Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 7582 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 7582 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 21/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 8292-2019 proposto da:
NOME, elettivamente domiciliate in INDIRIZZO , nello studio dell’ AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO e domiciliati presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrenti –
nonchè contro
COGNOME COGNOME e COGNOME
– intimati – avverso la sentenza n. 1724/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 06/09/2018;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 25.5.2009 NOME COGNOME NOME evocava in giudizio RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE innanzi il Tribunale di Palermo, invocando la condanna dei convenuti alla rimozione di una veranda eretta in violazione delle norme in tema di distanze. L’attore allegava, in particolare, di essere proprietario di un immobile sito al primo piano di un edificio in condominio e si doleva della realizzazione, da parte dei proprietari dell’immobile sottostante, di una veranda eretta in violazione delle distanze, sia tra le costruzioni, ex art. 873 c.c., che dalle vedute, ex art. 907 c.c.
Interveniva in giudizio la coniuge dell’attore, COGNOME NOME, aderendo alla domanda formulata dal predetto e veniva esteso il contraddittorio anche nei confronti di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, comproprietari dell’immobile di parte convenuta.
Nella resistenza di parte convenuta il Tribunale, con sentenza n. 3996/2013 accoglieva parzialmente la domanda, ordinando l’arretramento del manufatto.
Con la sentenza impugnata, n. 1724/2018, la Corte di Appello di Palermo rigettava il gravame interposto dall’originario attore avverso la decisione di prime cure, confermandola.
Propone ricorso per la cassazione di tale pronuncia NOME, erede di NOME COGNOME NOME e COGNOME NOME, affidandosi a tre motivi.
Resistono con controricorso RAGIONE_SOCIALE NOME e RAGIONE_SOCIALE NOME.
Le altre parti intimate, RAGIONE_SOCIALE NOME e RAGIONE_SOCIALE NOME, non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (non specificate), in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato l’inammissibilità della domanda di rimozione della veranda, in quanto eretta illegittimamente, ritenendo tardiva la contestazione. A dire della parte ricorrente, non poteva ritenersi maturata nessuna decadenza ex artt. 183 e 345 cpc con riferimento alla domanda fondata su un diritto di uso.
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello afferma che gli odierni ricorrenti avevano agito in giudizio invocando il rispetto delle norme in tema di distanze, indicando espressamente i convenuti come ‘proprietari’ dell’area occupata dalla veranda di cui è causa. In tal modo, secondo la Corte distrettuale, gli odierni ricorrenti avevano riconosciuto il diritto di proprietà dei convenuti su detta area. Solo in comparsa conclusionale in prime cure, invece, avevano mutato i termini della domanda allegando il difetto, in capo ai convenuti, della proprietà dell’area occupata dalla veranda, sviluppando poi il nuovo tema in sede di gravame (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).
Per contestare tale statuizione, gli odierni ricorrenti allegano di aver sempre invocato la natura illegittima della costruzione, ma in tal modo
essi non si confrontano adeguatamente con la ratio della decisione, poiché non dimostrano di aver specificamente contestato la sussistenza, in capo ai convenuti, del diritto di proprietà dell’area occupata dalla veranda oggetto di causa. L’allegazione della natura illegittima di una costruzione, infatti, non presuppone necessariamente la contestazione del diritto di proprietà dello spazio sul quale essa incide; e, d’altra parte, il giudice di merito dà atto, con statuizione non specificamente contestata dagli odierni ricorrenti, che costoro avevano inizialmente fatto valere le norme in tema di distanze. L’illegittimità dedotta con citazione, quindi, era fondata sul mancato rispetto di queste ultime disposizioni, e non invece sulla mancanza del diritto di proprietà in capo ai convenuti.
Peraltro, va evidenziato anche che gli odierni ricorrenti, nell’attingere la decisione della Corte distrettuale, non indicano in modo specifico in quale momento del giudizio di merito, e con quale strumento processuale, avrebbero introdotto il tema della carenza del diritto di proprietà dell’area in capo ai convenuti (e la titolarità di un diritto di uso con vincolo di inedificabilità). Tema che il giudice di merito afferma espressamente esser stato introdotto per la prima volta soltanto tardivamente, dopo lo spirare dei termini di cui all’art. 183 c.p.c.
Ed infine, non è secondario rilevare che la stessa parte ricorrente afferma, in conclusione dello sviluppo logico della censura in esame, che il tema della proprietà dell’area in contestazione sarebbe indifferente: il che conferma, in modo indiretto, che la domanda iniziale, come correttamente ritenuto dalla Corte di Appello, non verteva sull’esistenza, o meno, del diritto dominicale, bensì sulla violazione delle norme in tema di distanze.
In ogni caso, va ribadito che ‘La rilevazione e l’interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito, sicché non è deducibile la violazione dell’art. 112 c.p.c., quale errore procedurale rilevante ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., quando il predetto giudice abbia svolto una motivazione sul punto, dimostrando come la questione sia stata ricompresa tra quelle oggetto di decisione, attenendo, in tal caso, il dedotto errore al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte’ (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 27181 del 22/09/2023, Rv. 668673; negli stessi termini anche Cass. Sez. 6 -1, Ordinanza n. 31546 del 03/12/2019, Rv. 656493, secondo la quale ‘… l’erronea interpretazione della domande e delle eccezioni non è censurabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., perché non pone in discussione il significato della norma ma la sua concreta applicazione operata dal giudice di merito, il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, ovviamente entro i limiti in cui tale sindacato è ancora consentito dal vigente art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.’). Nel caso di specie, la Corte di Appello ha interpretato la domanda proposta in primo grado -motivando adeguatamente sul punto- ricostruendola in termini di istanza di tutela delle distanze tra le costruzioni, ex art. 873 c.c., e di rispetto delle distanze dalle vedute, ex art. 907 c.c. (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).
Detta domanda avrebbe potuto essere modificata, in base alla norma di cui all’art. 183 c.p.c., nel testo vigente ratione temporis , entro l’udienza fissata ai sensi di detta disposizione, e non certo in comparsa conclusionale. Sul punto, va ribadito il principio secondo cui ‘La modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa
(petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015, Rv. 635536). E’ dunque corretta la statuizione con la quale la Corte distrettuale ha ritenuto inammissibile, perché tardiva, la modifica della domanda eseguita dall’odierna parte ricorrente soltanto con la comparsa conclusionale.
Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia il vizio di insufficienza e contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto che gli odierni controricorrenti ed intimati avevano acquistato la loro proprietà con vincolo convenzionale di inedificabilità assoluta sull’area poi occupata dalla veranda oggetto di causa.
Con il terzo motivo, invece, il ricorrente si duole dell’insufficienza e contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe dovuto ordinare la rimozione totale della veranda, in quanto violativa del diritto di veduta in appiombo.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono inammissibili.
Il vizio di contraddittorietà ed insufficienza della motivazione non rientra, in forza della novella del 2012, nel perimetro del vizio motivazionale utilmente denunziabile in sede di legittimità, limitato alla sola ipotesi dell’omesso esame di fatto decisivo.
Nel caso di specie, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla
sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Inoltre, neanche il vizio di omesso esame sarebbe utilmente denunziabile, sussistendo una ipotesi di cd. ‘doppia conforme’.
Con le censure in esame, in realtà, la parte ricorrente contrappone, alla ricostruzione del fatto e delle prove prescelta dal giudice di merito, una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di quella controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 3.200,00 di cui € 200,00 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in ragione del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda