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Mobilità in deroga: onere della prova e ruolo INPS

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 35145/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un ente previdenziale contro la sentenza che lo condannava al pagamento dell’indennità di mobilità in deroga a un lavoratore. La Corte ha stabilito che, una volta ottenuta l’autorizzazione regionale, l’onere di provare l’eventuale esaurimento dei fondi spetta all’ente pagatore e non al lavoratore. Le questioni sulla titolarità passiva e sul litisconsorzio necessario sono state respinte perché basate su accertamenti di fatto non ammissibili in sede di legittimità.

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Pubblicato il 11 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Mobilità in deroga: a chi spetta provare l’esaurimento dei fondi?

L’indennità di mobilità in deroga rappresenta un’importante misura di sostegno al reddito per i lavoratori espulsi dai processi produttivi. Tuttavia, il percorso per ottenerla può essere complesso, specialmente quando l’ente previdenziale nega il pagamento adducendo la mancanza di fondi. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce un punto cruciale: l’onere di provare l’esaurimento delle risorse finanziarie spetta all’ente erogatore, non al lavoratore. Analizziamo questa importante decisione.

I Fatti del Caso

Un lavoratore, beneficiario dell’indennità di mobilità in continuità dal 2007, si è visto negare il pagamento della prestazione per l’annualità 2012 da parte dell’ente previdenziale nazionale. L’ente ha giustificato il diniego sostenendo unicamente la mancanza di fondi necessari per la copertura finanziaria. Il lavoratore ha quindi adito le vie legali. La Corte d’Appello, riformando la decisione di primo grado, ha accolto la richiesta del lavoratore, condannando l’ente al pagamento. Contro questa decisione, l’ente previdenziale ha proposto ricorso in Cassazione, sollevando tre motivi principali: la propria mancanza di titolarità passiva (sostenendo di essere un mero pagatore), il difetto di contraddittorio per la mancata citazione in giudizio della Regione e dello Stato, e la violazione delle norme sull’onere della prova.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso dell’ente previdenziale inammissibile, confermando di fatto la sentenza d’appello favorevole al lavoratore. Gli Ermellini hanno ritenuto che i primi due motivi di ricorso (difetto di titolarità passiva e di contraddittorio) fossero inammissibili perché introducevano questioni basate su accertamenti di fatto nuovi, non dedotti nelle fasi precedenti del giudizio e quindi preclusi in sede di legittimità. Anche il terzo motivo, relativo all’onere della prova, è stato giudicato inammissibile, poiché non denunciava una reale violazione delle norme processuali, ma mirava a ottenere una nuova e non consentita valutazione del merito delle prove.

Le Motivazioni: Mobilità in deroga e l’onere della prova

La Corte ha delineato con chiarezza la ripartizione dei ruoli e degli oneri nel procedimento di concessione della mobilità in deroga. La procedura si articola in due fasi distinte.

Il ruolo dell’Ente Previdenziale

La prima fase, di natura amministrativa, è di competenza della Regione, che ha il compito di autorizzare la concessione del beneficio. Una volta emesso il decreto regionale di autorizzazione, sorge in capo al lavoratore un vero e proprio diritto soggettivo al pagamento della prestazione. A questo punto, inizia la seconda fase, in cui l’ente previdenziale assume il ruolo di soggetto obbligato al pagamento. Di conseguenza, l’azione legale per ottenere l’erogazione della somma deve essere correttamente intentata nei confronti dell’ente previdenziale, che è l’unico legittimato passivo. Non sussiste, in questa fase, un litisconsorzio necessario con la Regione, il cui compito si è esaurito con l’autorizzazione.

L’onere della prova sulla capienza dei fondi

Il punto centrale della motivazione riguarda l’onere della prova. La Corte d’Appello aveva correttamente ritenuto che il lavoratore dovesse solo dimostrare i presupposti per fruire del trattamento (in questo caso, la continuità della percezione fin dal 2007) e la tempestiva presentazione della domanda. La proroga stessa del beneficio implicava l’esistenza di un provvedimento di autorizzazione originario. Di fronte a questi elementi, l’eccezione dell’ente previdenziale, basata sulla mancanza di fondi, assume la natura di un fatto impeditivo del diritto del lavoratore. Secondo il principio della vicinanza della prova (art. 2697 c.c.), l’onere di dimostrare tale esaurimento dei fondi spetta alla parte che ha maggiore facilità di accesso a tale informazione, ovvero l’ente previdenziale stesso. Poiché l’ente non ha fornito tale prova, la sua difesa è risultata infondata.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza consolida un orientamento giurisprudenziale fondamentale a tutela dei lavoratori. Stabilisce che, una volta ottenuta l’autorizzazione regionale per la mobilità in deroga, il lavoratore ha un diritto pieno alla prestazione. Non può essere gravato dall’onere, spesso impossibile da assolvere, di verificare la capienza dei fondi statali o regionali. Spetta all’ente previdenziale, quale debitore della prestazione, dimostrare in modo inequivocabile l’eventuale esaurimento delle risorse finanziarie. In assenza di tale prova, l’ente è tenuto al pagamento, garantendo così effettività a un’importante misura di welfare.

Chi deve essere citato in giudizio per ottenere il pagamento della mobilità in deroga dopo l’autorizzazione regionale?
Dopo il decreto di autorizzazione della Regione, il lavoratore ha un diritto soggettivo alla prestazione e l’azione legale per il pagamento deve essere intentata esclusivamente nei confronti dell’ente previdenziale, che diventa l’unico legittimato passivo.

A chi spetta l’onere di provare che i fondi per la mobilità in deroga sono esauriti?
L’onere di provare l’esaurimento dei fondi spetta all’ente previdenziale. Si tratta di un fatto impeditivo del diritto del lavoratore, e per il principio di vicinanza della prova, deve essere dimostrato dalla parte che ha più facile accesso a tale informazione, ovvero l’ente stesso.

È possibile sollevare per la prima volta in Cassazione questioni sul difetto di titolarità passiva basate su nuovi elementi di fatto?
No, la Corte di Cassazione ha stabilito che questioni fondate su elementi di fatto nuovi e diversi da quelli discussi nelle fasi di merito, come quelle relative alla titolarità passiva basate su decreti interministeriali, sono precluse in sede di legittimità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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