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Motivazione per relationem: quando è nulla la sentenza

La Corte di Cassazione ha annullato una sentenza d’appello a causa di una motivazione per relationem ritenuta meramente apparente. I giudici hanno stabilito che il semplice rinvio alla decisione di primo grado, senza un’analisi critica dei motivi di impugnazione, viola l’obbligo di motivazione e determina la nullità della pronuncia per anomalia motivazionale.

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Pubblicato il 16 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Motivazione per relationem: i limiti secondo la Cassazione

L’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali è un pilastro del nostro ordinamento. Ma cosa succede quando un giudice, in appello, si limita a richiamare la sentenza di primo grado senza aggiungere altro? La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23928/2024, traccia i confini della legittimità della motivazione per relationem, chiarendo quando questa tecnica si trasforma in una vizio insanabile che porta alla nullità della sentenza.

I Fatti di Causa

Il caso nasce da una controversia tra un privato cittadino e un noto istituto nazionale di assicurazione contro gli infortuni. Dopo una decisione di primo grado, entrambe le parti avevano presentato appello. La Corte d’Appello, nel decidere, aveva respinto l’impugnazione del privato con una formula sintetica, affermando di ritenere sufficiente il richiamo alle “corrette argomentazioni espresse dal primo giudice”, considerandole “condivisibili” e “qui riportate e trascritte”.

Ritenendo tale motivazione del tutto assente, il cittadino ha proposto ricorso per cassazione, lamentando proprio la nullità della sentenza per “motivazione apparente”, in quanto il giudice d’appello non aveva in alcun modo esaminato le specifiche censure mosse con l’atto di gravame.

La Validità della Motivazione per Relationem secondo la Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ritenendo fondato il motivo relativo all’anomalia motivazionale. I giudici di legittimità hanno ribadito un principio consolidato: la motivazione per relationem è uno strumento ammissibile, ma non può tradursi in una acritica adesione alla decisione precedente.

Il giudice d’appello può legittimamente fare proprie le argomentazioni del giudice di primo grado, ma deve dimostrare di aver compiuto un percorso logico-critico autonomo. In altre parole, dalla sua sentenza deve emergere che ha esaminato i motivi di impugnazione e ha concluso che le ragioni della prima sentenza sono sufficienti a respingerli. Non basta un generico rinvio.

Quando la motivazione è solo apparente?

La Corte chiarisce che si cade nell'”anomalia motivazionale”, vizio che determina la nullità della sentenza, quando la motivazione è:

* Graficamente inesistente.
* Perplessa e obiettivamente incomprensibile, con affermazioni inconciliabili tra loro.
* Apparente, ovvero costituita da argomentazioni che non permettono di comprendere l’iter logico seguito dal giudice.

Nel caso specifico, la Corte d’Appello si era limitata a un’adesione formale al provvedimento impugnato, senza alcun riferimento effettivo alla vicenda processuale, agli atti di causa o, soprattutto, alle specifiche ragioni del gravame. Questo comportamento equivale a una motivazione inesistente.

Le motivazioni

La Cassazione ha spiegato che, affinché sia integrato il “minimo costituzionale” della motivazione, il giudice del gravame deve dare conto, anche sinteticamente, delle ragioni per cui conferma la decisione precedente in relazione ai motivi di impugnazione. È necessario che dalla lettura combinata delle due sentenze (quella di primo grado e quella d’appello) si possa ricostruire un percorso argomentativo coerente ed esaustivo.

In mancanza di questo esame critico, la motivazione per relationem diventa un guscio vuoto, una formula di stile che non adempie alla funzione di garantire la comprensibilità e il controllo sulla decisione giudiziaria, violando l’articolo 111 della Costituzione. La decisione impugnata è stata quindi cassata perché il rinvio alla sentenza di primo grado era privo di qualsiasi valutazione critica delle censure dell’appellante, risolvendosi in una “incomprensibile adesione ad un provvedimento solo menzionato ma non criticamente valutato”.

Le conclusioni

Questa ordinanza rafforza un principio fondamentale del diritto processuale: ogni parte ha diritto a una risposta nel merito delle proprie doglianze. Un giudice non può eludere questo obbligo semplicemente “sposando” la tesi di un altro giudice senza dimostrare di averla vagliata alla luce delle critiche formulate. La sentenza deve essere sempre il frutto di un ragionamento esplicito e controllabile, non di una comoda e acritica adesione. La Corte ha quindi annullato la sentenza e rinviato la causa alla Corte d’Appello per un nuovo esame che tenga conto dei principi enunciati.

Un giudice d’appello può motivare la sua sentenza semplicemente richiamando quella di primo grado?
No. Può farlo solo a condizione che dimostri di aver esaminato criticamente i motivi di appello e che le argomentazioni della prima sentenza siano idonee a confutarli. Un rinvio generico e acritico non è sufficiente.

Cosa si intende per “motivazione apparente” e quali sono le conseguenze?
Per motivazione apparente si intende una giustificazione che esiste solo formalmente ma, a causa della sua genericità o contraddittorietà, non rende percepibili le reali ragioni della decisione. La conseguenza è la nullità della sentenza per “anomalia motivazionale”.

Quali sono i requisiti minimi per una valida motivazione per relationem?
È necessario che il giudice d’appello dia conto, anche sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione agli specifici motivi di impugnazione. Dalla lettura congiunta delle due sentenze deve potersi ricavare un percorso argomentativo completo, coerente e che dimostri l’avvenuta valutazione critica del gravame.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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