Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 524 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 524 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 09/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso 21668 – 2020 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in Pompei, presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME dalla quale è rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, con indicazione de ll’ indirizzo pec;
– ricorrente –
contro
COGNOME ANNUNZIATA e COGNOME, elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME dal quale sono rappresentati e difesi, giusta procura a margine del controricorso, con indicazione de ll’ indirizzo pec;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4591/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, pubblicata il 23/9/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del l’11 /12/2024 dal consigliere NOME COGNOME letta la memoria dei controricorrenti.
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato in data 26/05/2007, NOME COGNOME e NOME COGNOME, in qualità di proprietari dell’appartamento ubicato in Torre del Greco, alla seconda traversa INDIRIZZO con relativi annessi, e cioè il lavatoio, le due cisterne e l’apparato di spremitura dell’uva, convennero in giudizio dinnanzi al Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Torre del Greco, NOME COGNOME per sentir dichiarare illegittime le opere edili da lei realizzate sulla abitazione di sua proprietà, situata a confine, consistenti nell’ampliamento di un vano, con inglobamento di una cisterna comune e relativa apertura di una finestra in affaccio sul loro fondo e nella creazione di una porta di accesso al manufatto insistente sull’area comune.
Lamentarono, altresì, i ricorrenti che lungo il muro di confine di altra loro proprietà adiacente, pure ubicata in Torre del Greco, alla INDIRIZZO, la convenuta avesse illegittimamente alloggiato un contatore per l’utenza idrica della propria abitazione e interrato le condotte delle acque di adduzione e di scarico al di sotto del loro fondo, nonché proceduto a un significativo sbancamento di terreno che avrebbe posto la recinzione in pericolo statico, a causa degli accumuli di acqua piovana e conseguenti allagamenti nelle aree limitrofe.
Aggiunsero, infine, che le attività oltre che illegittime perché tese ad un’ indebita appropriazione di parti comuni con annessa modificazione della loro destinazione originaria, sarebbero state realizzate in violazione delle distanze delle costruzioni.
Chiesero, perciò, la condanna della convenuta al ripristino dello stato dei luoghi, al rilascio dei beni detenuti e al risarcimento dei danni.
Nel contraddittorio con NOME COGNOME che propose domanda riconvenzionale per la declaratoria di acquisto per usucapione dei diritti azionati, istruita la causa con prove orali e c.t.u., con sentenza n. 244 del 2015, il Tribunale rigettò la domanda riconvenzionale e, in parziale accoglimento della domanda principale, condannò la convenuta al ripristino dello stato dei luoghi con la realizzazione delle opere edili dettagliatamente individuate dal consulente nominato, oltre al risarcimento dei danni, quantificati nella somma di Euro 5.739,34.
Con sentenza numero 4591 del 2019, la Corte d’appello di Napoli, in accoglimento parziale dell’appello proposto da NOME COGNOME dichiarò non dovuta la somma di Euro 5.739,34 a titolo di risarcimento dei danni, confermando per le restanti statuizioni la sentenza impugnata; rigettò altresì integralmente l’appello incidentale proposto da NOME COGNOME e NOME COGNOME confermando il rigetto della domanda di condanna di COGNOME all’eliminazione del misuratore dell’acqua nonché delle condotte idriche che attraversavano il fondo di proprietà degli stessi appellanti incidentali.
Per quel che qui ancora rileva, la Corte d’Appello, seppure confermò che la cisterna era di proprietà esclusiva dell’appellante, per atto di divisione dell’anno 1921, rilevò tuttavia che dalla consulenza espletata risultava l’accorpamento del locale cucina alla sua preesistente unità abitativa mediante la creazione di un accesso che aveva implicato la demolizione di un muro comune, portante, in violazione del l’art. 1117 cod. civ.; escluse pure potesse essere invocato l’art. 1102 cod. civ. che riconosce a ciascun partecipante alla comunione di servirsi del bene comune rispettandone la destinazione d’uso e non impedendo il pari utilizzo agli altri partecipanti, perché si trattava di una innovazione non consentita, incidente sulla statica del fabbricato.
Escluse pure che, in presenza di evidenti lesioni dei diritti dei condomini e atteso il carattere innovativo dell’intervento edilizio posto in essere, potesse assurgere a valido titolo edificatorio l’eventuale autorizzazione amministrativa, per altro non prodotta e dichiarata inesistente da parte del consulente a seguito di accesso presso i competenti uffici territoriali.
Avverso questa sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, a cui NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno resistito con controricorso, depositando successiva memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, articolato in riferimento ai n. 3 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., NOME COGNOME ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli articoli 112 cod. proc. civ. e 1117 cod. civ.: la Corte d’appello avrebbe compiuto un’analisi assolutamente insufficiente dei fatti, non spiegando perché le suddette opere abbiano leso la proprietà comune, atteso che l’apertura dei varchi nel muro perimetrale non avrebbe influito sulla staticità dell’immobile comune , compromettendone la stabilità e non avrebbe pregiudicato né la sicurezza né il decoro architettonico dell’edificio.
1.1. Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile. Seppure è vero, infatti, che il condomino può aprire nel muro comune dell’edificio nuove porte o finestre o ingrandire e trasformare quelle esistenti, è vero altresì che queste opere non possono pregiudicare la stabilità e il decoro architettonico dell’edificio, come ritenuto dalla Corte d’appello sulla base dell’indagine tecnica svolta.
Per sua formulazione, dunque, la censura prospetta una violazione di diritto invece insussistente, atteso che la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi regolanti la materia: proprio nella sentenza n. 23459 del 2004, invocata dalla ricorrente a sostegno della
sua censura, questa Corte ha, infatti, ribadito che «il condomino può aprire nel muro comune dell’edificio nuove porte o finestre o ingrandire e trasformare quelle esistenti, se queste opere, di per sé non incidenti sulla destinazione della cosa, non pregiudichino, come nel caso di specie, la stabilità e il decoro architettonico dell’edificio (Cass. n. 4996/94, n. 42/2000), quest’ultimo inteso come l’estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti dell’edificio, nonché all’edificio stesso nel suo insieme, una sua determinata, armonica fisionomia senza che occorra che si tratti di un fabbricato di particolare pregio artistico (Cass. N. 10507/94), mentre è demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità se, come nella specie, congruamente motivato, l’indagine volta a stabilire se in concreto un’innovazione determini o meno alterazione di siffatto decoro (Cass. n. 6496/95)».
Il giudizio di fatto espresso dal Giudice del merito sulla idoneità lesiva dell’apertura del varco non è stato adeguatamente censurato, nonostante il richiamo, in rubrica, al n. 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., con la prospettazione di un vizio di motivazione, sicché risulta non più sindacabile da questa Corte.
Con il secondo motivo, pure articolato in riferimento ai n. 3 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 cod. civ.: la Corte d’appello non avrebbe esaminato il rilievo relativo all’omessa valutazione dell’atto di divisione del 1921 che attestava la sua proprietà esclusiva della cisterna.
2.1. Il motivo è infondato. A pag. 6, primo capoverso, della sentenza impugnata, la Corte d’appello ha proprio dato per acquisito che la cisterna sia di proprietà esclusiva della ricorrente COGNOME in forza dell’atto di divisione, ma ha ritenuto comunque la sussistenza
della violazione della proprietà comune in conseguenza dell’abbattimento del muro maestro.
Con il terzo motivo, ancora una volta articolato in riferimento ai n. 3 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., COGNOME ha, quindi, lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 873 cod. civ.: la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto , confermando l’accoglimento della domanda avente ad oggetto lo sbancamento, dei rilievi e della richiesta di rinnovazione della c.t.u. sicché non avrebbe verificato se le suddette opere fossero effettivamente lesive dei diritti degli attori.
3.1. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza: dalla sentenza impugnata, invero, non risulta che la questione sia stata posta in primo grado e riproposta in appello e la ricorrente non ha riportato in quale parte della sua impugnazione avrebbe nuovamente chiesto la rinnovazione delle indagini tecniche.
In particolare, nella sentenza impugnata, si riportano tre motivi di impugnazione, ma non è indicato che siano state riproposte le questioni attinenti i lavori di sbancamento e il muro; a pag. 5, primo capoverso, della motivazione, poi, si riferisce che COGNOME ha svolto istanza di rinnovazione della c.t.u., ma unicamente in riferimento alla prova del danno da riduzione del grado di amenità dell’immobile e sul punto la censura è stata accolta.
In tal senso, allora, la ricorrente avrebbe dovuto specificamente riportare, in ricorso, le parti del suo atto di appello in cui aveva riproposto le osservazioni critiche sulle verifiche della natura e della incidenza dello sbancamento e sulla funzione di contenimento del muro di cinta, atteso che, dalla sentenza, nessuna di queste questioni risulta devoluta al Giudice di secondo grado.
Per principio consolidato, invero, nel ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura,
non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in virtù del principio di autosufficienza, indicare in quale specifico atto del grado precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito e non rilevabili di ufficio (Sez. L, n. 18018 del 01/07/2024; Sez. 2, n. 20694 del 09/08/2018).
Con il quarto motivo, articolato in riferimento ai n. 4 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ. , la ricorrente ha infine denunciato la violazione degli art. 92 e 336 cod. proc. civ. per non avere la Corte regolato le spese di primo grado, modificandone la statuizione, pur avendo accolto parzialmente l’appello.
4.1. Il motivo è infondato. Nella sentenza impugnata la Corte d’appello, dopo aver dichiarato non dovuta la somma posta a carico dell’appellante a titolo risarcitorio, con ciò rigettando una delle domande delle parti attrici, ha esplicitamente «confermato nel resto» la pronuncia appellata.
Così statuendo, non ha affatto violato l’art. 336 cod. proc. civ., perché, come già chiarito da questa Corte, in tema di regolamento delle spese di lite nel giudizio d’appello, il principio secondo cui la riforma, anche parziale, della pronuncia di primo grado determina la caducazione ex lege anche della statuizione di condanna alle spese, non risulta violato nel caso in cui il giudice di secondo grado confermi espressamente, per le parti non riformate, la sentenza di primo grado, così recependo il pregresso regime delle spese di lite sulla base di una complessiva riconsiderazione, seppure implicita, riguardante entrambi i gradi, dell’esito della lite.
In altri termini, ove la riforma parziale di una sentenza appellata abbia riguardato, come nella fattispecie, una decisione che aveva già
accolto la domanda o le domande, condannando alle spese la parte convenuta e si sia concretata nel rigetto parziale dell’unica domanda o nel rigetto di alcune domande, la conferma nel resto della sentenza di primo grado bene può essere intesa come implicita valutazione da parte del giudice d’appello anche della congruità della statuizione sulle spese, nel senso che il ridotto accoglimento dell’unica domanda o di alcune domande comunque non incide sulla sussistenza della soccombenza di parte convenuta e giustifica che le spese restino a carico di quest’ultima (Cass. Sez. 6 – 2, n. 1685 del 22/01/2019; Sez. 1, n. 23634 del 06/11/2009).
3. Il ricorso è perciò respinto, con conseguente condanna della ricorrente NOME COGNOME al rimborso delle spese processuali in favore di NOME COGNOME e NOME COGNOME, liquidate in dispositivo in relazione al valore , con distrazione in favore dell’avvocato NOME COGNOME dichiaratosi antistatario.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna NOME COGNOME al pagamento, in favore di NOME COGNOME e NOME COGNOME, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’avv. NOME COGNOME antistatario.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda