Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3369 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 3369 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso 336-2024 proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dall’avv . NOME COGNOME e domiciliata presso la Cancelleria della Corte di Cassazione
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME e NOME COGNOME, elettivamente domiciliate in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che le rappresenta e difende;
-controricorrenti –
nonchè contro
COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME
-controricorrente –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE
– intimata – avverso la sentenza n. 7107/2023 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 6/11/2023;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione ritualmente notificato nel 2010 NOME evocava in giudizio COGNOME NOME, NOME, COGNOME e Unicredit Banca di Roma S.p.a. innanzi il Tribunale di Roma, invocando l’accertamento della propria proprietà esclusiva di un posto auto sito all’interno di uno stabile in Roma, INDIRIZZO e della responsabilità dei convenuti per la molestia arrecata ad essa attrice ed al risarcimento del danno. L’attrice esponeva infatti che con atto del 13.3.2003 a rogito del notar COGNOME era stato trasferita da COGNOME e COGNOME a COGNOME NOME la proprietà del posto auto di mq. 13 oggetto di causa, unitamente ad altro bene compreso nel medesimo edificio, e su di esso era stata accesa ipoteca, in data 14.3.2003, a garanzia di un finanziamento concesso da Unicredit Banca di Roma S.p.a. in favore della medesima COGNOME. Riteneva quindi che il detto atto di compravendita del 2003 costituisse molestia del suo diritto dominicale e chiedeva la condanna dei convenuti a cancellare la trascrizione dello stesso, nonché l’iscrizione della correlata ipoteca,
limitatamente al posto auto oggetto di causa, e a risarcire il danno nella misura di € 50.000 ovvero nella somma diversa ritenuta di giustizia.
Si costituiva la COGNOME, resistendo alla domanda.
Si costituivano anche NOME e NOME, deducendo l’assenza della molestia denunziata ed affermando che l’intestazione alla COGNOME del posto auto oggetto della domanda attorea era dovuta ad una semplice svista catastale commessa dal tecnico incaricato di eseguire la stima del cespite, nell’ambito della procedura di espropriazione immobiliare in esito alla quale la COGNOME aveva acquistato la proprietà del proprio bene immobile con annesso posto auto.
Rimaneva invece contumace Unicredit Banca S.p.a.
Con sentenza n. 7954/2017 il Tribunale rigettava la domanda, condannando l’attrice alle spese di lite e di C.T.U.
Con la sentenza impugnata, n. 7107/2023, la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame interposto da NOME avverso la decisione di prime cure, confermandola. Secondo la Corte distrettuale, l’ actio negatoria può essere esperita soltanto in presenza di molestie di fatto o di diritto relative al bene di proprietà della parte attrice, il che nella fattispecie non era avvenuto, non avendo la COGNOME avanzato alcuna pretesa in relazione al posto auto di pertinenza dell’immobile di proprietà della COGNOME La stessa attrice ed appellante, infatti, secondo la Corte territoriale, aveva affermato, nei propri scritti difensivi, ed ancora in atto di gravame, che ciascuna delle parti aveva liberamente goduto del proprio posto auto. Quanto poi all’ipoteca, la Corte di merito dava atto che la COGNOME aveva dimostrato di aver saldato tutte le rate del mutuo al quale la garanzia accedeva, ed escludeva pertanto, anche sotto tale profilo, la sussistenza di una molestia risarcibile.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione NOMECOGNOME affidandosi a due motivi.
Resistono con separati controricorsi, da un lato COGNOME NOME, e dall’altro lato NOME e NOME
Unicredit Banca di Roma S.p.a.RAGIONE_SOCIALE intimata, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
A seguito della proposta di definizione anticipata, formulata ai sensi di quanto previsto dall’art. 380 bis c.p.c., la parte ricorrente, con istanza in data 26.4.2024, corredata da nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.
In prossimità dell’adunanza camerale, la parte ricorrente e la controricorrente COGNOME hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente il collegio dà atto che, a seguito della pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte Corte n. 9611/2024 (Cass. Sez. U, Sentenza n. 9611 del 10/04/2024, Rv. 670667), non sussiste alcuna incompatibilità del presidente della sezione o del consigliere delegato, che abbia formulato la proposta di definizione accelerata, a far parte, ed eventualmente essere nominato relatore, del collegio che definisce il giudizio ai sensi dell’art. 380-bis.1, atteso che la proposta non ha funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente si configura quale fase distinta del giudizio di cassazione, con carattere di autonomia e contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta stessa
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione degli att. 100 c.p.c., 949 e 1372 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe trascurato di considerare che il disallineamento dei dati catastali identificativi del posto auto di cui è causa sarebbe stata causata da un fatto ascrivibile alle originarie convenute, e che la molestia arrecata alla proprietà della COGNOME
conseguiva alla impossibilità di disporre liberamente del proprio bene, rimanendo irrilevante la circostanza, erroneamente valorizzata dal giudice di merito, che ciascuna delle parti abbia goduto liberamente del posto auto di rispettiva pertinenza. Ad avviso della parte ricorrente, in altri termini, la molestia risarcibile sarebbe collegata alla scorretta individuazione catastale del bene di cui si discute, e non invece alla sua concreta utilizzazione nel corso del tempo. L’indicazione catastale dei cespiti immobiliari, infatti, assolverebbe una funzione certificativa risalente all’epoca dei Sumeri.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello ha evidenziato che nel caso di specie la stessa appellante, odierna ricorrente, aveva dichiarato di aver sempre liberamente fruito del proprio posto auto, ed ha quindi escluso la configurabilità di una molestia di fatto all’esercizio del diritto dominicale. Ha poi richiamato la motivazione del Tribunale, che aveva ritenuto assente anche la molestia di diritto, poiché la COGNOME non aveva dedotto che alcuno dei convenuti avesse rivendicato la proprietà, o altro diritto reale, sul posto auto distinto dal n. 9, di pertinenza del suo appartamento ed acquistato giusta decreto di trasferimento del 24.10.1995 emesso dal Tribunale di Roma in esito alla procedura espropriativa immobiliare R.G.E. 58805/1995. Infine, quanto all’ipoteca, la Corte distrettuale ha del pari richiamato la decisione di prime cure, evidenziando che la COGNOME aveva dimostrato di aver interamente saldato il mutuo a garanzia del quale la predetta era stata iscritta. Sulla base di tali premesse, non potendosi configurare né molestia di fatto, né molestia di diritto, la Corte capitolina ha escluso la sussistenza, in capo alla COGNOME, di un interesse concreto ed attuale ad agire.
Nel censurare tale decisione, l’odierna ricorrente assume che l’identificazione catastale assolverebbe ad esigenze certificative avvertite da oltre 4000 anni, e precisamente sin dall’epoca dei Sumeri, quando, all’incirca nel 2000 a.c., Shulgi, re di Ur, introdusse una prima forma di catasto immobiliare (cfr. pag. 13 del ricorso). La forma, dunque, in materia catastale costituirebbe, secondo la ricorrente, sostanza, ed il danno sarebbe da ravvisare nella mera circostanza del disallineamento dei dati catastali, che impedirebbe alla COGNOME di disporre liberamente del proprio cespite con le annesse pertinenze.
Premessa l’irrilevanza, ai fini della decisione, del riferimento al catasto di epoca sumera, occorre evidenziare che la doglianza in esame non si confronta adeguatamente con la ratio della decisione, poiché la Lappi non deduce, né dimostra, l’esistenza, in concreto, di una molestia di fatto o di diritto al suo diritto di proprietà: non è infatti contestato, dal motivo in esame, che ciascuna delle parti abbia liberamente fruito del proprio posto auto; e, del pari, non è contestato che le parti convenute non abbiano mai esercitato alcuna rivendicazione sul posto auto della Lappi, né che il finanziamento a garanzia del quale fu a suo tempo iscritta, per errore, ipoteca anche sul predetto bene sia stato interamente restituito. La prima circostanza (l’assenza di controversie sull’uso del posto auto) esclude la sussistenza di una molestia di fatto, mentre la seconda (l’assenza di rivendicazioni e la natura ormai soltanto ‘cartolare’ dell’iscrizione ipotecaria) esclude la sussistenza di molestie di diritto. La censura dell’odierna ricorrente, dunque, si risolve in una mera petizione astratta, secondo cui l’erronea indicazione catastale del posto auto comporterebbe una sorta di ‘danno in re ipsa’ , derivante dalla dichiarata impossibilità di disporne liberamente. Al riguardo, va evidenziato che dalla sentenza impugnata non emerge che la COGNOME abbia fornito la prova della dedotta impossibilità di disporre
liberamente del proprio posto auto, né la predetta indica, nel motivo in esame, l’intervenuta allegazione agli atti del giudizio di merito di un elemento idoneo a dimostrarne la sussistenza, con conseguente deficit di specificità della censura. Inoltre, mette conto precisare che in sede di gravame l’odierna ricorrente aveva lamentato la mancata valorizzazione, da parte del Tribunale, della ‘… usurpazione compiuta in danno dell’appellante dalle convenute del subalterno n. 9 catastale riferibile al posto auto già oggetto di decreto di trasferimento del Tribunale in favore della medesima …’ (cfr . pag. 6 della sentenza impugnata). Una volta escluso che le convenute abbiano avanzato alcuna rivendicazione, di fatto o di diritto, sul posto auto de quo circostanza, questa, come detto non contestata da parte ricorrente- è evidente che non si possa ravvisare alcuna condotta di usurpazione in danno della COGNOME. L’odierna prospettazione di un ‘danno in re ipsa’ , derivante dal mero disallineamento catastale del posto auto oggetto di causa, non appare coerente con il motivo di gravame rigettato dalla Corte capitolina, onde la censura appare ulteriormente inammissibile, nella misura in cui con essa viene introdotta una doglianza in parte nuova, rispetto a quanto effettivamente era stato dedotto e lamentato nel giudizio di merito, e segnatamente in grado di appello.
Con il secondo motivo, la parte ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 100, 113 c.p.c. e 949 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato la carenza di interesse ad agire rispetto alla domanda negatoria, senza procedere alla riqualificazione della pretesa.
La censura è inammissibile, poiché la parte ricorrente, nel contestare la statuizione del giudice di merito, e nell’affermare che quest’ultimo avrebbe dovuto procedere ad una riqualificazione della
domanda, al fine di ritenerla ammissibile in quanto sorretta da idoneo interesse ad agire, non indica, in concreto, quale sarebbe stato, in concreto, il corretto inquadramento giuridico da attribuire alla sua pretesa. La contestazione, dunque, non è assistita dal richiesto grado di specificità, essendo onere della parte, che contesti l’interpretazione della domanda giudiziale offerta dal giudice di merito, indicare quale sarebbe stata l’ipotesi ermeneutica alternativa corretta da seguire. La doglianza, dunque, è generica, dovendosi ribadire, in punto di interpretazione della domanda giudiziale, il principio secondo cui la stessa ‘… deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 3041 del 13/02/2007, Rv. 594291). Tale operazione ermeneutica è riservata al giudice di merito ed è sindacabile in Cassazione soltanto: ‘… a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del petitum, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la qualificazione giuridica dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di error in judicando, in
base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., o al vizio di error facti, nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.’ (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 11103 del 10/06/2020, Rv. 658078). In tutte le suindicate ipotesi, è evidentemente onere della parte ricorrente indicare, con la dovuta specificità e precisione argomentativa, quale sarebbe stata l’ipotesi ermeneutica alternativa che il giudice di merito avrebbe dovuto seguire. In difetto, la censura va dichiarata inammissibile, sia perché generica, sia perché essa finisce per attingere essenzialmente l’accertamento di merito operato dalla Corte distrettuale.
Alla luce delle esposte considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380bis c.p.c., vanno applicati -come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380bis c.p.c.- il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c., con conseguente condanna della parte ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna parte controricorrente, di una somma equitativamente determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagamento di una ulteriore somma -nei limiti di legge- in favore della cassa delle ammende.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P.R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, rispettivamente, per la controricorrente NOME COGNOME, in € 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge, inclusi iva e cassa avvocati, e per le controricorrenti NOME e NOME COGNOME, in € 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge, inclusi iva e cassa avvocati.
Condanna altresì la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., al pagamento, in favore di ciascuna delle due parti controricorrenti, di una somma ulteriore pari a quella sopra liquidata, per ciascuna di esse, per compensi, nonché al pagamento della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda