Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 28776 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 28776 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 31/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18095/2022 R.G. proposto da :
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME
-ricorrente-
contro
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato presso l’avvocatura centrale dell’istituto, in INDIRIZZO INDIRIZZO, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME unitamente agli avvocati COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME
avverso SENTENZA CORTE D’APPELLO TRENTO n. 21/2022 pubblicata il 10/06/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/10/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Trent o ha accolto il gravame proposto dall’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE nella controversia con RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE (la Società).
La controversia, per la materia ancora viva in cassazione, ha per oggetto l’accertamento dell’insussistenza dell’obbligo di pagare i contributi previdenziali per mezzo del verbale unico di accertamento e notificazione notificato il 09/08/2017, relativo al periodo 01/01/2015-31/03/2017, ed in particolare della sussistenza della obbligazione contributiva anche nei periodi di sospensione del rapporto di lavoro senza diritto alla retribuzione, giusta l’art.23 del CCNL applicato dal datore di lavoro.
Il Tribunale accoglieva la domanda della Società, fatta eccezione per la posizione dei lavoratori NOME e NOME.
La Corte territoriale, in integrale riforma della sentenza appellata, ha ritenuto che non potessero ritenersi giustificate, ai sensi dell’art.23 del CCNL, le asserite sospensioni del rapporto di lavoro, e ha rigettato la domanda proposta dalla Società.
Per la cassazione della sentenza ricorre la Società, con ricorso affidato a quattro motivi ed illustrato da memoria, ai quali resiste RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE con controricorso.
Al termine della camera di consiglio il collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine previsto dall’art.380 bis.1 ultimo comma cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo (rubricato ex art.360 comma primo n.3 cod. proc. civ.) la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art.1 comma 1 del d.l. n.338/1989, convertito con modificazioni dalla legge n.389/1989, nonché degli artt.20 e 23 del CCNL Trasporti-logistica.
La ricorrente deduce che la Corte territoriale ha errato nel ritenere l’applicabilità del minimale contributivo anche nel caso di sospensione concordata del rapporto di lavoro, senza diritto alla retribuzione, ed ha inoltre errato nel non ritenere la sussistenza dei casi di sospensione concordata del rapporto di lavoro come previsti dagli artt.20 e 23 del CCNL Trasporti logistica.
3. Sul punto si intende dare continuità all’orientamento di questa Corte, nei termini di seguito riportati: «Come ricordato in modo chiaro, ex multis, da Cass. 16260/2023, «secondo la giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi dopo Cass., sez. un., nr. 11199 del 2002, l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali, ai sensi del D.L. nr. 338 del 1989, art.1 (conv. con legge nr. 389 del 1989), non può essere inferiore all’importo del c.d. «minimale contributivo», ossia all’importo di quella retribuzione che ai lavoratori di un determinato settore dovrebbe essere corrisposta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale. Tale regola è espressione del principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva, in virtù del quale l’obbligo contributivo ben può essere parametrato ad un importo superiore rispetto a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro e – com’è stato chiarito da Cass. nr. 15120 del 2019 – la sua operatività concerne non soltanto l’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, ma altresì l’orario di lavoro da prendere a parametro, che dev’essere l’orario di lavoro normale
stabilito dalla contrattazione collettiva (o dal contratto individuale, se superiore): è infatti evidente che, se ai lavoratori venissero retribuite meno ore di quelle previste dal normale orario di lavoro e la contribuzione dovuta venisse modulata su tale minore retribuzione, non vi potrebbe essere rispetto del minimale contributivo nei termini dianzi ricordati e ne verrebbe vulnerata la stessa idoneità del prelievo a soddisfare le esigenze previdenziali e assistenziali per le quali è stato istituito (v. in tal senso già Corte Cost. n. 342 del 1992)». Pertanto, «non sussiste alcuna possibilità per i datori di lavoro di modulare l’obbligazione contributiva in funzione dell’orario o della stessa presenza al lavoro che abbiano concordato con i loro dipendenti: l’obbligazione relativa ai contributi deve piuttosto ritenersi affatto svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e semmai connotata da caratteri di predeterminabilità e oggettività, anche in funzione della possibilità di un controllo da parte dell’ente previdenziale, per modo che rimane dovuta nell’intero ammontare previsto dal contratto collettivo anche nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione della prestazione lavorativa che costituiscano il risultato di un accordo tra le parti derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo medesimo, quali malattia, maternità, infortunio, aspettativa, permessi, cassa integrazione (così, espressamente, Cass. nr. 4676 del 2021 e Cass. nr. 15120 del 2019, sulla scorta di quanto già affermato da Cass. nr. 13650 del 2019 che ha in tal senso superato il diverso principio affermato da Cass. nr. 24109 del 2018); 14. il cit. D.L. n. 338 del 1989, art. 1, infatti, nel prevedere che la retribuzione da assumere quale base di calcolo dei contributi previdenziali non possa essere «inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo
superiore a quella prevista dal contratto collettivo», non si limita a ribadire quanto già desumibile dalla legge nr. 153 del 1969, art. 12, ossia che l’imponibile contributivo si determina sul «dovuto» e non su quanto «di fatto erogato», ma pone il diverso e ulteriore principio per cui la retribuzione «dovuta» in relazione al sinallagma del rapporto di lavoro risulta rilevante solo se è superiore ai minimi previsti dal contratto collettivo, mentre in caso contrario non rileva e vale la misura minima determinata dal contratto collettivo. Vale a dire che non ogni alterazione del sinallagma funzionale del rapporto di lavoro, per quanto possa incidere sull’an e sul quantum dell’obbligazione retributiva, è rilevante ai fini della commisurazione dell’obbligazione contributiva: quest’ultima segue infatti proprie regole, potendo risultare dovuta perfino in assenza di alcun obbligo retributivo a carico del datore di lavoro (così testualmente, Cass. nr. 4676 del 2021 che richiama, in proposito, Cass. nr. 4899 del 2017)» (cfr. Cass. 14/05/2025 n.12974).
4. La Corte territoriale ha fatto esatta applicazione di questo principio di diritto, e sulla base di questa premessa giuridica ha: a) ritenuto che incombesse sul datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza delle ipotesi di esenzione dall’assolvimento dell’obbligo contributivo, in conformità dei principi di diritto di questa Corte; b) ritenuto, con una motivazione puntuale e articolata, che non potessero ritenersi «’giustificate’ le sospensioni del rapporto di lavoro collegate all’assunta applicazione dell’art.23 del CCNL».
5. Il motivo di ricorso si sofferma sulla sola premessa giuridica del ragionamento della Corte territoriale, mentre nessuna censura specifica viene svolta con riferimento alla sussunzione dei fatti di causa (con esito negativo) nella disciplina delle assenze e della interruzione temporanea della prestazione lavorativa, come previste dagli artt.20 e 23 del CCNL. Alla puntuale ratio decidendi della Corte territoriale vengono contrapposte le dichiarazioni rese da due testimoni, con una inammissibile censura al ragionamento
probatorio del giudice di merito insindacabile in questa sede salvo che non siano travalicati i limiti stabiliti dall’art.116 comma primo cod. proc. civ. Il motivo è dunque complessivamente infondato.
Con il secondo motivo (rubricato ex art.360 comma primo n.4 cod. proc. civ.) la ricorrente lamenta «error in procedendo per aver la Corte d’appello di Trento basato la decisione su un documento non allegato agli atti del giudizio né in primo grado né in appello con conseguente nullità della sentenza impugnata».
Il motivo è inammissibile, siccome privo del requisito della decisività. L’accordo sindacale del 17/03/2017 viene citato in motivazione dalla corte territoriale quale «riscontro, decisivo» dell’uso distorto da parte del datore di lavoro della facoltà prevista dall’art.23 del CCNL. Giova però rilevare che la decisione della corte territoriale trova il proprio fondamento nell’apprezzamento delle prove documentali prodotte dalla Società, oltre che delle prove testimoniali, rispetto alle quali il verbale di accordo sindacale costituisce un mero «riscontro».
Con il terzo motivo (rubricato ex art.360 comma primo n.5 cod. proc. civ.) la ricorrente lamenta «error in procedendo per aver la Corte d’appello di Trento erroneamente ignorato che alcune delle assenze non retribuite erano state rinunciate dall’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE ed il verbale di accertamento non poteva essere integralmente confermato».
Il motivo è inammissibile, perchè i motivi del ricorso per cassazione devono investire questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti: in particolare, non possono riguardare nuove questioni di diritto se esse postulano indagini ed accertamenti in fatto non compiuti dal giudice del merito ed esorbitanti dai limiti funzionali del giudizio di legittimità (Cass. n. 16742 del 2005; Cass. n. 22154 del 2004; Cass. n. 2967 del 2001). Pertanto, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 6542 del 2004), qualora una
determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. Sez. II 24/01/2019 n.2038).
Nel caso in esame la parte ricorrente non ha svolto alcuna allegazione a tale proposito, né la proposizione della questione avanti alla corte territoriale risulta dalla motivazione della sentenza impugnata.
Con il quarto motivo (rubricato ex art.360 comma primo n.3 cod. proc. civ.) la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt.421, 115 e 116 cod. proc. civ.
12. La ricorrente deduce che la corte territoriale ha errato nel ritenere che il giudice di prime cure aveva fatto un utilizzo abnorme dei poteri istruttori, limitato a chiarimenti su circostanze di fatto tempestivamente allegate; e che pertanto ha errato nel non prendere in considerazione la documentazione tempestivamente prodotta dalla Società.
Giova rilevare che la corte territoriale ha ritenuto di non poter considerare la documentazione prodotta in giudizio dalla Società solo con riferimento a due delle cinque «macrocategorie» di sospensione della prestazione lavorativa, quelle relative ai «casi particolari» (macrocategorie nn.4 e 5), e ciò in ragione della sostituzione da parte del giudice di prime cure nell’attività riservata alla parte .
Ne consegue che con riferimento alla prime tre «macrocategorie» (quelle da 1 a 3) il motivo è privo di decisività,
perché con riferimento a quelle «macrocategorie» la corte ha proceduto alla valutazione complessiva delle prove documentali e testimoniali secondo il suo prudente apprezzamento.
15. Secondo il costante orientamento di questa Corte la violazione o falsa applicazione degli art. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione. La valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi (art. 244 cpc), come la scelta, tra le varie emergenze probatorie di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad una esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (da ultimo, Cass. 28/05/2024 n.14923).
16. Con riferimento alle «macrocategorie» nn. 4 e 5, si intende dare continuità all’orientame nto secondo il quale nel rito del lavoro, i poteri istruttori officiosi di cui all’art. 421 cod. proc. civ. – il cui esercizio è del tutto discrezionale e come tale sottratto al sindacato di legittimità -non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, così da porre il giudice in funzione sostitutiva degli oneri delle parti medesime e da tradurre i poteri officiosi anzidetti in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale (Cass. 28/05/2024 n.14923).
17. Facendo applicazione dei principi di diritto appena richiamati, ne consegue che: a) con riferimento alle «macrocategorie» da 1 a 3 la
Corte territoriale ha proceduto alla valutazione delle prove senza travalicare i limiti stabiliti dagli artt.115 e 116 cod. proc. civ., e dunque con accertamento di fatto in questa sede non sindacabile; b) con riferimento alle «macrocategorie» 4 e 5 la corte territoriale ha correttamente escluso la documentazione «integrativa» prodotta dalla Società dai mezzi di prova idonei a fondare il suo convincimento ex art.115 comma primo cod. proc. civ..
Per questi motivi il ricorso deve essere rigettato.
Ai sensi dell’art.91 cod. proc. civ. il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 5.000,00 per compensi oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 09/10/2025.
Il Presidente NOME COGNOME