Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 16623 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 16623 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 2654/2023 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME con domicilio digitale presso l’indirizzo pec del difensore;
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che li rappresenta e difende giusta procura in atti;
-controricorrenti –
avverso la sentenza n. 7428/2022 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/11/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Osserva
NOME COGNOME convenne in giudizio davanti il Tribunale di Velletri, Sezione Distaccata di Albano Laziale, il Comune di Albano e la RAGIONE_SOCIALE chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dal rilascio della concessione edilizia numero 76/04 e della correlata realizzazione del fabbricato edificato a confine della proprietà (muro di cemento armato alto metri 1,70 e, a distanza di un metro da detto muto, parete in cemento armato alta circa cinque metri per una lunghezza di circa trenta metri), in violazione dell’art. 873 cod. civ.
1.1. Il Comune di Albano si costituì eccependo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, essendo competente quello amministrativo; la RAGIONE_SOCIALE si costituì contestando l’avversa domanda e chiedendone il rigetto.
1.2. Il Tribunale, espletata la CTU, dichiarò il difetto di giurisdizione del Giudice adito relativamente alla domanda proposta nei confronti del Comune di Albano ed accolse parzialmente la domanda attorea, condannando la società convenuta al risarcimento del danno patrimoniale, quantificato in € 72.000,00.
Avverso detta sentenza propose appello la RAGIONE_SOCIALE Deceduta COGNOME NOME, si costituirono gli eredi NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME.
La Corte d’Appello di Roma confermò la sentenza di primo grado.
3.1. Questi, in sintesi, gli argomenti salienti della sentenza, per quel che qui possa rilevare:
-l’eccezione svolta dalla società appellante, solamente nella comparsa conclusionale, di ultrapetizione della sentenza di primo grado (la parte appellante addebitò al Tribunale di avere pronunciato oltre la domanda formulata dall’attrice, avendo affermato la violazione delle norme del piano regolatore e/o
particolareggiato e non della sola norma ex art. 873 cod. civ.), doveva considerarsi nuovo motivo di gravame, mai proposto con l’atto di appello, da ritenersi dunque tardivo e come tale inammissibile;
come correttamente rilevato dal Tribunale, il muro edificato lungo il confine con la proprietà dell’attrice, non poteva qualificarsi muro di cinta, dovendosi, di contro, considerarsi, unitamente al secondo muro posto all’interno della proprietà della società, un muro di spinta e contenimento di un terrapieno artificialmente realizzato dall’appellante, da considerarsi come vera e propria costruzione;
nel caso di specie, dunque, erano state violate le distanze, sia con riguardo a quanto stabilito dalla normativa urbanistica vigente all’epoca, sia con riguardo alla normativa del piano particolareggiato;
-l’ulteriore eccezione proposta dall’appellante, per cui la società non sarebbe proprietaria del secondo muro di contenimento, era stata proposta per la prima volta con l’atto di appello e, trattandosi di una nuova allegazione di fatto, costituiva questione nuova come tale inammissibile;
accertata la violazione delle distanze, il Giudice di primo grado correttamente aveva ritenuto provato il danno lamentato dall’attrice (sotto il profilo dell’indebita limitazione del pieno godimento del fondo) e conseguentemente aveva condannato la società appellante a risarcire il danno ex art. 2043 cod. civ., considerando congrua la somma liquidata, <>.
RAGIONE_SOCIALE propone ricorso fondato su tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria. Resistono con controricorso NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del disposto di cui all’art. 873 cod. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cod. proc. civ.
Questa la sintesi delle critiche mosse con il complesso censorio:
-i muri di contenimento, anche laddove dovessero considerarsi costruzioni, risultavano realizzati alla distanza di oltre dieci metri dal fabbricato di proprietà della COGNOME, in conformità a quanto dettato dall’art. 873 cod. civ., <>, unica norma invocata come violata dalla controparte;
la violazione non avrebbe potuto essere accertata avuto riguardo alla normativa urbanistica locale, senza contrastare con la necessaria corrispondenza fra chiesto e pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.);
-la Corte d’appello, rilevato che il Tribunale aveva pronunciato oltre il chiesto, avendo affermato essere state violata la normativa edilizio-urbanistica locale, avrebbe dovuto rilevare d’ufficio il contrasto con l’art. 112 cod. proc. civ.;
-la Corte d’appello aveva errato anche sotto altro profilo, in quanto le norme del piano particolareggiato non potevano trovare applicazione nel caso di specie, <>, risultando di contro pacifico e non contestato che la proprietà della COGNOME fosse al di fuori di dette zone. L’unica normativa applicabile al caso di specie era dunque quella di cui al D.M. n. 144/68.
5.1. Il motivo è infondato.
Non v’è ragione di sottrarre alla regola generale, secondo la quale al giudice d’appello è devoluto solo quanto dedotto ritualmente con i motivi d’appello, la contestata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.
Sul punto il Collegio condivide e assegna continuità al principio di diritto secondo il quale il giudizio di appello – in relazione al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato cui fa riscontro quello del “tantum devolutum quantum appellatum” – ha per oggetto la controversia decisa dalla sentenza di primo grado entro i limiti della devoluzione, quali risultano fissati dai motivi specifici che l’appellante ha l’onere di proporre con l’atto di appello. Ne consegue che la sentenza di secondo grado non può rilevare il vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado qualora tale profilo, in difetto di specifico motivo d’appello, risulti ormai coperto da giudicato sostanziale interno (Sez. l. n. 13351, 12/06/2014, Rv. 631463; conf. Cass. n. 21856/2004).
In disparte è appena il caso di evidenziare che la domanda con la quale vien chiesto il rispetto delle distanze ai sensi dell’art. 873 cod. civ. implica, per esplicito rinvio di quest’ultima disposizione, alle norme locali che stabiliscono una maggior distanza. Di conseguenza, il Tribunale non risulta aver deciso oltre la domanda, bensì esattamente nei limiti di essa.
Con il secondo motivo, la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cod. proc. civ., avendo la Corte di appello omesso di valutare la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, laddove aveva ritenuto corretta la pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva disposto la condanna al risarcimento di danni mai chiesti dall’attrice e, nello specifico, danni riferiti alla riduzione del godimento del
bene in termine di amenità e tranquillità, mentre l’attrice aveva chiesto le fosse risarcito il danno per la limitazione di luci e vedute; domanda quest’ultima disattesa dal Tribunale, con statuizione non impugnata.
6.1. Il motivo è inammissibile.
Dalla sentenza d’appello non consta che l’odierna ricorrente abbia sottoposto alla Corte territoriale siffatta critica, essendosi doluta, quanto al capo di condanna al risarcimento del danno, del fatto che il risarcimento fosse stato rapportato al ripristino dello stato dei luoghi, nonostante non fosse stata ordinata demolizione alcuna (cfr., da ultimo, sull’onere di specificità, Cass. n. 18018/2024).
I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio. Il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (Sez. 3, n. 2140, 31/01/2006, Rv. 588057; conf., ex multis, Cass. nn. 8624/2006, 18499/2006, 5836/2007, 13958/2007, 17041/2013, 18429/2013, 25319/2017, 20712/2018).
Con il terzo motivo la RAGIONE_SOCIALE denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 111 co. 6 della Costituzione in combinato disposto con l’art. 2697 cod. civ., in
relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cod. proc. civ., avendo la Corte d’appello accertato e quantificato il danno lamentato dall’attrice, in assenza di prova.
Lamenta la ricorrente che la Corte locale ha confermato la decisione di primo grado in ordine alla quantificazione del danno che sarebbe stato procurato alla controparte a cagione della riduzione di godimento del proprio immobile, quanto ad amenità e tranquillità senza che fosse stato provato alcunché sul punto e in assenza di motivazione.
7.1. La doglianza è fondata.
L’appellante si era doluta della quantificazione del risarcimento dei danni nella misura occorrente per il ripristino dei luoghi, nonostante non fosse stata pronunciata condanna alla demolizione.
La Corte d’appello, dopo avere affermato: <>, ha affermato non assumere rilievo <>.
È del tutto evidente che, al di là dell’eccessiva stringatezza, l’asserto in alcun modo può sussumersi nel ‘genus’ di motivazione, della quale non presenta alcuna delle necessarie qualità.
La giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni
obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. 6, n. 13977, 23/5/2019, Rv. 654145; ma già S.U. n. 22232/2016).
A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo apriori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto.
Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914).
Alla luce dei richiamati principi l’impugnata sentenza deve essere dichiarata nullo, poiché sorretta da un costrutto motivazionale di pura ed evidente apparenza, attraverso il quale il giudice si è illegittimamente sottratto al dovere di spiegare le ragioni della propria decisione, la quale s’impone e giustifica proprio attraverso la piena visibilità del percorso argomentativo, che non può ridursi al nudo atto di libera, anzi arbitraria, manifestazione del volere, avendo il giudice il dovere di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, non essendo bastevole una sommaria evocazione priva di un’approfondita disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (in tal senso, da ultimo, Cass. nn. 9105/2017, 20921/2019, 13248/2020).
In definitiva, resta insondabile il percorso argomentativo seguito dal giudice e cripticamente apodittica la decisione con la quale è stato rigettato il motivo: per vero, non è dato cogliere per quale ragione l’entità monetaria del danno da ridotta amenità, debba equivalere al costo di demolizione delle opere illegali.
Di talché si versa nell’ipotesi del modello di decisione apriori, nel quale assume rilievo l’atto del puro volere del giudice (rigetto del motivo), privo del costrutto giustificativo, in totale difformità del modello imposto dall’art. 111 Cost.
Il denunciato difetto assoluto di motivazione, pur formalmente non ineccepibile, avendo la ricorrente richiamato espressamente solo l’art. 111 Cost., piuttosto che l’art. 132 cod. proc. civ., non incorre in ammissibilità risultando agevole dal testo della doglianza cogliere la critica rivolta al modello della decisione difforme da quello codicistico.
Di conseguenza, pur dando piena continuità al principio secondo il quale la violazione delle norme costituzionali non può
essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459; conf., Cass. nn. 15879/2018, 3709/2014), nel caso in esame sotto il profilo evidenziato la critica è scrutinabile e, come si è visto, fondata.
Parimenti fondata deve reputarsi la falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. Non escluso il ricorso a presunzioni e a parametri equitativi al fine di provvedere alla quantificazione del danno, qui, tuttavia, non è dato sapere sulla base di quale plausibile criterio sia stata effettuata la quantificazione del danno, ancorata, per contro, al costo della demolizione dell’opera altrui illegale, del quale non viene spiegata e non consta essere stata neppure allegata la pertinenza.
9. accolto il terzo motivo la sentenza deve essere cassata con rinvio per nuovo esame. Il Giudice del rinvio regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo motivo, rigetta il primo e dichiara inammissibile il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione all’accolto motivo e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Roma, altra composizione.