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Maxi-sanzione: la Cassazione applica la norma penale

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, interviene sul tema della maxi-sanzione per lavoro sommerso. Il caso riguarda un’azienda sanzionata per aver mascherato un rapporto di lavoro subordinato con contratti di collaborazione. La Corte ha stabilito che la maxi-sanzione, pur essendo formalmente amministrativa, ha una natura sostanzialmente penale. Di conseguenza, deve essere applicato il principio di retroattività della norma più favorevole (lex mitior), annullando la decisione della Corte d’Appello che aveva negato tale applicazione e rinviando per una nuova valutazione alla luce di una normativa successiva più mite.

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Pubblicato il 29 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Maxi-sanzione: la Cassazione applica la retroattività della norma più favorevole

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato il tema della maxi-sanzione per lavoro sommerso, stabilendo un principio fondamentale: se la sanzione ha natura sostanzialmente penale, si applica la legge successiva più favorevole, anche se la violazione è avvenuta prima della sua entrata in vigore. Questa decisione chiarisce l’ambito di applicazione delle garanzie di derivazione penalistica alle sanzioni amministrative punitive.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine da un’ordinanza-ingiunzione emessa dalla Direzione Territoriale del Lavoro, che imponeva a una società e al suo legale rappresentante il pagamento di una cospicua sanzione. La contestazione riguardava un rapporto di lavoro con un venditore, ritenuto di natura subordinata nonostante fosse stato formalizzato attraverso sette contratti di collaborazione coordinata e continuativa (mini.co.co.) di durata mensile. Il rapporto si era svolto tra novembre 2014 e maggio 2015.

I datori di lavoro si sono opposti alla sanzione, ma sia il Tribunale che la Corte di Appello hanno confermato la natura subordinata del rapporto e la legittimità della sanzione, pur riducendone l’importo in primo grado. I giudici di merito hanno ritenuto che le modalità di svolgimento della prestazione (orario, compenso, presenze, ordini e direttive) fossero inequivocabilmente quelle di un lavoratore dipendente e che la stipula di contratti di collaborazione fosse una condotta dolosa volta a dissimulare la vera natura del rapporto.

La questione della maxi-sanzione in Appello

In appello, la società aveva contestato la decisione, sostenendo, tra le altre cose, che dovesse essere applicata una normativa successiva più favorevole, introdotta dal D.Lgs. n. 151/2015, entrato in vigore il 24 settembre 2015. La Corte territoriale, tuttavia, aveva respinto questa argomentazione, affermando che il principio della retroattività della norma più favorevole non si applica agli illeciti amministrativi, ma solo a quelli penali. Di conseguenza, ha confermato la sanzione basata sulla legge in vigore al momento della violazione.

L’analisi della Cassazione sulla maxi-sanzione e la natura penale

La società ha quindi presentato ricorso in Cassazione, affidandosi a cinque motivi. I primi quattro, relativi a presunti vizi procedurali e a una errata valutazione della condotta dolosa, sono stati rigettati dalla Suprema Corte perché miravano a una inammissibile rivalutazione dei fatti di merito.

Il quinto motivo, invece, è stato accolto. Questo motivo censurava la decisione della Corte d’Appello per non aver valutato la natura sostanzialmente penale della maxi-sanzione prevista dall’art. 3 del D.L. n. 12/2002. Secondo i ricorrenti, se la sanzione avesse tale natura, dovrebbe applicarsi il principio della retroattività della norma più favorevole (lex mitior), sancito anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha sposato pienamente questa tesi. Richiamando precedenti giurisprudenziali (tra cui Cass. n. 13071/2024), ha ribadito che per stabilire se una sanzione formalmente amministrativa debba essere considerata ‘penale’ ai fini delle garanzie convenzionali, occorre valutare tre criteri (i cosiddetti ‘criteri Engel’, dalla storica sentenza della Corte EDU):

1. La qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale.
2. La natura stessa dell’illecito.
3. La natura e il grado di severità della sanzione.

La Corte ha specificato che la maxi-sanzione per lavoro sommerso ha una natura ‘elevatamente afflittiva’ e una finalità punitiva, non meramente risarcitoria. Pertanto, essa rientra a pieno titolo nell’ambito della ‘materia penale’ secondo l’interpretazione della CEDU e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Di conseguenza, la Corte d’Appello ha errato nel non applicare il principio di retroattività della legge più favorevole, rappresentata in questo caso dal D.Lgs. n. 151/2015, che aveva modificato il regime sanzionatorio.

Le Conclusioni

In conclusione, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata limitatamente al motivo accolto. La causa è stata rinviata alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, che dovrà riesaminare il caso. Il nuovo giudice dovrà determinare l’importo della sanzione applicando la normativa più favorevole sopravvenuta, tenendo conto dei principi di diritto affermati dalla Cassazione. Questa ordinanza rappresenta un importante precedente che rafforza le garanzie del soggetto sanzionato, estendendo i principi del diritto penale a sanzioni amministrative particolarmente severe come la maxi-sanzione.

Qual è la natura della ‘maxi-sanzione’ per lavoro nero secondo la Cassazione?
Secondo la Corte di Cassazione, la maxi-sanzione, pur essendo formalmente una sanzione amministrativa, ha una natura sostanzialmente penale. Questo è dovuto alla sua elevata afflittività e alla sua finalità punitiva, che la fanno rientrare nella ‘materia penale’ ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

A una sanzione amministrativa si può applicare una legge successiva più favorevole?
Sì, ma solo se la sanzione amministrativa ha una natura sostanzialmente penale. In questo caso, come stabilito dalla Corte, si applica il principio di retroattività della norma più favorevole (lex mitior), che consente di applicare una legge entrata in vigore dopo la commissione del fatto, se questa prevede un trattamento sanzionatorio più mite per il trasgressore.

Perché la Cassazione ha rigettato i primi quattro motivi di ricorso?
I primi quattro motivi sono stati rigettati perché considerati inammissibili. La Corte ha ritenuto che tali motivi non denunciassero reali violazioni di legge, ma tendessero a una rivalutazione delle prove e a una diversa ricostruzione dei fatti. Questo tipo di riesame del merito della vicenda non è consentito nel giudizio di legittimità, che si limita al controllo della corretta applicazione del diritto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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