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Mobbing lavorativo: quando le condotte non bastano

Un dipendente bancario ha citato in giudizio il proprio datore di lavoro a seguito di una fusione aziendale, lamentando un errato inquadramento, il mancato rimborso di spese e condotte di mobbing. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, stabilendo che per configurare il mobbing lavorativo è indispensabile che il lavoratore fornisca la prova di un preciso intento persecutorio che unifichi le diverse azioni datoriali. Le singole condotte, anche se negative, non sono sufficienti se non inserite in un disegno vessatorio complessivo.

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Mobbing Lavorativo: La Prova dell’Intento Persecutorio è a Carico del Lavoratore

L’ordinanza in esame della Corte di Cassazione offre un’importante lezione sulla configurazione del mobbing lavorativo e sul rigoroso onere della prova che grava sul dipendente. Attraverso l’analisi di un caso concreto, i giudici di legittimità ribadiscono che una serie di eventi negativi sul posto di lavoro non è sufficiente a integrare una condotta di mobbing, se non viene dimostrato un elemento fondamentale: l’intento persecutorio unitario del datore di lavoro. Vediamo nel dettaglio la vicenda e i principi affermati dalla Corte.

I Fatti del Caso: Fusione Bancaria e Pretese del Dipendente

Un lavoratore, dipendente di un istituto di credito, si rivolgeva al tribunale a seguito di una fusione per incorporazione della sua banca di provenienza in un gruppo bancario più grande. Le sue richieste erano molteplici: contestava il nuovo e, a suo dire, errato inquadramento contrattuale; chiedeva il pagamento di indennità e spese di viaggio per un trasferimento; infine, denunciava una serie di comportamenti datoriali che, nel loro insieme, avrebbero costituito mobbing lavorativo, finalizzato a danneggiare la sua carriera.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano respinto le sue domande. In particolare, i giudici di merito avevano escluso che vi fosse stata una reale differenza economica nel trattamento a seguito del nuovo inquadramento, che sussistessero le condizioni per il rimborso delle spese (poiché non vi era stato un effettivo cambio di residenza della famiglia) e, soprattutto, che le condotte lamentate (tra cui un rimprovero scritto e un trasferimento) potessero essere qualificate come mobbing.

La Decisione della Cassazione e il Concetto di Mobbing Lavorativo

Il lavoratore proponeva quindi ricorso in Cassazione, ma la Suprema Corte ha confermato la decisione dei giudici di merito, rigettando il ricorso e condannando il dipendente al pagamento delle spese processuali. Le motivazioni della Corte sono cruciali per comprendere i confini giuridici del mobbing.

L’Onere della Prova nel Mobbing

Il punto centrale della decisione riguarda la prova del mobbing lavorativo. La Cassazione, richiamando suoi precedenti orientamenti, ha specificato che l’elemento qualificante di tale fattispecie non risiede tanto nell’illegittimità dei singoli atti datoriali, quanto nell'”intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli“.

In altre parole, il lavoratore che si ritiene vittima di mobbing ha l’onere di provare che le azioni subite non sono episodi isolati o frutto di normali dinamiche aziendali, ma tasselli di un unico disegno vessatorio mirato a danneggiarlo. La legittimità dei singoli provvedimenti (come un trasferimento o una sanzione disciplinare) può addirittura diventare un indizio dell’assenza di un intento persecutorio, se non emergono altri elementi probatori di segno contrario.

Altri Motivi di Ricorso: Inquadramento e Spese di Trasferimento

La Corte ha ritenuto inammissibili o infondati anche gli altri motivi di ricorso.

1. Inquadramento Contrattuale: La richiesta è stata giudicata troppo generica. Il lavoratore non aveva specificato quale sarebbe dovuto essere il corretto livello di inquadramento né aveva chiarito l’interesse concreto alla richiesta, slegandola da una pretesa retributiva e inquadrandola solo come parte della condotta mobbizzante.
2. Spese di Trasferimento: La richiesta di rimborso è stata negata perché il contratto collettivo subordinava tale diritto all'”effettivo cambio di residenza“. Poiché il lavoratore era stato nuovamente trasferito prima che la sua famiglia si spostasse, la condizione non si era mai realizzata.
3. Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU): La Corte ha ribadito che la CTU non è un mezzo di prova, ma uno strumento di valutazione a disposizione del giudice. La sua ammissione è discrezionale e può essere negata se la parte che la richiede non ha prima allegato e provato adeguatamente i fatti su cui si dovrebbe basare la perizia.

le motivazioni

La Corte di Cassazione fonda la propria decisione su principi consolidati. In primis, viene ribadito il carattere rigoroso dell’onere probatorio in materia di mobbing. Il lavoratore non può limitarsi a elencare una serie di eventi sfavorevoli, ma deve dimostrare l’esistenza di un elemento soggettivo da parte del datore di lavoro: la volontà di perseguitare e danneggiare. Questo intento deve unificare condotte che, prese singolarmente, potrebbero anche apparire legittime. La decisione di merito, che aveva escluso tale intento, è stata ritenuta una valutazione di fatto, come tale non sindacabile in sede di legittimità.
Per quanto riguarda la richiesta di un diverso inquadramento, la Corte ne ha sancito l’inammissibilità per genericità, applicando il principio secondo cui una domanda giudiziale deve essere specifica e dettagliata. Infine, sul diniego delle spese di trasferimento e della CTU, i giudici hanno sottolineato, da un lato, la necessità di una stretta interpretazione delle clausole contrattuali collettive e, dall’altro, la natura discrezionale del potere del giudice di merito nell’ammissione dei mezzi istruttori.

le conclusioni

La sentenza in commento rappresenta un monito per i lavoratori che intendono agire in giudizio per mobbing lavorativo. La via per il riconoscimento di un danno da mobbing è stretta e richiede una preparazione probatoria solida e puntuale. Non è sufficiente sentirsi vittima di ingiustizie, ma è necessario dimostrare, con elementi concreti, che dietro a una serie di atti datoriali si cela un disegno persecutorio unitario. La decisione evidenzia anche l’importanza di formulare le proprie domande in modo specifico e di fondarle su presupposti chiari e provati, pena l’inammissibilità o il rigetto delle stesse. Per le aziende, la sentenza conferma che l’adozione di provvedimenti organizzativi o disciplinari legittimi, se non animati da un fine vessatorio, non espone automaticamente al rischio di una condanna per mobbing.

Cosa deve provare un lavoratore per dimostrare di essere vittima di mobbing?
Secondo la sentenza, il lavoratore deve provare non solo una serie di comportamenti negativi, ma soprattutto un “intento persecutorio” unitario che li colleghi. La prova deve concentrarsi sull’elemento soggettivo del datore di lavoro, ossia la volontà di danneggiare il dipendente.

Un trasferimento e un rimprovero scritto costituiscono mobbing?
Non automaticamente. La Corte chiarisce che tali atti, se legittimi, non integrano di per sé il mobbing. Diventano rilevanti solo se si dimostra che fanno parte di un più ampio e deliberato disegno persecutorio nei confronti del lavoratore.

Il giudice è obbligato ad ammettere una consulenza tecnica d’ufficio (CTU) richiesta in una causa di lavoro?
No, la decisione di ammettere una CTU è un potere discrezionale del giudice di merito. La Corte ha ribadito che il giudice può negarla se ritiene che i fatti sui quali la consulenza dovrebbe basarsi non siano stati adeguatamente allegati e provati dalla parte che la richiede.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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