Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 13697 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 13697 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 22266-2023 proposto da:
NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME
Oggetto
LAVORO SUBORDINATO RETRIBUZIONE
R.G.N. 22266/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 03/04/2025
CC
NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME SBROGIÒ NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME nella qualità di erede di COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME tutti domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso RAGIONE_SOCIALE, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
nonchè contro
COGNOME nella qualità di erede di COGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME nella qualità di amministratore di sostegno di NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME nella qualità di eredi di COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME nella qualità di eredi di NOME COGNOME
– intimati –
avverso la sentenza n. 179/2023 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 22/05/2023 R.G.N. 100/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Venezia, in sede di rinvio, interpretando le clausole di cui agli artt. 48 del contratto collettivo aziendale del Casinò di Venezia Gioco s.p.a. vigente dal 1990 e 23 del contratto collettivo aziendale del 1999, ha accertato il diritto di credito, nella misura specificata nell’ultima colonna dell’elaborato del CTU incaricato (datata 11.7.2008), in favore dei lavoratori per i quali sussistevano differenze retributive sulla quota “Comunione Proventi Aleatori” (C.P.A.) e ha condannato il Casinò di Venezia Gioco spa a corrispondere la somma capitale data da tali differenza in loro favore.
Trattandosi di causa che perviene all’esame di questa Corte per la terza volta, vanno sinteticamente riassunti i passaggi giudiziari: con distinti ricorsi, successivamente riuniti, numerosi dipendenti o ex dipendenti della Casinò Municipale di Venezia Spa convennero la società innanzi al giudice del lavoro del Tribunale di Venezia per ottenere l’accertamento del diritto a percepire il trattamento economico minimo garantito sulla base di una clausola di contratto collettivo aziendale vigente a partire dal 1990, reiterata nei vari contratti succedutisi nel tempo; in riforma della pronuncia del Tribunale (che aveva accolto i ricorsi dei lavoratori), con sentenza n. 364/2010, la Corte di appello di Venezia ha ritenuto che il calcolo del minimo garantito dovesse avvenire tenendo presente la sola quota di incassi dovuta ai dipendenti (50%) e non gli incassi totali (condannando l’azienda
al pagamento delle minor somme dovute); a seguito di impugnazione dei lavoratori, questa Corte (con sentenza n. 21888/2016) accoglieva i ricorsi per quanto di ragione e cassava la sentenza con rinvio al giudice di merito per consentire un nuovo esame circa l’interpretazione della clausola in questione; riassunto il giudizio nei confronti di RAGIONE_SOCIALE (a seguito di cessione di ramo di azienda da parte di RAGIONE_SOCIALE), la Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 946/2017, ha dichiarato il diritto di credito, nella misura specificata nell’ultima colonna dell’elaborato del CTU incaricato (datata 11.7.2008), in favore dei lavoratori per i quali sussistevano differenze retributive sulla quota “RAGIONE_SOCIALE” (C.P.A.) e ha condannato il Casinò di Venezia Gioco s.p.a. e il Casinò Municipale di Venezia s.p.a. a corrispondere la somma capitale data da tali differenza in loro favore; in particolare, la sentenza n. 946/2017 ha rilevato – in ordine alla corretta lettura e portata applicativa delle clausole di cui agli artt. 48 del contratto collettivo aziendale vigente dal 1990 e 23 del contratto collettivo aziendale del 1999 – che (avendo riguardo ai rilievi della sentenza di cassazione rescindente), sebbene fosse stata usata l’espressione ” un minimo garantito…per ogni milione indiviso di mancia”, la garanzia del trattamento minimo non operava con riguardo al totale degli incassi, ma alla metà di essi, perché la clausola, letta nella sua interezza, teneva fermo il principio della ripartizione delle mance nella misura percentuale in atto e l’uso dell’avverbio “comunque” ben poteva limitarsi ad introdurre una deroga del tutto limitata al principio della divisione a metà; a seguito di nuova impugnazione dei lavoratori, questa Corte (con sentenza n. 26157/2020) ha accolto le censure avanzate in tema di prove e, in specie, con riguardo all’acquisizione del documento (n. 9)
prodotto dalla società nel giudizio di rinvio; la sentenza impugnata, adottata in sede di nuovo rinvio, richiamando proprie statuizioni (aventi il medesimo petitum) divenute definitive, ha, in sintesi statuito che la ratio della clausola del contratto aziendale era quella di assicurare i dipendenti addetti al settore Roulette dal rischio di una riduzione del monte mance pro capite dovuto sia all’aumento di organico determinato dall’apertura di una nuova casa da gioco sia alla diffusione di giochi che non co mportavano la riscossione di mance; che l’azienda aveva assunto l’obbligo di garantire la misura percentuale in atto al 31.12.1990, prendendo come parametro il valore di lire 2.790 pro quota per ogni milione indiviso di mancia (valore ottenuto dividendo lire 500.000, quale quota parte di mance destinata al personale, per 179 punti mancia del personale in organico a dicembre 1990, da cui risultava 2.790); ha precisato, quanto al dato letterale della clausola, che non sussiste alcun elemento testuale che non consenta di leggere la frase nel senso di assicurare un ‘minimo garantito’ ‘ pro quota per milione indiviso di mancia’ e perciò con il significato che il minimo debba essere nel concreto conteggiato con limitato riferimento alla quota dell’importo complessivo di spettanza dei dipendenti, interpretazione confermata dal comportamento delle parti ossia dalla dichiarazione del teste COGNOMEsindacalista sottoscrittore dell’accordo) e dalla condotta delle parti (Casinò e parte sindacale) successiva alla conclusione del contratto.
Avverso tale sentenza i lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. La società ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia, in relazione all’art. art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione dell’art. 384 c.p.c. e omessa considerazione dello schema logico enunciato dalla Corte di Cassazione rispetto al concetto di ‘milione indiviso’ e al criterio della ‘ratio’ della disposizione dell’accordo, non essendo ancora riusciti, i giudici di merito, ad illustrare un percorso logico che sorregga l’interpretazione della clausola del contratto aziendale in questione; in specie, il giudice di appello non spiega come possa attribuirsi all’espressione ‘ un minimo garantito…per milione indiviso di mancia’ il significato (patrocinato dalla società) di calcolare il minimo garantito con riferimento alla sola quota di incassi destinata ai dipendenti, ossia sul 50% degli incassi anziché sul 100% né illustra una ratio plausibile.
Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. e 132, secondo comma, c.p.c. nonché omesso esame di un fatto decisivo posto che, in realtà, entrambe le parti prendono a riferimento, per il calcolo delle mance dei lavoratori addetti alla Roulette, lo stesso parametro ossia un milione di mance, utilizzando poi il coefficiente di riferimento (lire 2.790) in rapporto all’organico del 1990 (pari a 179 lavoratori); ciò viene dimostrato sulla base dello sviluppo di diverse formule matematiche.
Con il terzo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, secondo comma, c.p.c. nonché omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, nn. 3 e 5, avendo, la Corte territoriale – nella misura in cui, ex art. 188 c.p.c., ha richiamato alcune statuizioni adottate sulle stesse questioni (già passate in
giudicato) – fornito una motivazione insufficiente in ordine al significato letterale e concreto di ‘ milione indiviso’; la Corte territoriale non ha indagato, ai fini dell’interpretazione della clausola contrattuale, la comune volontà delle parti, che era quella di garantire un minimo garantito ai croupier a fronte delle nuove assunzioni effettuate dalla società.
Il ricorso non merita accoglimento, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte che ha scrutinato le medesime questioni oggetto del presente ricorso (Cass. nn. 28128, 27759, 27419, 26158 del 2020) e alle cui ampie motivazioni si rinvia ex art. 118 disp.att.c.p.c.
Il ricorso concerne l’interpretazione della una clausola di contratto collettivo aziendale vigente a partire dal 1990, reiterata nei vari contratti succedutisi nel tempo, che recita: “Per tutta la durata del presente contratto le mance ai tavoli da gioco sono ripartite tra l’Azienda e il personale nella misura percentuale in atto e cioè: roulette, 30/40, craps e black jack: 50% all’Azienda e 50% al personale; comunque agli aventi diritto del reparto roulette sarà assicurato, da parte dell’Azienda, un minimo garantito di lire 2.790=pro-quota per ogni milione indiviso di mancia, secondo la ripartizione vigente al 31/12/1990, garantendo il rispetto dell’istituto previsto dall’Art. 3 del presente contratto; b) chemin de fer: 54% all’Azienda e 46% al personale”.
La Corte territoriale, espunto dal percorso logico-giuridico il riferimento al documento ritenuto inutilizzabile dalla sentenza rescindente di questa Corte, ha correttamente utilizzato i criteri legali di ermeneutica contrattuale per interpretare la clausola del contratto collettivo aziendale e con motivazione che non può ritenersi né implausibile né incongrua ha, in sintesi, rilevato -dato atto della natura ambigua ed equivoca della clausola in
oggetto – che, da una parte, il dato letterale della clausola negoziale (‘ milione indiviso di mance’) non impedisce di ricostruire il significato secondo cui il minimo garantito ai croupier sia da calcolare con riferimento alla quota di spettanza dei dipendenti (e non dell’intero incasso) e, dall’altra, che il comportamento dei contraenti (nella specie, la condotta del Casinò, la deposizione del teste COGNOME rappresentante sindacale sottos crittore dell’accordo, l’inerzia del sindacato anche dopo la segnalazione di errori di quantificazione da parte dei lavoratori) avalla questa interpretazione.
Il risultato interpretativo cui è pervenuto il giudice di appello è frutto della considerazione complessiva delle clausole contrattuali e dell’applicazione di criteri ulteriori rispetto a quello letterale, e si sottrae, pertanto, alle censure proposte dai ricorrenti, anche in considerazione dell’orientamento consolidato di questa Corte in materia di interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata che -a fronte di due o più interpretazioni possibili – esclude la mera contrapposizione dell ‘interpretazione disattesa dal giudice di merito (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19044 del 2010, Cass. n. 14432 del 2016).
Lo sviluppo concreto del significato attribuito alla clausola negoziale (in specie, lo sviluppo delle diverse formule matematiche) attiene al merito, insindacabile in questa sede di legittimità.
Non si ravvisano, pertanto, ragioni per discostarsi dai precedenti innanzi citati, atteso che, una volta che l’interpretazione della regula iuris è stata enunciata con l’intervento nomofilattico della Corte regolatrice, essa ‘ ha anche vocazione di stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta prospettiva di supporto al valore delle certezze del diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374 c.p.c.) e 2009 (art. 360
bis c.p.c., n. 1) ‘ (Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011); invero, la ricorrente affermazione nel senso della non vincolatività del precedente deve essere armonizzata con l’esigenza di garantire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale attraverso il ruolo svolto dalla Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014), atteso che, in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, il quale influisce positivamente anche sulla riduzione del contenzioso, vi è l’esigenza, avve rtita anche dalla dottrina, ‘ dell’osservanza dei precedenti e nell’ammettere mutamenti giurisprudenziali di orientamenti consolidati solo se giustificati da gravi ragioni ‘ (in termini: Cass. SS.UU. n. 11747 del 2019).
In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 20.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 3 aprile 2025.