averla poi coltivata in sede di conclusioni. In difetto, la censura è carente del richiesto grado di specificità e va ritenuta nuova, perché proposta per la prima volta in sede di legittimità, come del resto eccepito dalla COGNOME a pag. 21 del controricorso in resistenza al ricorso incidentale della COGNOME.
Infine, con il nono ed ultimo motivo, quest’ultima contesta la violazione o erronea applicazione degli artt. 163 e 164 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe dovuto ravvisare la genericità, e dunque l’inammissibilità, della domanda risarcitoria proposta dalla COGNOME.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello ha riformato la decisione di prime cure in relazione alla domanda risarcitoria della COGNOME, rigettandola per effetto della ravvisata impossibilità di configurare il danno dalla stessa lamentato. La ricorrente incidentale non ha alcun interesse a coltivare l’impugnazione in relazione ad un punto della decisione che la vede prevalere, posto che la sua doglianza, sul punto, è stata accolta dalla Corte distrettuale. Va ribadito, al riguardo, il principio secondo cui ‘L’interesse ad agire richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica ma anche che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per l’attore senza che siano ammissibili questioni di interpretazioni di norme, se non in via incidentale e strumentale alla pronuncia sulla domanda principale di tutela del diritto ed alla prospettazione del risultato utile e concreto che la parte in tal modo intende perseguire’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 28405 del 28/11/2008; Rv. 605612; Cass. Sez. 3, Ordinanza n.
15355 del 28/06/2010, Rv. 613874; Cass. Sez. 6-L, Ordinanza n. 2051 del 27/01/2011, Rv. 616029; Cass. Sez. L, Sentenza n. 6749 del 04/05/2012, Rv. 622515). Infatti ‘… il processo non può essere utilizzato solo in previsione della soluzione in via di massima o accademica di una questione di diritto in vista di situazioni future o meramente ipotetiche’ (Cass. Sez. L, Sentenza n. 27151 del 23/12/2009, Rv. 611498).
Il ricorso incidentale va pertanto rigettato.
Passando all’esame dei motivi del ricorso principale, con il primo di essi la Di Meglio lamenta la violazione degli artt. 112, 113, 114, 115, 116 c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato che le opere realizzate dalla COGNOME erano state ultimate entro il 31.12.1983, mentre l’intervento oggetto di causa, concernente il muro posto a confine tra i fondi delle parti, era stato realizzato successivamente, e precisamente dopo il 7.11.1987. Di conseguenza, la Corte distrettuale avrebbe erroneamente interpretato il contenuto delle domande di condono edilizio presentate dalla COGNOME, le quali interesserebbero il solo fabbricato, ma non anche il muro di cui anzidetto.
Con il secondo motivo, invece, la ricorrente principale si duole dell’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di seconda istanza avrebbe trascurato di considerare la prova documentale dalla quale emergeva che il muro di cui è causa era stato realizzato in epoca successiva all’8.8.1985, data di entrata in vigore della legge n. 432 del 1985, che ha vietato qualsiasi nuova costruzione nelle aree vincolate, tra cui rientrano l’isola di Ischia ed, in particolare, il Comune di Barano d’Ischia.
Con il terzo motivo, la stessa denunzia ancora la violazione degli artt. 872, 873 e ss. c.c. e della legge n. 431 del 1985, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato che la COGNOME aveva concluso i propri interventi edilizi entro il 31.12.1983, mentre il muro oggetto di causa era stato realizzato dopo il 7.11.1987 e dunque nella vigenza della predetta legge n. 431 del 1985. Le domande di condono della COGNOME, dunque, non potevano avere ad oggetto il muro di cui si discute, ma si riferivano al solo fabbricato.
Le tre censure, suscettibili di esame congiunto perché tutte attinenti alla valutazione del contenuto delle domande di condono presentate dalla COGNOME, in relazione alla prova del momento in cui il muro oggetto di causa sarebbe stato realizzato, sono inammissibili.
La Corte di Appello ha infatti confermato che il muro di cui si discute, per le sue caratteristiche, non costituisce muro di contenimento del terrapieno creato artificialmente dalla Ferrandino, ma costruzione, ed è quindi assoggettato al rispetto delle prescrizioni in tema di distanze (cfr. pagg. 7 e 8 della sentenza impugnata). Nell’ambito di tale disamina, peraltro, il giudice di seconda istanza ha accertato che il muro ‘… veniva realizzato dalla Ferrandino dopo il 1987 in sostituzione di un preesistente muretto a secco ormai pericolante’ (cfr. pag. 6 della sentenza).
Del pari, la Corte distrettuale ha accertato l’inoperatività, a favore della COGNOME, dell’istituto della prevenzione, valorizzando il fatto che la proprietà COGNOME non era inedificata, poiché sulla stessa insisteva un manufatto, adibito a deposito e ricovero di animali, posto a 40 cm. dal muro di confine tra i due fondi (cfr. pag. 10 della sentenza). In tal modo, i giudici del gravame hanno evidentemente condotto la valutazione circa la prevenzione considerando che il
manufatto realizzato dalla COGNOME nel 1987, ancorché sostitutivo di una preesistente recinzione, costituisse, in ragione delle sue oggettive diversità riscontrate rispetto al vecchio muretto a secco, costituisse nuova costruzione.
Sulla scorta di dette considerazioni, la Corte di seconda istanza ha confermato la decisione del Tribunale, in punto di condanna della Ferrandino al ripristino, con eliminazione del muro, realizzazione, in sua sostituzione, di un nuovo muro rispettoso delle distanze e cessazione dello stillicidio. La ricorrente principale, dunque, non ha alcun interesse concreto all’impugnazione, in relazione ad una parte della sentenza di seconde cure che le è stata favorevole, avendo, come detto, la Corte distrettuale confermato la statuizione del Tribunale, di accoglimento della domanda di ripristino proposta dalla Di COGNOME.
Valgono, al riguardo, le considerazioni già espresse in relazione al nono motivo del ricorso incidentale, non potendosi configurare un interesse ad impugnare, in assenza della possibilità, per la parte, di conseguire un beneficio concreto dall’eventuale accoglimento della doglianza.
Con il quarto ed ultimo motivo del ricorso principale, invece, la COGNOME lamenta la violazione degli artt. 872, 873 c.c. e della legge n. 431 del 1985, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente rigettato la domanda risarcitoria della COGNOME, trascurando la circostanza che il muro oggetto di causa sarebbe stato realizzato dalla COGNOME in violazione delle norme in tema di distanze, senza le prescritte autorizzazioni, ed inciderebbe negativamente sulla proprietà della ricorrente principale, costituito da un antichissimo fabbricato denominato ‘INDIRIZZO‘ .
La censura è infondata.
La Corte di Appello, all’esito di un apprezzamento in fatto, ha ritenuto che la prima C.T.U. esperita nel corso del giudizio di merito aveva ‘fermamente escluso’ il deprezzamento dell’immobile di proprietà Di Meglio ‘rispetto alla perdita di amenità, veduta e privatezza’ (cfr. pag. 12 della sentenza impugnata). In presenza di una divergenza di valutazione, poiché la seconda C.T.U. aveva invece ravvisato il deprezzamento, quantificandolo in € 108.000, la Corte di Appello ha esaminato le complessive risultanze istruttorie, affermando che ‘Pur in presenza di esiti contrastanti sul punto, sebbene le due consulenze siano state redatte dallo stesso tecnico, dall’esame del materiale fotografico in atti si rileva innanzitutto che il fondo della COGNOME e le costruzioni ivi realizzate sono posti nella parte retrostante l’ingresso principale e la facciata dell’edificio della COGNOME, in posizione più elevata e a distanza di circa 30 metri in linea d’aria, tanto da risultare scarsamente visibili. Inoltre, la comparazione tra lo stato dei luoghi precedente e quello successivo alle trasformazioni edilizie realizzate dalla COGNOME dimostra che l’estetica del paesaggio circostante e il contesto ambientale in cui ricadono i fabbricati interessati alla controversia non risultano sensibilmente intaccati dalle opere edili, pur abusive, realizzate dall’appellante. Al contrario, si riscontra che la costruzione dell’appellante, dapprima fatiscente, è stata riattata e resa decorosa e sono stati rimossi ciarpame e cianfrusaglie, abbandonate nella zona a confine con il fondo della COGNOME. Va anche considerato che il deprezzamento di un fondo può dipendere non solo da incisive trasformazioni edilizie che modificano il paesaggio, ma anche dallo stato di abbandono in cui versano immobili e costruzioni già esistenti, ove non fatti oggetti di manutenzione che li renda consoni all’ineguagliabile bellezza del territorio in cui ricadono. Nella fattispecie, in considerazione del dislivello naturale tra i fondi e
della posizione sottomessa dell’edificio dell’appellata rispetto a quello dell’appellante, posto sul retro di quest’ultimo ed a notevole distanza dallo stesso, nonché delle migliorie concretamente apportate nel fondo rispetto alla situazione di degrado precedente, non pare effettivamente ravvisabile un pregiudizio subito dalla proprietà della COGNOME, ovvero un sensibile deprezzamento del valore immobiliare del cespite di quest’ultima ad opera delle costruzioni realizzate dalla COGNOME‘ (cfr. pagg. 12 e 13 della sentenza impugnata).
La statuizione non collide con l’insegnamento di questa Corte, dovendosi ribadire, in linea di principio, che il danno da violazione delle distanze va ritenuto in re ipsa , poiché esso costituisce ‘… l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà’ ( cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21501 del 31/08/2018, Rv. 650315; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25475 del 16/12/2010, Rv. 615881; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11196 del 07/05/2010, Rv. 612967), e può essere liquidato anche mediante ricorso al criterio equitativo (cfr. Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 12630 del 13/05/2019, Rv. 653643; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22835 del 14/08/2024 (Rv. 672178) ovvero con l’ausilio di presunzioni ‘… tenendo conto di fattori, utili anche alla valutazione equitativa, e da cui si desuma una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che vanno allegati e provati dall’attore’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17758 del 27/06/2024, Rv. 671712). Nel caso specifico, la Corte di Appello ha ritenuto insussistente il pregiudizio, in considerazione dei contrastanti esiti di due diverse consulenze tecniche, dello stato dei luoghi e dell’effetto sostanzialmente migliorativo, rispetto alla precedente situazione di abbandono e degrado, che gli interventi della Ferrandino avevano
assicurato al fondo di proprietà di quest’ultima. In tal modo la Corte distrettuale si è uniformata al principio secondo cui ‘Qualora nel corso del giudizio venga nominato un consulente tecnico d’ufficio che depositi due consulenze recanti conclusioni tra loro difformi e inconciliabili il giudice può aderire a una delle conclusioni prospettate, o anche discostarsene o disporre un nuovo accertamento, ma non può limitarsi a prendere atto del contrasto, facendo ricadere sulla parte le lacune e le inefficienze dell’operato del proprio ausiliario così finendo per considerarlo non quale consulente d’ufficio ma quale tecnico di parte’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11091 del 24/04/2024, Rv. 670862; cfr. anche Cass. Sez. L, Sentenza n. 6822 del 16/06/1995, Rv. 492893 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5148 del 03/03/2011, Rv. 616967). Peraltro, va ribadito che la presunzione di sussistenza del danno da violazione delle distanze non esclude che si possa pervenire, all’esito della valutazione dei luoghi, alla sua esclusione, essendo ammessa la ‘… possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso’ (cfr. Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 25082 del 09/11/2020, Rv. 659708).
La statuizione assunta dalla Corte partenopea è coerente con tutti i principi sopra richiamati e si fonda su un apprezzamento di fatto al quale la ricorrente principale contrappone una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790, già citata in occasione dello scrutinio dei motivi del ricorso incidentale). Né è possibile sollecitare, in sede di legittimità, un
apprezzamento alternativo delle prove, che costituisce appannaggio del giudice di merito (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328 e Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 16467 del 04/07/2017, Rv. 644812, esse pure richiamate in relazione all’esame del motivi di ricorso incidentale).
Nel caso di specie, infine, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639). Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, va evidenziata l’inammissibilità delle doglianze concernenti la motivazione della decisione impugnata, sia perché la stessa, come detto, soddisfa i requisiti minimi previsti dalla legge processuale, sia perché comunque il sindacato della Corte di Cassazione, sul punto, è limitato alle sole ipotesi di omesso esame di fatto decisivo, nella specie insussistente, e di difetto radicale del requisito essenziale previsto dall’art. 132 c.p.c., che nella specie, come già detto, non si configura.
In definitiva, anche il ricorso principale va rigettato.
In ragione della reciproca soccombenza, le spese del presente giudizio di legittimità vanno integralmente compensate.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a
titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta sia il ricorso principale che quello incidentale e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte sia del ricorrente principale che di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda