Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 1380 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 1380 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6299/2017 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, INDIRIZZO;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv. NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso l’Avvocatura centrale dell’Istituto in Roma, INDIRIZZO;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 965/16, depositata il 13 febbraio 2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 4 ottobre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Consorzio RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio l’RAGIONE_SOCIALEIstituto Nazionale della Previdenza Sociale, per sentirlo condannare al pagamento della somma di Lire 92.683.185.000, oltre interessi e risarcimento del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 cod. civ., a titolo di maggiori oneri sopportati per l’esecuzione di lavori di microfilmatura ed acquisizione dei dati relativi alle schede anagrafiche dei lavoratori assistiti dalle varie sedi provinciali, affidati all’attrice con contratto di appalto del 2 agosto 1984.
A sostegno della domanda, l’attore riferì che i lavori, aventi originariamente ad oggetto 50.000.000 di documenti, non avevano potuto essere eseguiti secondo le modalità e nei tempi previsti, non avendo l’Istituto messo tempestivamente a disposizione gli archivi, ed essendosi dovuto provvedere ad ordinare le schede, conservate senza alcun ordine, spesso illeggibili e spillate ad altri documenti. Aggiunse che l’Istituto non le aveva assegnato tutti i documenti previsti, avendo indetto apposite gare di appalto, nessuna delle quali era stata aggiudicata ad esso attore.
Si costituì l’INPS, ed eccepì la prescrizione del credito e l’infondatezza della domanda, chiedendone il rigetto.
1.1. Con sentenza del 23 maggio 2007, il Tribunale di Roma accolse parzialmente la domanda, condannando l’INPS al pagamento degl’interessi legali sull’importo delle fatture elencate nel documento n. 21 dell’attore, con decorrenza dal trentesimo giorno successivo alla ricezione per l’acconto e dal quarantacinquesimo per il saldo, oltre interessi anatocistici dalla data di proposizione della domanda giudiziale.
L’impugnazione proposta dal RAGIONE_SOCIALE è stata rigettata dalla Corte d’appello di Roma, che con sentenza del 13 febbraio 2016 ha rigettato anche l’appello incidentale proposto dall’INPS.
A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto irrilevanti gl’impegni politico-sindacali previsti dall’accordo concluso presso il Ministero del lavoro
il 26 maggio 1982 tra quattro società informatiche, successivamente confluite nel Consorzio, e i sindacati, osservando che lo stesso, oltre ad avere come finalità precipua la difesa dei livelli occupazionali, non era stato sottoscritto dall’INPS, nei confronti del quale non poteva dunque spiegare efficacia vincolante, in assenza di un contratto scritto. Per le medesime ragioni, ha ritenuto non configurabile l’istituto della presupposizione, escludendo comunque che l’accordo fosse stato recepito dalle delibere del Consiglio di amministrazione dell’INPS n. 59 del 26 marzo 1982 e n. 177 del 4 giugno 1982, giacché le stesse non potevano far sorgere rapporti obbligatori tra le parti, ma solo fornire indicazioni all’azione amministrativa dell’ente. Ha ritenuto priva di valore confessorio o indiziario, in quanto recante valutazioni espresse in sede extraprocessuale ai fini di un’eventuale definizione transattiva della controversia, la relazione predisposta dalla Commissione d’indagine istituita dell’INPS. Ha escluso infine la possibilità di ravvisare una condizione meramente potestativa nell’attribuzione all’Istituto della facoltà di assegnare all’appaltatore quote di lavoro progressivamente decrescenti, senza alcuna condizione o limite, rilevando che le variazioni dei volumi da lavorare erano rimesse ad un gioco d’interessi e di convenienze, idonei a determinare, mediante il concorso di fattori estrinseci, la capacità e la volontà dell’INPS di procedere in proprio alla successiva lavorazione.
Premesso inoltre che l’attore, dopo aver proposto una domanda di risarcimento per inadempimento contrattuale, nel corso del giudizio di primo grado l’aveva modificata in domanda di risarcimento per responsabilità precontrattuale, per poi mutarla nuovamente in sede di gravame, al fine di sottrarsi all’eccezione di prescrizione sollevata dall’Istituto, la Corte ha ritenuto fondata l’eccezione d’inammissibilità proposta da quest’ultimo, rilevando che la nuova domanda era stata formulata soltanto nella memoria di cui all’art. 183 cod. proc. civ., ed escludendo che l’INPS avesse accettato il contraddittorio. Ha ritenuto invece infondata la domanda di risarcimento dei maggiori oneri sopportati dall’attore, osservando che, sulla base di una corretta interpretazione della clausole contrattuali, le diverse e maggiori lavorazioni indicate costituivano attività indispensabili per l’esecuzione del contratto, già comprese nelle obbligazioni previste dal capitolato, il quale includeva nell’o-
perazione di microfilmatura tutte le attività materiali antecedenti e successive, e poneva a carico dell’appaltatore ogni altro onere connesso con l’esecuzione del servizio.
La Corte ha poi confermato la misura degl’interessi dovuti per il ritardato pagamento delle fatture ed il rigetto della domanda di risarcimento del danno da svalutazione monetaria, ritenendo inammissibile la prova testimoniale dedotta dall’appellante in ordine al contenuto dei contratti bancari stipulati ed agl’interessi concretamente applicati dalla Banca, ed irrilevante lo schema di calcolo di tali interessi. Ha ritenuto altresì legittima la compensazione del residuo credito dell’attore per fatture non pagate con quello dell’INPS per penali applicate all’appaltatrice, rilevando che queste ultime, previste dal capitolato d’appalto ed irrogate in sede di pagamento delle fatture, erano state successivamente ridotte in contraddittorio tra le parti, con il consenso del Consorzio, e ratificate dall’INPS con determinazione n. 752 del 24 giugno 1987.
La Corte ha confermato infine l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno derivante dal ritardo nello svincolo della fideiussione, in quanto avanzata con la memoria di cui all’art. 183 cod. proc. civ., ed avente un petitum diverso da quello della domanda di risarcimento per inadempimento e di pagamento dell’importo delle fatture.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il RAGIONE_SOCIALE per undici motivi, illustrati anche con memoria. L’INPS ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, si rileva che, nella memoria depositata ai sensi dello art. 380bis .1 cod. proc. civ., la difesa del Consorzio ha segnalato che il Consigliere relatore si è già occupato della trattazione di altri ricorsi aventi analogo oggetto, rimettendo al Collegio la valutazione dell’opportunità della sua designazione come relatore anche del presente ricorso.
Tale designazione, in realtà, non si pone in contrasto né con ragioni di convenienza, rimaste peraltro imprecisate, né con alcuna disposizione di legge, ed in particolare con l’art. 51, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., il quale si riferisce al caso in cui il giudice abbia già conosciuto della medesima
causa in un altro grado del processo, e non è quindi applicabile alla diversa ipotesi in cui egli abbia precedentemente trattato un’altra causa avente un oggetto analogo ed implicante la risoluzione delle medesime questioni (cfr. Cass., Sez. II, 10/02/2015, n. 2593; Cass., Sez. lav., 23/02/2006, n. 4024).
Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., rilevando che il provvedimento costituisce una trascrizione pressocché integrale della sentenza n. 6482 del 2 dicembre 2013, emessa dalla stessa Corte d’appello tra le medesime parti, ma avente ad oggetto un altro appalto, con la sola modificazione del numero di ruolo della causa e della composizione del Collegio, e con l’aggiunta della motivazione relativa al rigetto dell’istanza di sospensione proposta da esso ricorrente. Sostiene che l’assenza di qualsiasi riferimento alla predetta sentenza esclude la possibilità di ritenere assolto per relationem l’obbligo di motivazione, per il cui adempimento è necessario che il giudice manifesti chiaramente la volontà di fare proprie le ragioni della precedente decisione.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 295 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per aver rigettato l’istanza di sospensione del giudizio in attesa dell’esito del ricorso per cassazione proposto contro l’altra sentenza, la cui definizione costituiva un antecedente logico-giuridico necessario della decisione.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1355, 1362, 1363, 1366 e 1987 cod. civ., anche in relazione all’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., osservando che, nell’escludere l’efficacia vincolante dell’accordo ministeriale nei confronti dell’INPS, la sentenza impugnata lo ha esaminato separatamente dalle delibere nn. 59 e 117 del 1982, senza tenere conto della concatenazione temporale e del nesso teleologico esistente tra i predetti atti. Premesso, infatti, che l’assegnazione dell’appalto trovava giustificazione nell’esigenza di provvedere per un verso all’elaborazione di un numero enorme di documenti giacenti presso l’Istituto e per altro verso all’assorbimento dei lavoratori dipendenti dalle società precedentemente incaricate di tale attività, sostiene che, nel riconoscere all’INPS la facoltà di determinare a sua discrezione il numero dei documenti da affidare all’appaltatore, la sen-
tenza impugnata non ha tenuto conto delle finalità complessivamente perseguite dalle parti, fornendo una lettura meramente parziale degli atti.
Con il quarto motivo, il ricorrente insiste sulla violazione degli artt. 1362, 1363 e 1366 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver escluso la configurabilità della presupposizione, in ragione dell’insussistenza di un accordo scritto, senza considerare che la stessa può ricorrere anche nei contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione iure privatorum , anche se rivolti al perseguimento di finalità pubbliche e traenti origine da atti amministrativi. Sostiene che un’interpretazione del contratto conforme ai principi di correttezza e buona fede avrebbe imposto di tenere conto del comportamento tenuto dall’INPS anche prima della stipulazione e delle deliberazioni dallo stesso adottate, aventi portata determinante nella formazione della volontà delle parti.
Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 1355, 1358, 1362, 1363 e 1366 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto configurabile una condizione potestativa mista, anziché una condizione meramente potestativa, sulla base del riferimento a fattori e circostanze estrinseche, che avrebbero dovuto costituire oggetto di specifiche clausole contrattuali.
Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ., degli artt. 1703, 2697, 2702 e 2735 cod. civ., nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nell’escludere il valore confessorio o indiziario della relazione della Commissione d’indagine, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dell’incarico, alla stessa conferito, di accertare eventuali responsabilità, né della mancata contestazione degli esiti dell’indagine da parte dell’INPS. Premesso che la confessione non era ascrivibile alla Commissione, ma all’Istituto, che ne aveva utilizzato la relazione, afferma che, in quanto non disconosciuta, quest’ultima avrebbe potuto essere utilizzata come prova diretta, trattandosi di un documento proveniente da una delle parti, dal quale emergeva l’obbligo dell’INPS di assegnare all’appaltatrice tutti i documenti giacenti, con esclusione di arbitrarie riduzioni.
Con il settimo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 183
cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento per responsabilità precontrattuale, senza tenere conto dell’accettazione del contraddittorio da parte dell’INPS e senza verificare se la domanda fosse stata proposta soltanto nella memoria di cui all’art. 183 cod. proc. civ. e se a sostegno della stessa fossero stati allegati elementi nuovi. Premesso che la domanda aveva ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti dalla mancata assegnazione di tutti i documenti, sostiene che la stessa trovava fondamento nell’inadempimento degli obblighi assunti con la delibera n. 59 del 1982, e riguardava perdite economiche già indicate nell’atto di citazione. Afferma comunque che la prescrizione dell’azione di responsabilità precontrattuale era stata interrotta con i documenti richiamati in sede di precisazione delle conclusioni.
9. Con l’ottavo motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 1346, 1355, 1362, 1363, 1366 e 1655 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver ravvisato un autonomo motivo di gravame in una parte dell’atto di appello dedicata alla descrizione dei danni da essa subìti, e volta ad introdurre le censure riguardanti l’estraneità delle ulteriori lavorazioni ad essa affidate rispetto all’oggetto del contratto. Sostiene che, nell’escludere tale estraneità, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della lettera del contratto e del capitolato, da cui emergevano specificamente le caratteristiche delle schede da microfilmare, lavorazioni affidate all’appaltatrice e le relative modalità, nonché l’esclusione di operazioni preliminari e prodromiche. Aggiunge che, nel riconoscere all’INPS la facoltà di consegnare i documenti in qualsiasi condizione si trovassero, la Corte territoriale ha reso indeterminabile l’oggetto dell’appalto, sottoponendo il contratto a una condizione meramente potestativa.
10. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1224 cod. civ. e dell’art. 167 cod. proc. civ., sostenendo che, nel rigettare la domanda di risarcimento del maggior danno, la Corte territoriale non ha considerato che lo stesso può essere riconosciuto in via presuntiva, in misura pari alla differenza tra il tasso di rendimento medio dei titoli di Stato e quello degl’interessi legali. Aggiunge che, nel rigettare la domanda di risarcimento del danno da svalutazione monetaria, la sentenza impugna non ha conside-
rato che a tal fine risultava sufficiente la prova, da essa fornita, del ricorso al credito bancario con l’indicazione delle somme versate alle banche per interessi passivi.
Con il decimo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 183 cod. proc. civ., sostenendo che, nel confermare l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno derivante dal ritardo nello svincolo della fideiussione, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dell’ammissibilità della modificazione della domanda originaria, purché la stessa risulti collegata alla vicenda che ha dato luogo al giudizio.
Con l’undicesimo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 6 del d.m. 8 aprile 2004, n. 127, censurando la sentenza impugnata per aver confermato la liquidazione delle spese processuali relative al giudizio di primo grado, effettuata dal Tribunale in base al disputatum , anziché in base al al decisum , senza tenere conto dell’accoglimento parziale della domanda.
Il primo motivo, con cui si fa valere l’identità della sentenza impugnata rispetto ad un’altra precedentemente pronunciata tra le stesse parti, è infondato.
Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, la mera circostanza che la motivazione della sentenza si limiti a riprodurre il contenuto di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari, senza nulla aggiungervi, non ne comporta la nullità, qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, non essendo tale tecnica di redazione di per sé sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato (cfr. Cass., Sez. Un., 16/01/2015, n. 642; Cass., Sez. V, 16/10/2022, n. 29028; 8/05/2015, n. 9334). Nella specie, d’altronde, il ricorso ad argomentazioni coincidenti con quelle svolte in un’altra sentenza pronunciata tra le medesime parti trova ragionevole giustificazione nell’identità delle questioni di fatto e di diritto da quest’ultima affrontate e nell’affinità dell’oggetto dei due giudizi, costituito da contratti di appalto riguardanti l’elaborazione dei documenti relativi alle posizioni previdenziali dei lavoratori
assistiti dall’INPS, e comune anche a numerosi altri giudizi, vertenti tra l’Istituto ed altre società incaricate del medesimo servizio, nei quali queste ultime hanno svolto difese analoghe a quelle formulate nel presente giudizio.
Il secondo motivo, concernente il rigetto dell’istanza di sospensione del giudizio, deve invece ritenersi superato, avendo la difesa del ricorrente dichiarato in memoria di non avere più interesse al suo esame, per effetto della sentenza del 12 gennaio 2017, n. 662, con cui questa Corte ha cassato la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 6482 del 2013.
E’ poi infondato il terzo motivo, avente ad oggetto l’esclusione dell’obbligo dell’INPS di assegnare al Consorzio il volume di lavoro previsto dall’accordo stipulato presso il Ministero del lavoro.
La negazione dell’efficacia vincolante di tale accordo nei confronti dello INPS trova coerente giustificazione da un lato nella mancata partecipazione dell’Istituto alla sua stipulazione, e nella sua conseguente estraneità alle pattuizioni intervenute tra le società appaltatrici del servizio e le organizzazioni sindacali, dall’altro nell’impossibilità di ricostruire la volontà manifestata dalle parti con il contratto di appalto sulla base delle deliberazioni adottate dal Consiglio di amministrazione dell’ente, che, ad avviso del ricorrente, avrebbero recepito il contenuto dell’accordo. In proposito, va infatti richiamato il principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di interpretazione dei contratti di diritto privato stipulati dagli enti pubblici, secondo cui la volontà negoziale di questi ultimi dev’essere desunta unicamente dal contenuto dell’atto, interpretato secondo i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., senza che possa farsi ricorso alle deliberazioni dei rispettivi organi competenti, le quali rilevano ai soli fini del procedimento di formazione della volontà, attenendo alla fase preparatoria del negozio, e sono quindi prive di valore interpretativo o ricognitivo delle clausole negoziali, a meno che non siano espressamente richiamate dalle parti (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. I, 14/02/2019, n. 4509; 28/05/2018, n. 13301; 9/05/2018, n. 11190). Sotto un diverso profilo, poi, la necessità della stipulazione in forma scritta, prescritta a pena di nullità per i contratti degli enti pubblici, esclude la possibilità di ricollegare direttamente alle predette delibere l’assunzione da parte dell’Istituto dell’obbligo di procedere all’assegna-
zione di ulteriori volumi di lavoro, trovando applicazione l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in mancanza di un valido documento contrattuale, recante la sottoscrizione del contraente privato e dell’organo titolare del potere di rappresentanza dell’ente, con le indispensabili determinazioni in ordine alla prestazione da rendere ed al corrispettivo da pagare, la deliberazione con cui l’organo competente a formare la volontà dell’ente abbia autorizzato la stipulazione non è di per sé idonea a far sorgere il vincolo negoziale, non costituendo una proposta contrattuale, ma un atto con efficacia interna avente quale unico destinatario l’organo legittimato a manifestare la volontà dell’ente nei rapporti con i terzi (cfr. Cass., Sez. I, 9/07/2018, nn. 18002 e 18003; 20/03/2014, n. 6555; 26/01/2007, n. 1752). La natura preparatoria delle delibere, aventi efficacia meramente interna, in quanto inserite nel procedimento di formazione della volontà dell’Istituto, esclude infine la possibilità di ravvisare un collegamento negoziale tra le stesse e il contratto di appalto stipulato con il Consorzio, rispetto al quale esse non si configurano come atti distinti, tipologicamente eterogenei e funzionalmente autonomi, ma teleologicamente coordinati in vista della realizzazione di un più ampio ed unitario assetto d’interessi, bensì come atti prodromici, privi di effetti propri, in quanto preordinati esclusivamente alla formazione dell’atto in cui il procedimento è sfociato.
Non merita accoglimento neppure il quarto motivo, con cui viene riproposta la questione della presupposizione.
Correttamente la sentenza impugnata ha escluso la possibilità d’individuare, all’origine del rapporto contrattuale, una situazione di fatto o di diritto, comune ad entrambe le parti ed avente carattere certo ed obiettivo, la cui considerazione, da parte dei contraenti, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale potesse indurre a ritenere, pur in assenza di un’esplicita menzione, che il venir meno della stessa potesse comportare la caducazione del contratto d’appalto (cfr. Cass., Sez. Un., 20/04/2018, n. 9909; Cass., Sez. I, 15/12/2021, n. 40279; Cass., Sez. III; 24/08/2020, n. 17615): questa Corte ha infatti precisato che, ai fini della configurabilità della presupposizione, è necessario che a) la condizione non espressa sia comune a tutti i contraenti, b) l’evento presupposto sia stato assunto come certo nella rap-
presentazione delle parti, c ) si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione (cfr. Cass., Sez. III, 11/10/ 2021, n. 27528). Nella specie, è stata esclusa la sussistenza del primo requisito, essendo state poste in risalto la mancata partecipazione dell’INPS alla stipulazione dell’accordo ministeriale e l’inidoneità delle deliberazioni del Consiglio di amministrazione dell’Istituto a determinare l’insorgenza di rapporti obbligatori tra le parti, che, comportando l’inopponibilità dell’accordo nei confronti di uno dei contraenti, impedivano di ricollegare all’inadempimento delle relative pattuizioni gli effetti invocati dal ricorrente. A ciò si aggiunga che, in quanto dipendenti dalla volontà rispettivamente dell’Istituto e del Consorzio, l’assegnazione dell’intero volume di documenti previsto dall’accordo e l’assunzione dei dipendenti delle società precedentemente incaricate del servizio non avrebbero potuto in nessun caso essere considerate idonee ad integrare l’istituto della presupposizione, potendo al più costituire oggetto di specifiche obbligazioni a carico delle parti, se ed in quanto fossero state espressamente contemplate dal contratto di appalto.
17. E’ altresì infondato il quinto motivo, con cui il ricorrente insiste sulla configurabilità di una condizione meramente potestativa, in relazione al riconoscimento in favore dell’INPS della facoltà di determinare a propria discrezione il volume di documenti da assegnare all’appaltatore.
La Corte territoriale ha infatti osservato che tale determinazione non era rimessa esclusivamente alla volontà dell’Istituto, ma era collegata ad una serie di elementi oggettivi, quali l’avanzamento del processo di ristrutturazione della sua organizzazione e d’informatizzazione della sua attività, idonei ad incidere sulla sua capacità di provvedere autonomamente, in tutto o in parte, alle lavorazioni affidate al Consorzio: correttamente, pertanto, ha ritenuto che la previsione della possibilità di assegnare un numero decrescente di documenti all’appaltatore, fino a cessare eventualmente tale assegnazione, non fosse qualificabile come una condizione meramente potestativa. Quest’ultima consiste infatti in un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri o apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, svin-
colato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza, sì da manifestare l’assenza di una seria volontà della parte di ritenersi vincolata dal contratto: essa non ricorre quindi nel caso in cui, come nella specie, l’evento dedotto in condizione è collegato a valutazioni di interesse e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche l’interesse proprio del contraente, soprattutto se la decisione è affidata al concorso di fattori estrinseci, idonei ad influire sulla determinazione della volontà, pur se la relativa valutazione è rimessa all’esclusivo apprezzamento dell’interessato (cfr. Cass., Sez. V, 20/11/2019, n. 30143; Cass., Sez. III, 26/08/2014, n. 18239; Cass., Sez. II, 21/05/2007, n. 11774).
18. E’ infondato anche il sesto motivo, con cui il ricorrente insiste sul valore confessorio o indiziario della relazione predisposta dalla Commissione d’indagine istituita dall’INPS ai fini di un’eventuale definizione transattiva della controversia.
L’efficacia di confessione è stata infatti correttamente esclusa dalla sentenza impugnata sulla base del carattere non vincolante del parere reso dalla Commissione, avente portata meramente interna, e dell’inidoneità delle valutazioni in esso contenute a sostituire le determinazioni degli organi deliberativi dell’Istituto, nonché delle finalità dell’indagine, consistenti nel favorire un bonario componimento della vertenza insorta tra le parti. Tale affermazione non contrasta con l’affidamento alla Commissione dell’incarico di accertare eventuali responsabilità, né con l’utilizzazione dei risultati dell’indagine da parte dell’INPS, giacché, in assenza dell’attribuzione di un potere rappresentativo, il mandato in tal modo conferito avrebbe potuto comportare, al più, il riconoscimento di una legittimazione ad agire per conto dell’Istituto, ma non anche della capacità di disporre del diritto in contestazione, in mancanza della quale non può riconoscersi valore confessorio alle risultanze dell’accertamento compiuto dalla mandataria (cfr. Cass., Sez. I, 9/07/2018, n. 18002 e 18003; Cass., Sez. II, 20/06/2013, n. 15538; Cass., Sez. III, 6/07/1990, n. 7125). Quanto poi alla possibilità di attribuire alla relazione valore indiziario, è appena il caso di richiamare il costante orientamento di questa Corte in materia di presunzioni, secondo cui la valutazione della opportunità di farvi ricorso, l’individuazione dei fatti da porre a fondamento del relativo processo
logico e il riscontro della loro rispondenza ai requisiti di legge si traducono in un apprezzamento di fatto, rimesso in via esclusiva al giudice di merito, e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione, nella specie neppure dedotto dal ricorrente (cfr. Cass., Sez. lav., 5/08/2021, n. 22366; Cass., Sez. V, 8/01/2015, n. 101; Cass., Sez. III, 2/04/2009, n. 8023).
19. Il settimo motivo, riflettente l’ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni derivanti dal mantenimento di una struttura societaria adeguata all’affidamento dell’intero volume di documenti previsto dall’accordo ministeriale e dalle successive delibere, non merita accoglimento.
La stessa difesa del ricorrente riconosce infatti che la predetta domanda, proposta a titolo di responsabilità precontrattuale, è stata avanzata per la prima volta nella memoria depositata ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ., avendo essa proposto, nell’atto di citazione, una domanda di risarcimento del danno per responsabilità contrattuale, avente ad oggetto esclusivamente il riconoscimento del mancato guadagno, degli oneri economici sopportati e delle perdite subìte in conseguenza dell’inadempimento degli obblighi assunti dall’INPS con il contratto di appalto. La sentenza impugnata ha poi accertato che in sede di gravame l’appellante ha modificato il titolo della pretesa, proponendo una domanda di risarcimento per responsabilità contrattuale, e ciò essenzialmente al fine di sottrarsi alla prescrizione quinquennale dichiarata dal Tribunale: rilevato peraltro che la domanda era stata proposta tardivamente, l’ha correttamente dichiarata inammissibile, indipendentemente dal tipo di responsabilità fatta valere, escludendo l’intervenuta accettazione del contraddittorio da parte del convenuto, e ritenendo comunque ininfluente il comportamento di quest’ultimo, in considerazione della rilevabilità d’ufficio della questione.
Non può condividersi la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo cui le modificazioni ripetutamente intervenute nel corso del giudizio avrebbero riguardato esclusivamente la natura giuridica della responsabilità, essendo rimasti inalterati gli elementi di fatto allegati a sostegno della domanda di risarcimento: come si evince dalle conclusioni dell’atto di citazione in primo grado, trascritte nel motivo di ricorso, tale domanda aveva infatti ad oggetto gene-
ricamente il ristoro delle «perdite economiche» subìte dall’attore in conseguenza della vicenda contrattuale riferita nella narrativa dell’atto, nell’ambito della quale l’assunzione di un numero di dipendenti sufficiente a far fronte alla successiva assegnazione di un congruo numero di appalti non costituiva oggetto di specifica considerazione; soltanto nella memoria depositata ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ. tale circostanza è stata scorporata dalle altre allegate a fondamento della domanda, e fatta valere a sostegno di una distinta pretesa, avente ad oggetto il risarcimento dei danni per un titolo di responsabilità diverso da quello precedentemente dedotto: tale diverso inquadramento giuridico, implicante il riferimento alla condotta tenuta dalle parti anteriormente alla stipulazione del contratto, posto anche in relazione con l’autonoma rilevanza attribuita ad uno specifico pregiudizio, ha comportato l’introduzione di un tema d’indagine completamente nuovo, fondato su presupposti totalmente diversi da quelli precedentemente prospettati e idoneo a determinare un disorientamento della controparte, con conseguente alterazione dello svolgimento del contraddittorio. Non può dunque trovare applicazione, nel caso in esame, il principio, costantemente ribadito dalla più recente giurisprudenza di legittimità ed invocato dalla difesa del ricorrente, secondo cui la modificazione della domanda deve considerarsi ammissibile, ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ., anche se riguardante uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa, dovendosi comunque tenere conto della precisazione, compiuta in proposito da questa Corte, secondo cui la domanda così modificata deve non solo risultare connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, ma non comportare neppure una compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali (cfr. Cass., Sez. Un., 15/06/2015, n. 12310; Cass., Sez. III, 16/02/ 2021, n. 4031; 14/ 02/2019, n. 4322).
In assenza dei predetti presupposti, la domanda è stata correttamente dichiarata inammissibile dalla sentenza impugnata, la quale non merita censura neppure nella parte in cui ha negato qualsiasi rilevanza all’eventuale accettazione del contraddittorio da parte del convenuto: nell’ambito del regime di preclusioni introdotto dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 e più volte modificato in epoca successiva, la questione riguardante la novità delle
domande risulta infatti sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa esclusivamente al rilievo d’ufficio da parte del giudice, in virtù del principio secondo cui il thema decidendum non è più modificabile dopo la chiusura dell’udienza di trattazione o dopo la scadenza dei termini concessi dal giudice ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. I, 26/09/2019, n. 24040; Cass., Sez. II, 31/05/ 2017, n. 13769; Cass., Sez. III, 24/01/2012, n. 947).
20. L’ottavo motivo è invece inammissibile, sia nella parte riguardante la ricostruzione del contenuto dell’atto di appello, sia in quella riguardante l’individuazione dell’oggetto del contratto.
L’interpretazione dei motivi di gravame costituisce infatti un’attività riservata al giudice d’appello, il cui apprezzamento è sindacabile in sede di legittimità esclusivamente per incongruenza o illogicità della motivazione, nella specie neppure dedotte, e non anche per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, giacché, rispetto agli atti giudiziali, non si pone una questione d’individuazione della comune intenzione delle parti, e la stessa soggettiva intenzione dell’autore rileva solo nei limiti in cui sia stata esplicitata in modo tale da consentire alla controparte di cogliere l’effettivo contenuto dell’atto e di svolgere un’adeguata difesa (cfr. Cass., Sez. III, 4/11/2020, n. 24480; 9/12/2014, n. 25853).
Ai fini dell’individuazione dell’oggetto dell’appalto, la sentenza impugnata si è invece attenuta scrupolosamente al testo delle clausole contrattuali, richiamando da un lato l’art. 5 del capitolato speciale, il quale includeva nell’operazione di microfilmatura dei documenti anche il compimento di tutte le operazioni materiali anteriori e successive, necessarie ad agevolare l’attività principale e a ripristinare l’ordine degli archivi in cui erano custodite le schede anagrafiche, e dall’altro l’art. 2 del contratto, che poneva a carico dell’appaltatore ogni altro onere connesso con l’esecuzione del servizio, osservando che, alla luce di tale precisazione, l’elenco delle operazioni contenuto nell’art. 5 cit. doveva considerarsi meramente esemplificativo, e concludendo pertanto che le modalità di esecuzione del servizio comprendevano anche la selezione preventiva dei documenti da acquisire e la possibilità di una loro sostituzione o riacquisizione, nel caso in cui fossero risultati estranei alla tipologia da microfilmare e trasferire su supporto informatico. Tale apprezza-
mento, ampiamente e congruamente motivato, non comporta in alcun modo l’indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto, la quale in tanto può ritenersi sussistente in quanto l’oggetto non possa essere individuato con riferimento ad elementi prestabiliti dalle parti ed aventi una preordinata rilevanza obiettiva (cfr. Cass., Sez. I, 19/03/2007, n. 6519; Cass., Sez. III, 19/08/1983, n. 5421; Cass., Sez. II, 24/01/1979, n. 534); esso, inoltre, non risulta validamente censurato dal ricorrente, il quale, nel lamentare la violazione delle regole ermeneutiche legali, si limita ad insistere sul significato letterale delle espressioni usate nel contratto, puntualmente ricostruito dalla sentenza impugnata, senza essere in grado di individuale elementi testuali dalla stessa indebitamente trascurati o sfumature di senso dalla stessa impropriamente attribuite agli elementi considerati, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso la censura di violazione di legge, una diversa lettura degli atti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica del provvedimento impugnato, nonché la coerenza logico-formale della motivazione, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. ad opera dell’art. 54, comma primo, lett. b) , del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/ 2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/ 2017, n. 19547).
21. Il nono motivo, riguardante il risarcimento del maggior danno dovuto per il ritardo nell’adempimento, è infondato.
La sentenza impugnata non si è affatto discostata dal principio, enunciato da questa Corte in tema di ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta, secondo cui il maggior danno di cui all’art. 1224, secondo comma, cod. civ. può essere ritenuto sussistente in via presuntiva qualora, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, con la conseguenza che, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, è sufficiente che lo stesso produca documentazione da cui si evinca che, durante la
mora del debitore, abbia fatto ricorso al credito bancario o ad altre forme di approvvigionamento di liquidità con la dimostrazione dei rispettivi costi (cfr. Cass., Sez. Un., 16/07/2008, n. 19499; Cass., Sez. VI, 9/08/2021, n. 22512; Cass., Sez. II, 16/02/2015, n. 3029). Nella specie, infatti, è proprio tale prova ad essere stata ritenuta insussistente, avendo la Corte territoriale reputato insufficienti, a tal fine, gli schemi di calcolo degl’interessi passivi prodotti dal Consorzio, in quanto relativi esclusivamente alla determinazione dell’ammontare del danno, ed inammissibile la prova testimoniale dedotta in ordine al contenuto dei contratti bancari stipulati dal ricorrente ed ai tassi concretamente applicati dalle Banche, in quanto avente ad oggetto circostanze da dimostrarsi in via documentale.
Il decimo motivo, riguardante la dichiarazione d’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno per il ritardo nello svincolo della fideiussione, è infondato, per ragioni analoghe a quelle esposte in riferimento al settimo motivo.
La domanda in esame, non contenuta nell’atto di citazione in primo grado, ma proposta soltanto con la memoria di cui all’art. 183 cod. proc. civ., pur essendo ricollegabile alla medesima vicenda contrattuale, non poteva ritenersi inclusa in quella originaria, essendo caratterizzata da un petitum e una causa petendi diversi da quelli di quest’ultima: essa aveva infatti ad oggetto il ristoro dei maggiori oneri economici sostenuti per il versamento del premio necessario ai fini del mantenimento della fideiussione e trovava fondamento nel ritardo con cui l’Istituto aveva provveduto allo svincolo della garanzia, a seguito dell’ultimazione dei lavori, comportando pertanto un ampliamento del thema decidendum , con conseguente disorientamento della difesa della controparte.
Non merita infine accoglimento l’undicesimo motivo, riguardante la liquidazione delle spese del giudizio di primo grado.
Ai fini della predetta liquidazione, la sentenza impugnata ha infatti richiamato il principio, ripetutamente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di spese processuali, secondo cui l’art. 6 della tariffa forense trova applicazione soltanto in riferimento alle cause per le quali si proceda alla determinazione presuntiva del valore sulla base di parametri legali, e non anche
allorquando il valore della causa sia stato in concreto dichiarato, dovendosi in tal caso applicare il disposto dell’art. 10 cod. proc. civ., senza che assuma alcun rilievo, al riguardo, la coincidenza del valore dichiarato con l’importo individuato dal giudice in sentenza, e senza che risulti necessario motivare in ordine alla mancata adozione di un diverso criterio (cfr. Cass., Sez. VI, 2/11/ 2022, n. 32265; Cass., Sez. II, 12/04/2010, n. 8660; 12/02/2004, n. 2701). Nel contestare l’applicazione del predetto principio, il ricorrente non nega di aver dichiarato il valore della causa, ma si limita ad insistere sull’accoglimento parziale della domanda da esso proposta, che non si pone in alcun modo in contrasto con il criterio ritenuto applicabile dalla sentenza impugnata, il quale, come si è detto, trova applicazione esclusivamente nel caso in cui sia mancata la predetta dichiarazione, e debba quindi procedersi alla determinazione del valore della causa sulla base di parametri legali.
24. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 12.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 4/10/2023