Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 34454 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 34454 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6452/2023 R.G. proposto da:
COGNOME NOME COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in CAPO DCOGNOME INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende
-ricorrenti- contro
COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, elettivamente domiciliati in BARCELLONA COGNOME DI GOTTO INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME MA COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende
-controricorrenti-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MESSINA n. 846/2022 depositata il 21/12/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10/12/2024 dal Consigliere dr. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME chiese al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto l’accertamento dell’ inesistenza di una servitù di veduta, di cui usufruivano abusivamente i proprietari confinanti NOME COGNOME e NOME COGNOME e la condanna alla conseguente eliminazione di un piano terrazza e sua sostituzione con un idoneo muro divisorio. Chiese, inoltre, l’arretramento della grondaia sporgente sul suo terreno, con la realizzazione di un idoneo canale di scolo all’interno del fondo avversario.
Il giudice adito respinse le domande.
Su gravame del COGNOME, con sentenza n. 846, depositata il 21 dicembre 2022, la Corte d’appello di Messina accolse l’impugnazion e , ribaltando l’esito del giudizio.
Il giudice di secondo grado osservò che non poteva configurarsi alcuna servitù di scolo costituita convenzionalmente o per usucapione, in favore del fabbricato degli appellati. Conseguentemente, andava vietato lo sversamento delle acque nel cortile di proprietà del COGNOME e disposto l’arretramento delle relative condutture. Allo stesso modo, la veduta verso il fondo dell’ appellante non era stata esercitata per un tempo sufficiente al fine dell’ acquisto della relativa servitù per usucapione: da ciò l’obbligo per il COGNOME e la COGNOME di realizzare opere fisse e stabili , in grado di impedire l’ inspicere ed il prospicere sul fondo vicino. Venne infine accolta la domanda risarcitoria, quantificata in € 3.000,00.
NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di cinque motivi.
Resistono con controricorso NOME e NOME COGNOME eredi di NOME COGNOME nel frattempo deceduto.
A seguito della proposta ex art. 380 bis c.p.c., i ricorrenti, con istanza sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale, hanno chiesto la decisione della causa, che è stata portata alla discussione della camera di consiglio, nel corso dell’odierna udienza.
Entrambe le parti hanno depositato memoria nei termini di legge.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, il collegio rileva che non sussiste alcuna incompatibilità del presidente della sezione o del consigliere delegato, che abbia formulato la proposta di definizione accelerata, a far parte, ed eventualmente essere nominato relatore, del collegio che definisce il giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis. c.p.c., atteso che la proposta non ha funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente si configura quale fase distinta del giudizio di cassazione, con carattere di autonomia e contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta stessa (cfr. Sezioni Unite sentenza n. 9611 del 10 aprile 2024).
Con la prima doglianza, i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., con riferimento alla domanda avversaria riguardante la grondaia.
A loro dire, la Corte d’Appello avrebbe ritenuto ammissibile una domanda del tutto nuova, formulata per la prima volta all’udienza del 10 giugno 2009, concernente l’ accertamento della servitù di scolo. Si sarebbe in realtà trattato di una mutatio , non legittimata da alcuna domanda riconvenzionale dei convenuti, che si erano limitati a sollevare una mera eccezione.
Con la seconda censura, il COGNOME e la COGNOME denunciano, ai sensi dell’art. 360 n n. 3, 4 e 5 c.p.c., la violazione degli artt. 949 e 2697 c.c. nonché 112 c.p.c., rimproverando alla Corte territoriale di non avere focalizzato l’oggetto del primo motivo di gravame, così pronunziando oltre i limiti della
domanda avversaria, fra l’altro in difetto totale della prova in ordine alle pretese caratteristiche dei reflui.
Entrambe le cenusre, che possono essere scrutinate congiuntamente per la loro evidente connessione logica, sono infondate.
Come riportato nella sentenza impugnata (pag. 2), già nel suo atto introduttivo l’attore COGNOME aveva richiesto l’arretramento della grondaia e la realizzazione del canale di scolo all’interno del terreno avversario. A fronte della richiesta dei convenuti volta ad ottenere il riconoscimento di una servitù di scolo, del tutto correttamente la Corte d’appello ha ritenuto l’ammissibilità della negatoria servitutis opposta dal medesimo attore, secondo i principi della c.d. reconventio reconventionis .
Infatti, la modificazione della domanda ammessa dall’art. 183, comma 6, c.p.c. può riguardare uno o entrambi gli elementi oggettivi della medesima (” petitum ” e ” causa petendi “), purché la domanda così modificata risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, per ciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, o l’allungamento dei tempi processuali (Sez. 3, n. 4031 del 16 febbraio 2021; Sez. 3, n. 4322 del 14 febbraio 2019; Sez. 3, n. 13091 del 25 maggio 2018).
Nel caso di specie, è immediatamente percepibile la connessione fra l’originaria domanda e la modifica in sede di memoria ex art. 183 6° comma c.p.c., mentre d’altronde come correttamente sottolineato dalla proposta ex art. 380 bis c.p.c. -è del tutto irrilevante che la modifica stessa sia intervenuta in conseguenza di un’eccezione riconvenzionale anziché di una domanda riconvenzionale, in mancanza di una distinzione operata dal codice di rito.
In punto di diritto, quindi, le conclusioni della Corte territoriale sono pienamente in linea con la giurisprudenza di questa Suprema Corte (v. anche Sez. U., n. 12310 del 15 giugno 2015; Sez. 2, n. 23975 del 6 settembre 2024; Sez. 3, n. 30455 del 2 novembre 2023).
La ritenuta ammissibilità della domanda modificata priva di fondamento sia l’ipotizzata violazione dell’art. 112 c.p.c., sia qualunque rilievo in ordine alla nocività dei reflui.
Il terzo mezzo di ricorso si appunta sulla violazione dell’art. 116 c.p.c. e degli artt. 908, 913 e 2697 c.c. , in relazione all’art. 360 n n. 3 e 5 c.p.c.
La Corte d’appello, in relazione alla questione dell’usucapione, avrebbe svolto un accertamento del tutto erroneo, perché imperniato sull’esclusione del periodo precedente al 1990. Inoltre, avrebbe mancato di tenere conto di indici e parametri, integranti punti decisivi, risultanti dalle prove orali e dalla documentazione acquisita.
Attraverso la quarta lagnanza, i ricorrenti deducono la violazione, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., degli artt. 2697 e 1226 c.c. Sostengono che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto della particolarità dei rapporti inter partes , della situazione dei fondi, della carenza di prova in ordine ai danni risarcibili dopo un lunghissimo tempo.
I predetti motivi anch’essi esaminabili congiuntamente sono destituiti di fondamento.
Giova ricordare che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (tra le varie, v. Sez. 1, n. 3340 del 5 febbraio 2019).
Ioltre, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Sez. L., n. 17313 del 19 agosto 2020; Sez. 3, n. 13395 del 29 maggio 2018).
Orbene, nel caso in esame, le violazioni denunziate non si ravvisano perché le censure investono la ricostruzione fattuale e le risultanze istruttorie.
E la sentenza impugnata si sottrae anche alla critica sulla motivazione, giacché la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., deve essere interpretata come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Sez. U., n. 8053 del 7 aprile 2014; Sez. 1, n. 7090 del 3 marzo 2022).
In definitiva, le doglianze si risolvono in una critica alla ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di merito.
E’ dunque opportuno ricordare che la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al presente giudizio qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito.
Per il resto, va ribadito che l’esame dei documenti esibiti e la valutazione degli stessi, come anche il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di
alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 1, n. 19011 del 31 luglio 2017; Sez. 1, n. 16056 del 2 agosto 2016).
In altri termini, la differente lettura delle risultanze istruttorie proposta dal ricorrente non tiene conto del principio per il quale la doglianza non può tradursi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Sez. U, n. 24148 del 25 ottobre 2013).
Quanto al vizio di violazione dell’art. 116 cpc, di cui pure è cenno nel terzo motivo, va ricordato che la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione. (Sez. U., n. 20867 del 30 settembre 2020).
Deve infine aggiungersi, quanto alla prova del danno risarcibile, che la violazione della prescrizioni in tema di proprietà (o di sue limitazioni), attesa la
natura del bene giuridico leso, determina un danno in re ipsa , con la conseguenza che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità concreta del pregiudizio patrimoniale subito al diritto di proprietà, dovendosi, di norma, presumere, sia pure iuris tantum , tale pregiudizio, fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso (Sez. 6-2, n. 25082 del 9 novembre 2020).
5 . Col quinto rilievo, si assume la violazione dell’art. 92 comma 2° c.p.c., ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., giacché la soccombenza sarebbe stata reciproca, né sarebbe stata condivisibile l’esclusione della compensazione anche parziale.
Il motivo è inammissibile.
La Corte d’appello ha fatto piena e corretta applicazione del principio della soccombenza, come previsto dall’art. 9 1 c.p.c.
Va in proposito ricordato che, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è pertanto limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti (tra le varie, Sez. 1, n. 19613 del 4 agosto 2017).
Pertanto, non essendo stata condannata alle spese alcuna parte vincitrice, l’individuazione della prevalente soccombenza rientra nelle prerogative del giudice di merito.
Al rigetto del ricorso segue la condanna solidale dei ricorrenti alla rifusione delle spese processuali in favore delle controricorrenti.
Al rigetto del ricorso, conformemente alla proposta di definizione anticipata, consegue altresì, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ. -vigente l’ art. 96, co. 3 e 4, cod. proc. civ. – la condanna dei ricorrenti al pagamento in favore delle controparti e della cassa delle ammende, delle somme, stimate congrue, di cui in dispositivo (cfr. S.U. n. 27195 del 22 settembre 2023).
La Corte da atto che ricorrono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per il raddoppio del versamento del contributo unificato, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 (tremila) per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 %, agli esborsi liquidati in euro 200,00 e agli accessori di legge.
Condanna, altresì, i ricorrenti al pagamento dell’ulteriore somma di € 3.000,00 (tremila) in favore delle controricorrenti, ai sensi dell’art. 96, co. 3, cod. proc. civ.; nonché della somma di € 2.000,00 (duemila) , ai sensi dell’art. 96, co. 4, cod. proc. civ., in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2024.