Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 12974 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 12974 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 20831-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
R.G.N.20831/2019
COGNOME
Rep.
Ud.25/02/2025
CC
avverso la sentenza n. 571/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 07/01/2019 R.G.N. 789/2017; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
RAGIONE_SOCIALE aveva proposto dinanzi al Tribunale di Vercelli ricorso avverso un verbale di accertamento INPS con cui era stato contestato un debito contributivo conseguente al fatto che, con riferimento a periodi nei quali la prestazione lavorativa era stata svolta con orario ridotto rispetto a quello ordinario, la cooperativa aveva versato la contribuzione sulla retribuzione corrisposta e non su quella piena, come, invece, preteso dall’Istituto.
Il Tribunale aveva respinto la domanda e la Corte d’appello di Torino ha confermato la decisione con la sentenza n. 571/2018, che RAGIONE_SOCIALE impugna in questa sede, proponendo sei motivi di ricorso.
Resiste INPS con controricorso.
Chiamata la causa all’adunanza camerale del 25 febbraio 2025, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di giorni sessanta (art.380 bis 1, secondo comma, cod. proc. civ.).
CONSIDERATO CHE
La Cooperativa censura la sentenza sulla base di sei motivi.
I)Nullità della sentenza e/o del procedimento in relazione alla pronuncia di inammissibilità del primo motivo e del terzo motivo di appello, per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 414, 416, 420, 435, 437 cod. proc. civ., difetto assoluto di moti vazione, violazione degli artt. 111, comma 6, Cost., dell’art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp att cod. proc. civ. (art. 360, comma 1, n. 3 e 4 cod. proc. civ.)
II) violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 787, della legge n. 196/2006 e dell’art. 35 del d.P.R. n. 797/1955 (cd TUAF), dell’art. 2115 cod. civ., illegittima determinazione della base imponibile e di conseguenza della pretesa contributiva e sanzionatoria per aver omesso di considerare che dal marzo 2009 al dicembre 2009 vigeva il cd regime convenzionale di cui all’art. 35 TUAF, in forza dell’art. 1, comma 787, della legge n. 296/2006 a mente del quale le eccedenze di retribuzione, come le mensi lità aggiuntive, non rilevavano ai fini dell’imponibilità previdenziale che risultava ragguaglia a salari forfettari indicati con DM (art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.).
III) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 66/2003, illegittima determinazione della base imponibile e di conseguenza della pretesa contributiva e sanzionatoria per avere la Corte omesso di considerare che la ricorrente aveva legittimamente adottato un regime di orario cd multiperiodale in virtù dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 66/2003, applicando in concreto un sistema di flessibilità disciplinato dall’art. 52 del C.C.N.L. coop sociali (art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.).
IV) violazione e/o falsa applicazione dell’art.1, comma 2, lettera d), della legge n. 142/2001, dell’art. 29 del d.l n. 244/1995, convertito nella legge n. 341/1995, dell’art. 1 della legge n. 389/1989, dell’art. 4 Cost. Illegittima determinazione della
base imponibile e di conseguenza della pretesa contributiva e sanzionatoria per avere la Corte omesso di considerare l’approvazione ed adesione da parte dei soci lavoratori al regolamento della Cooperativa che conforma l’orario di lavoro alla concreta disponibilità che la stessa può offrire; errata sussunzione (art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.)
V) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., degli artt. 99, 115, 116, 416, 421 cod. proc. civ. specialmente con riguardo all’onere di allegare e provare e contestare specificamente ogni elemento contenuto nel verbale di accertamento da parte del ricorrente in prevenzione e nella fase precedente la costituzione processuale dell’INPS e alla conseguente declaratoria da parte di INPS delle allegazioni e delle prove offerte a fondamento della pretesa contributiva -Inversione dell’onere di all egare e provare (art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.)
VI) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 436 cod. proc. civ. specialmente con riguardo alla proposizione da parte dell’INPS di domanda di condanna al pagamento delle somme dovute a titolo di contributi desumibili dal verbale.
Il primo motivo è inammissibile in considerazione delle modalità con cui è stato proposto, che si scontrano con il principio di necessaria autosufficienza del ricorso.
Costituisce principio della Corte quello per cui il requisito imposto dall’art. 366, comma 1, nr. 6 cod.proc.civ., deve essere verificato anche in caso di denuncia, come nella specie, di errores in procedendo, perché l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti processuali è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del
potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass., sez.un. nr. 8077 del 2012). È pur vero che, secondo il più recente orientamento nomofilattico, l’autosufficienza del ricorso, corollario del requisito di specificità dei motivi, deve essere interpretato in maniera elastica (tra le altre Cass. nr. 11325 del 2023), in conformità all’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte -oggi recepita dal nuovo testo dell’art. 366, comma 1, nr. 6 cod.proc.civ., come novellato dal d.lgs. nr. 149 del 2022- e alla luce dei principi stabiliti nella sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (COGNOME RAGIONE_SOCIALE c. Italia), che lo ha ritenuto compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, a condizione che, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa (Cass. nr. 12481 del 2022).
Nella specie, però, il contenuto delle censure non consente in alcun modo al Collegio una chiara e completa cognizione dei fatti necessari ad apprezzare la decisività dei rilievi.
La ricorrente censura la parte motiva con cui la Corte ha giudicato inammissibili il primo e terzo motivo di appello (per come riportati in sentenza, il primo motivo lamentava che il Tribunale non avesse preso in considerazione il regime delle retribuzioni convenzionali, il terzo che non avesse tenuto conto che era stato adottato un regime di orario multiperiodale), perché le questioni prospettate comportavano la disamina e la valutazione di circostanze di fatto che non era state allegate nel ricorso di primo grado e contenevano censure relative a norme non invocate in primo grado.
Il motivo, pur deducendo l’erroneità della declaratoria di inammissibilità dell’appello, non ha trascritto né l’atto di appello né, neppure in stralcio, il ricorso di primo grado e la statuizione
sul punto del primo giudice, con la conseguenza che questa Corte non è posta in grado di valutare la fondatezza e la decisività delle censure, e ciò indipendentemente dal potere di procedere all’esame diretto degli atti del merito (Cass. n. 5293/2024, Cass. n. 22771/2023, Cass. n. 8907/2023; Cass. nr. 6643/2023, Cass. n. 34255/2022), così impedendo ogni effettiva verifica
Il secondo, il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente per l’intima connessione che li unisce, essendo finalizzati a contestare la pronunzia in punto determinazione della base imponibile della pretesa contributiva dell’Ente, e sono infondati alla luce dell ‘orientamento più volte espresso da questa Corte al quale si fa rinvio ex art. 118 disp. att. cod. proc. civ., condividendolo appieno.
Come ricordato in modo chiaro, ex multis , da Cass. 16260/2023, «secondo la giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi dopo Cass., sez. un., nr. 11199 del 2002, l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali, ai sensi del D.L. nr. 338 del 1989, art. 1 (conv. con legge nr. 389 del 1989), non può essere inferiore all’importo del c.d. «minimale contributivo», ossia all’importo di quella retribuzione che ai lavoratori di un determinato settore dovrebbe essere corrisposta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale. Tale regola è espressione del principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva, in virtù del quale l’obbligo contributivo ben può essere parametrato ad un importo superiore rispetto a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro e – com’è stato chiarito da Cass. nr. 15120 del 2019 – la sua operatività
concerne non soltanto l’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, ma altresì l’orario di lavoro da prendere a parametro, che dev’essere l’orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva (o dal contratto individuale, se superiore): è infatti evidente che, se ai lavoratori venissero retribuite meno ore di quelle previste dal normale orario di lavoro e la contribuzione dovuta venisse modulata su tale minore retribuzione, non vi potrebbe essere rispetto del minimale contributivo nei termini dianzi ricordati e ne verrebbe vulnerata la stessa idoneità del prelievo a soddisfare le esigenze previdenziali e assistenziali per le quali è stato istituito (v. in tal senso già Corte Cost. n. 342 del 1992)». Pertanto, «non sussiste alcuna possibilità per i datori di lavoro di modulare l’obbligazione contributiva in funzione dell’orario o della stessa presenza al lavoro che abbiano concordato con i loro dipendenti: l’obbligazione relativa ai contributi deve piuttosto ritenersi affatto svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e semmai connotata da caratteri di predeterminabilità e oggettività, anche in funzione della possibilità di un controllo da parte dell’ente previdenziale, per modo che rimane dovuta nell’intero ammontare previsto dal contratto collettivo anche nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione della prestazione lavorativa che costituiscano il risultato di un accordo tra le parti derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo medesimo, quali malattia, maternità, infortunio, aspettativa, permessi, cassa integrazione (così, espressamente, Cass. nr. 4676 del 2021 e Cass. nr. 15120 del 2019, sulla scorta di quanto già affermato da Cass. nr. 13650 del 2019 che ha in tal senso superato il diverso principio affermato da Cass. nr. 24109 del 2018); 14. il cit. D.L. n. 338 del 1989, art. 1, infatti, nel
prevedere che la retribuzione da assumere quale base di calcolo dei contributi previdenziali non possa essere «inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quella prevista dal contratto collettivo», non si limita a ribadire quanto già desumibile dalla legge nr. 153 del 1969, art. 12, ossia che l’imponibile contributivo si determina sul «dovuto» e non su quanto «di fatto erogato», ma pone il diverso e ulteriore principio per cui la retribuzione «dovuta» in relazione al sinallagma del rapporto di lavoro risulta rilevante solo se è superiore ai minimi previsti dal contratto collettivo, mentre in caso contrario non rileva e vale la misura minima determinata dal contratto collettivo. Vale a dire che non ogni alterazione del sinallagma funzionale del rapporto di lavoro, per quanto possa incidere sull’an e sul quantum dell’obbligazione retributiva, è rilevante ai fini della commisurazione dell’obbligazione contributiva: quest’ultima segue infatti proprie regole, potendo risultare dovuta perfino in assenza di alcun obbligo retributivo a carico del datore di lavoro (così testualmente, Cass. nr. 4676 del 2021 che richiama, in proposito, Cass. nr. 4899 del 2017)».
Si aggiunga che, quanto alla censura che si appunta sulla pretesa natura consensuale delle riduzioni di orario, la Corte ha, altresì, motivato evidenziando che dalle prove documentali e testimoniali non era emersa la sussistenza di alcun accordo, diversamente da quanto preteso dalla cooperativa, e tale ratio non è stata attinta dalle censure.
Inammissibili sono, infine, il quinto ed il sesto motivo.
Il quinto motivo non si confronta con la decisione che, come sopra riportato, si fonda sulla inderogabilità del cd minimale contributivo, alla luce delle posizioni pacifiche di questa Corte. Posta tale motivazione, non appare pertinente il richiamo agli artt. 2697 cod. civ. e 115, 116 cod. proc. civ.
La violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è configurabile solo allorché il giudice apprezzi liberamente una prova legale, oppure si ritenga vincolato da una prova liberamente apprezzabile (Cass. n. 27301/2024, SU n. 11892/2016), situazioni queste non sussistenti nel caso in esame.
Non è stata denunciata una violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., nei termini rigorosi delineati dalla giurisprudenza di questa Corte, poichè la Corte d’appello non ha attinto elementi di riscontro da prove non introdotte dalle parti e assunte d’ufficio al di fuori dei casi che il codice di rito contempla.
Quanto alla violazione dell’art. 2697 cod. civ., può essere utilmente denunciata in sede di legittimità nella sola ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata in applicazione di detta norma, il che non si riscontra nella specie.
In relazione al sesto motivo, l’inammissibilità discende dal difetto di interesse in capo alla cooperativa, considerato che si duole che la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciare sull’appello incidentale dell’INPS (in punto condanna della ricorrente al pagamento delle somme dovute).
Conclusivamente, il ricorso va rigettato, con condanna alle spese secondo soccombenza, come liquidate in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 4500,00 per compensi ed € 200,00 per esborsi, oltre 15% per rimborso spese generali e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 25 febbraio