Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 9792 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 9792 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 26750/2020 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, con sede in Naro (AG), alla INDIRIZZO, in persona della legale rappresentante pro tempore NOME COGNOME, nonché COGNOME NOME, in proprio, e COGNOME NOME, tutti rappresentati e difesi, giusta procura speciale allegata al ricorso, da ll’ AVV_NOTAIO COGNOME, presso il cui studio elettivamente domiciliano in Canicattì (AG), al INDIRIZZO.
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE, con sede in Roma, alla INDIRIZZO, rappresentata da RAGIONE_SOCIALE, con sede in RAGIONE_SOCIALE, alla INDIRIZZO, a sua volta rappresentata dalla procuratrice speciale RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), con sede in Milano, alla INDIRIZZO, in persona delle AVV_NOTAIOsse NOME COGNOME e NOME COGNOME, rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata al controricorso, dall’AVV_NOTAIO
NOME COGNOME, presso il cui studio elettivamente domicilia in Canicattì (INDIRIZZO), alla INDIRIZZO.
-controricorrente –
avverso la sentenza, n. cron. 424/2020, della CORTE DI APPELLO DI PALERMO, pubblicata il giorno 13/03/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno
05/04/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE, quale debitrice principale, nonché NOME COGNOME e NOME COGNOME, suoi fideiussori, svolgendo opposizione, ex art. 645 cod. proc. civ., al decreto ingiuntivo n. 302/2010, emesso, nei loro confronti, dal Tribunale di Agrigento, su richiesta di RAGIONE_SOCIALE, per conto di Banca Monte dei Paschi di RAGIONE_SOCIALE s.p.a., pretesa creditrice di €. 18.623,04 verso la prima e di € 12.000,00, verso i secondi, in virtù del saldo del conto corrente n. 10668, citarono il menzionato istituto di credito innanzi al tribunale predetto, contestando l’entità di quel saldo, peraltro determinato anche dall’addebito di commissioni di massimo scoperto e spese contrattuali non dovute ed interessi ultra legali mai pattuiti ed usurari.
1.1. Costituitasi la controparte, che contestò interamente le avverse pretese, l’adito tribunale, con sentenza n. 179/2015, accolse parzialmente l’opposizione. In particolare: i ) rigettò l’eccezione di difetto di legittimazione passiva della società sollevata dagli opponenti; ii ) accertò, all’esito di una c.t.u. contabile, il superamento dei tassi soglia in tutti i trimestri dal 2006 al 2009; iii ) dichiarò nulla la clausola contrattuale sulla commissione di massimo scoperto per indeterminatezza dell’oggetto ; iv ) accertò, all’esito della medesima c.t.u., l’esistenza di un saldo debitore di minore importo (€ 10.007,02) rispetto a quello ingiunto (€ 18.623,04), sicché revoc ò il decreto opposto e condannò gli opponenti al pagamento, in favore dell’opposta, di € 10.007,02, oltre interessi convenzionali entro il limite del tasso soglia.
Il gravame promosso da RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME e NOME COGNOME contro quella decisione fu respinto dall’adita Corte di appello di Palermo, con sentenza del 13 marzo 2020, n. 424, pronunciata nel contraddittorio con Banca Monte dei Paschi di RAGIONE_SOCIALE s.p.a.
2.1. Per quanto ancora di interesse in questa sede, quella corte: i ) rigettò l’eccezione di difetto della propria legittimazione passiva ivi ribadita da RAGIONE_SOCIALE, che aveva lamentato che il tribunale non ne aveva esaminato il pur dedotto profilo secondo cui le operazioni addebitate sul conto corrente a partite dal 9 maro 1996 (data di presunta cessazione della società contraente) non erano riferibili ed opponibili alla menzionata società, poiché mai poste in essere, né autorizzate, dalla sua legale rappresentante, che le aveva formalmente disconosciute. Poiché l’istituto bancario si era limitato a produrre l’estratto conto, ma non gli ordini e le disposizioni relativi alle singole voci contabili, esso non aveva fornito la prova, come sarebbe stato suo onere, della corretta imputazione delle stesse. Osservò, invece, la corte, che « La censura, a prescindere da ogni considerazione sulla sua fondatezza, è ininfluente ai fini della decisione. Infatti, premesso che la società appellante è il medesimo soggetto giuridico che ha stipulato il contratto, dal momento che il 972006 è intervenuto esclusivamente il trasferimento delle quote societarie e il mutamento della ragione sociale (come correttamente affermato dal primo giudice, con pronuncia che non è oggetto di gravame), va rilevato che il saldo debitore del conto corrente a tale data era di importo superiore a quello ingiunto (accertato dal c.t.u. in euro 32.834,23). Pertanto, ove si accedesse all’assunto degli appellanti, questi sarebbero comunque tenuti a pagare il minore importo di euro 10.007,02, oggetto della condanna impugnata »; ii ) disattese il secondo motivo di gravame con cui gli appellanti avevano lamentato che il primo giudice aveva errato a condannali al pagamento anche degli interessi convenzionali nel limite del tasso soglia, dal momento che l’accertato superamento dello stesso determinava che non fossero dovuti interessi, in ossequio al disposto dell’art. 1815, comma 2, cod. civ., o, in
subordine, considerato che dalla chiusura del conto e conseguente cessazione del contratto, sarebbero stati dovuti solo gli interessi legali. Opinò la corte, invece, che « la sanzione invocata attiene esclusivamente all’ipotesi di usura originaria e non sopravvenuta, come nella fattispecie in esame; pertanto, correttamente il primo giudice ha applicato gli interessi convenzionali previsti nel contratto, pur nei limiti del tasso soglia pro tempore . Inoltre, gli interessi di mora sono dovuti al tasso convenzionale anche dopo la cessazione del contratto, dal momento che la loro pattuizione dispiega i suoi effetti sull’obbligazione pecuniaria che trova titolo nel contratto de quo».
Per la cassazione di questa sentenza hanno promosso ricorso RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME e NOME COGNOME, affidandosi a tre motivi, cui ha resistito, con controricorso, RAGIONE_SOCIALE, rappresentata da RAGIONE_SOCIALE, a sua volta rappresentata dalla procuratrice speciale RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE).
RAGIONI DELLA DECISIONE
I formulati motivi di ricorso denunciano, rispettivamente, in sintesi:
« Violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti risultante dagli atti di causa, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.. Motivazione illogica manifesta . Error in iudicando». Si censura l’avvenuto rigetto della doglianza degli appellanti relativa alla non imputabilità delle operazioni addebitate sul conto corrente oggetto di causa, dal 9 marzo 2006, in poi a Bar RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE, operazioni che quest’ultima e la sua legale rappresentante e socia accomandataria NOME COGNOME mai avevano autorizzato. Si assume che la motivazione della sentenza impugnata sul punto si rivela « manifestamente apparente, palesemente illogica », atteso che « non spiega il perché sia stata ritenuta irrilevante la contestazione delle operazioni in addebito non autorizzate dal legale rappresentante pro tempore» della società predetta. Essa, peraltro, si fonda « su affermazioni apodittiche, certamente errate, essendo stato accertato dal c.t.u., in primo grado, che i saldi erano frutto di commissioni non dovute e di tassi usurari parimenti non dovuti. Sussiste, quindi,
certamente il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. », potendo lo stesso ricomprendere il mancato esame di un mezzo di prova laddove abbia determinato l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia;
II) « Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ed in particolare degli articoli 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. ». Si contesta l’affermazione della corte distrettuale secondo cui la mancata prova che le operazioni di addebito in conto siano state effettivamente disposte dopo il 9 marzo 2006 dal nuovo amministratore unico NOME NOME è irrilevante perché « va rilevato che il saldo del conto corrente a tale data era superiore a quello ingiunto (accertato dal CTU in euro 32.834,33). Pertanto, ove si accedesse all’assunto degli appellanti, questi sarebbero comunque tenuti a pagare il minore importo di euro 10.007,02 oggetto della condanna impugnata ». Si assume che, così opinando, « il COGNOME del gravame ha attribuito un significato del tutto opposto rispetto alla documentazione depositata, non attenzionandola e stravolgendone il significato giungendo a conclusioni insostenibili. La Corte d’appello, dunque, ha attribuito un significato completamente diverso dalla realtà, giungendo a tale conclusione attraverso considerazioni non giuridiche; in considerazione di ciò, la sentenza ad oggi impugnata non dà conto dei motivi in diritto sui quali è basata la decisione e, dunque, non consente la comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, non evidenziando gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione ed impedendo ogni controllo sul percorso logico-argomentativo seguito per la formazione del convincimento del COGNOME. Questo grave errore si è riversato sulla ricostruzione del fatto e, quindi, ad una errata applicazione della legge, commettendo la Corte un errore in iudicando»;
III) « Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ed in particolare degli articoli 1183-1184-1224-1375-1815 c.c., 644c.p, legge n. 108 del 1996, art. 118, comma 2, TUB e 2697c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. ». Si deduce che « La sentenza impugnata è comunque illegittima per violazione di legge, laddove ha rigettato il II motivo di appello, affermando che gli interessi convenzionali (peraltro rimasti pure indefiniti nella loro
misura) spettano anche dopo la chiusura del conto ‘perché la sanzione della gratuità non si applica in caso di usura sopravvenuta, come nella fattispecie in esame, e perché gli interessi di mora si applicano al tasso convenzionale anche dopo la cessazione del contratto, dal momento che la loro pattuizione dispiega i suoi effetti sull’obbligazione pecuniaria che trova titolo nel contratto de quo “». Si sostiene che l’assunto della corte di appello secondo cui l’usura accertata nel caso in esame era sopravvenuta, e non originaria, con la conseguente inapplicabilità del disposto di cui all’art. 1815 cod. civ., giusta la nota decisione resa da Cass., SU, n. 24675 del 2017, mostra di non tenere conto della sostanziale differenza tra la fattispecie del mutuo fondiario (cui quest’ultima si riferiva) e di conto corrente. Infatti l’analogia tra i due contratti non è automatica in quanto i conti correnti non sono contratti a tasso fisso ma variabile e, molto spesso, variabili solo sulla discrezionalità della banca, sicché diviene configurabile una «’usura originaria’ anche in corso di rapporto, con applicazione dell’art. 1815, secondo comma, c.c. ».
Il primo motivo di ricorso è in parte infondato ed in parte inammissibile.
2.1. È infondato laddove considera la motivazione della sentenza impugnata, laddove ha respinto il motivo di gravame ivi descritto, come «manifestamente apparente, palesemente illogica», atteso che «non spiega il perché sia stata ritenuta irrilevante la contestazione delle operazioni in addebito non autorizzate dal legale rappresentante pro tempore» della società appellante.
2.2. In proposito, infatti, giova ricordare che l’attuale testo dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012 e qui applicabile, ratione temporis , risultando impugnata una sentenza pubblicata il 13 marzo 2020, ha ormai ridotto al ‘ minimo costituzionale ‘ il sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché si è chiarito ( cfr . tra le più recenti, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 6127 del 2024; Cass. nn. 35947, 28390, 26704 e 956 del 2023; Cass. nn. 33961 e 27501 del 2022; Cass. nn. 26199 e 395 del 2021; Cass. n. 9017 del RAGIONE_SOCIALE) che è oggi denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; questa anomalia si esaurisce nella ” mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico “, nella ” motivazione apparente “, nel ” contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili ” e nella ” motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile “, -tutte fattispecie assolutamente inconfigurabili nella motivazione della sentenza della corte palermitana impugnata in questa sede -esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ” sufficienza ” della motivazione ( cfr . Cass., SU, n. 8053 del 2014; Cass. n. 7472 del 2017. Nello stesso senso anche le più recenti; Cass. nn. 20042 e 23620 del 2020; Cass. nn. 395, 1522 e 26199 del 2021; Cass. nn. 27501 e 33961 del 2022; Cass. n. 28390 del 2023; Cass. n. 6127 del 2024) o di sua ‘ contraddittorietà ‘ ( cfr. Cass. nn. 7090 e 33961 del 2022; Cass. n. 28390 del 2023; Cass. n. 6127 del 2024). Cass., SU, n. 32000 del 2022, ha puntualizzato, altresì, che, a seguito della riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., l’unica contraddittorietà della motivazione che può rendere nulla una sentenza è quella ‘ insanabile ‘ e l’unica insufficienza scrittoria che può condurre allo stesso esito è quella ‘ insuperabile ‘.
2.2.1. In particolare, il vizio di omessa o apparente motivazione della decisione sussiste qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento ( cfr . Cass. nn. 5426 e 4073 del 2024; Cass. nn. 33961 e 27501 del 2022; Cass. nn. 26199, 1522 e 395 del 2021; Cass. nn. 23684 e 20042 del 2020; Cass. n. 9105 del 2017; Cass. n. 9113 del 2012). Ne deriva che è possibile ravvisare una ‘ motivazione apparente ‘ nel caso in cui le argomentazioni del giudice di merito siano del tutto inidonee a rivelare le ragioni della decisione e non consentano l’identificazione dell’iter logico seguito per giungere alla conclusione fatta propria nel dispositivo risolvendosi in espressioni assolutamente generiche, tali da non permettere di comprendere la ratio
decidendi seguita dal giudice. Un simile vizio, inoltre, deve apprezzarsi non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva ( cfr . Cass. nn. 5426 e 4073 del 2024; Cass. nn. 33961 e 27501 del 2022; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 26893 del 2020; Cass. n. 22598 del RAGIONE_SOCIALE; Cass. n. 23940 del 2017).
2.2.2. È noto, poi, che giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, per la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., non è indispensabile che la motivazione prenda in esame tutte le argomentazioni svolte dalle parti al fine di condividerle o confutarle, essendo necessario e sufficiente, invece, che il giudice abbia comunque indicato le ragioni del proprio convincimento in modo tale da rendere evidente che tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse siano state implicitamente rigettate ( cfr ., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 4073 del 2024; Cass. n. 956 del 2023; Cass. nn. 33961 e 29860 del 2022; Cass. n. 3126 del 2021; Cass. n. 25509 del 2014; Cass. n. 5586 del 2011; Cass. n. 17145 del 2006; Cass. n. 12121 del 2004; Cass. n. 1374 del 2002; Cass. n. 13359 del 1999).
2.2.3. Alla stregua dei principi tutti fin qui esposti, dunque, il vizio come oggi denunciato dalla censura in esame, in parte qua , non è concretamente configurabile, posto che, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, dalla lettura della sentenza impugnata emerge, affatto agevolmente, come la descritta motivazione posta a supporto dell’adottata decisione reiettiva del primo motivo di gravame degli appellanti non presenti carenze del procedimento logico seguito dalla corte territoriale, risultando la stessa completa e perfettamente comprensibile. Essa, inoltre, fornisce una giustificazione assolutamente in linea con il ‘ minimo costituzionale ‘ di cui si è detto quanto alle ragioni della ivi ritenuta infondatezza del suddetto motivo di gravame, dovendosi qui solo ribadire che il vizio di motivazione omessa e/o apparente deve apprezzarsi non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto
il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva ( cfr . l’ampia rassegna giurisprudenziale richiamata alla fine del precedente § 2.2.1.).
2.3. È inammissibile, invece, l’ulteriore profilo del motivo in esame concernente la denuncia ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., posto che, anche volendosi prescindere dall’evidente suo difetto di autosufficienza (nemmeno essendo stati riprodotti i passaggi motivazionali salienti della relazione di c.t.u. ivi richiamata), non viene spiegato in alcun modo come lo stesso concretamente abbia inciso sull’adottata decisione, sul punto, della corte distrettuale.
Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per come concretamente argomentato.
3.1. Invero, gli odierni ricorrenti incorrono nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, -come chiarito, ancora recentemente da Cass. n. 6522 del 2024 e Cass. n. 4784 del 2023 ( cfr . le rispettive motivazioni) -un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. può porsi, rispettivamente, solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge ( cfr . Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure precisato che « è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. »); 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione ( cfr . Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pur puntualizzato che, « ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo
nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione »; Cass. n. 27000 del 2016).
3.1.1. Del resto, affinché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132, n. 4, e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse ( cfr . Cass. 24434 del 2016).
3.2. Resta solo aggiungere, infine, che un’autonoma questione di malgoverno del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si pone esclusivamente ove il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di un’eventuale incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia ritenuto assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. ( cfr ., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 9021 del 2023; Cass. n. 11963 del 2022; Cass. n. 17313 del 2020; Cass n. 19064 del 2006; Cass. n. 2935 del 2006), nella specie nemmeno adeguatamente prospettato (e comunque da rapportarsi – in ipotesi – al già richiamato testo novellato di cui alla citata norma, qui, come si è già detto, applicabile ratione temporis ).
Inammissibile, infine, si rivela, nel suo complesso, il terzo motivo di ricorso.
4.1. In esso si pretendono come non dovuti gli interessi convenzionali di mora in ragione della riscontrata usura nel corso del rapporto che, secondo i ricorrenti, non sarebbe sopravvenuta, bensì originaria, in quanto frutto di unilaterale variazione dei tassi di interessi da parte della Banca ai sensi dell’art. 118 del d.lgs. n. 385 del 1993 (recante il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), con conseguente non debenza di interessi ai sensi dell’art. 1815, comma 2, cod. civ..
4.2. Orbene, va immediatamente rilevato che, sebbene con riferimento al diverso contratto di mutuo, le Sezioni Unite di questa Corte hanno sancito che « allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficaci a della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’en trata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula, né la pretesa del mutuante, di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato, può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di detta soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto » ( cfr . Cass., SU, n. 24675 del 2017. In senso conforme, peraltro, si veda anche la più recente Cass. n. 24743 del 2023).
4.2.1. Sempre le Sezioni Unite hanno puntualizzato pure che « La disciplina antiusura, essendo volta a sanzionare la promessa di qualsivoglia somma usuraria dovuta in relazione al contratto, si applica anche agli interessi moratori, la cui mancata ricomprensione nell’ambito del Tasso effettivo globale medio (T.e.g.m.) non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali di cui all’art. 2, comma 1, della l. n. 108 del 1996, ove questi contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali; ne consegue che, in quest’ultimo caso, il tasso-soglia sarà dato dal T.e.g.m., incrementato della maggiorazione media degli interessi moratori, moltiplicato per il coefficiente in aumento e con l’aggiunta dei punti percentuali previsti, quale ulteriore margine di tolleranza, dal quarto comma dell’art. 2 sopra citato, mentre invece, laddove i decreti ministeriali non rechino l’indicazione della suddetta maggiorazione media, la comparazione andrà effettuata tra il Tasso effettivo globale (T.e.g.) del singolo rapporto, comprensivo degli interessi moratori, e il T.e.g.m. così come rilevato nei suddetti decreti. Dall’accertamento dell’usurarietà discende l’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., di modo che gli interessi moratori non sono dovuti nella misura (usuraria) pattuita, bensì in quella dei corrispettivi
lecitamente convenuti, in applicazione dell’art. 1224, comma 1, c.c.; nei contratti conclusi con i consumatori è altresì applicabile la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f), e 36, comma 1, del d.lgs. n. 206 del 2005 (codice del consumo), essendo rimessa all’interessato la scelta di far valere l’uno o l’altro rimedio » ( cfr . Cass., SU, n. 19597 del 2020. Si veda pure, in senso stanzialmente conforme alla penultima riportata affermazione, Cass. n. 8103 del 2023, a tenore della quale «La pattuizione di un tasso di interesse moratorio usurario non comporta la gratuità del contratto, poiché la sanzione della non debenza di alcun interesse, prevista dall’art. 1815, comma 2, c.c., non coinvolge anche gli interessi corrispettivi lecitamente pattuiti, che continuano ad essere applicati ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c. »).
4.2.1. Si assume, tuttavia, nella doglianza in esame, che tali principi non potrebbero trovare applicazione nella fattispecie riguardante il contratto di conto corrente, essendo lo stesso caratterizzato dalla possibilità di unilaterale variazione dei tassi di interessi, da parte della banca, ai sensi della richiamata disposizione del menzionato d.lgs. n. 385 del 1993.
4.2.2. Posto, allora, che l’art. 118 del citato d.lgs., anche nel testo anteriore a quello oggi vigente (dal 13 luglio 2011), prevede la mera possibilità di pattuizione di una clausola recante la facoltà, per la banca, di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni previste dal contratto, rileva il Collegio (peraltro conscio della recente pronuncia resa da Cass. n. 27545 del 2023, a tenore della quale, « In tema di contratti bancari, la pretesa della banca di riscuotere interessi divenuti usurari nel corso del rapporto, avendo ad oggetto l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata, è contraria al principio di buona fede, che impone alle parti comportamenti collaborativi anche in sede di esecuzione del contratto ») che la censura non specifica minimamente se, ed eventualmente con quale contenuto, una siffatta clausola fosse effettivamente presente nel contratto di conto corrente di cui oggi si discute, né indica l’entità ed il momento di decorrenza di ciascuna delle eventuali variazioni dei tassi di interessi ove realmente intervenute ed applicate dalla banca in corso di rapporto.
4.2.3. Perciò solo, dunque, ed indipendentemente da ogni altra valutazione, in termini di sua condivisibilità o non, della riportata statuizione resa da Cass. n. 27545 del 2023, questo motivo si rivela essere inammissibile perché chiaramente in contrasto con il principio di autosufficienza del ricorso.
4.3. A tanto va aggiunto che lo stesso, come osservato anche dalla difesa della costituitasi controricorrente, « non può che suscitare perplessità alla luce del fatto che il saldo a debito della correntista per € 10.007,02 è frutto di un ricalcolo a mezzo di CTU secondo criteri di determinazione aderenti alle doglianze avversarie, ossia ‘depurando il saldo, determina to di volta in volta dalla banca, dagli addebiti trimestrali delle competenze per commissioni, spese ed interessi riportati nell’estratto conto” (pagg. 5 e ss. della perizia) nei trimestri in cui il perito d’ufficio ha rilevato la sussistenza di un fenomeno usurario, ossia il II trimestre 2004 e tutti i trimestri del 2006 e del 2009 » ( cfr. pag. 9 del controricorso).
In conclusione, dunque, l’odierno ricorso promosso da RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME e NOME COGNOME deve essere respinto, restando a loro carico, in via solidale, le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi controricorrente, altresì dandosi atto, -in assenza di ogni discrezionalità al riguardo ( cfr . Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 -che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte dei medesimi ricorrenti, in solido tra loro, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre « spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento ».
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso promosso da RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME e NOME COGNOME, e li condanna, in soldo tra
loro, al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi parte controricorrente, liquidate in € 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei medesimi ricorrenti, in solido tra loro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, giusta il comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile