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Mansioni superiori: onere della prova e compiti affini

Una lavoratrice con mansioni di sacrista ha citato in giudizio il suo datore di lavoro, un ente ecclesiastico, rivendicando l’inquadramento superiore per aver svolto compiti amministrativi e contabili. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando le decisioni dei gradi precedenti. L’ordinanza sottolinea che per ottenere il riconoscimento di mansioni superiori, il lavoratore ha l’onere di provare che tali compiti sono stati svolti in modo continuativo e prevalente, e non solo occasionale. Inoltre, i compiti meramente complementari alla figura professionale principale, come la registrazione delle offerte per una sacrista, non giustificano un avanzamento di livello.

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Pubblicato il 27 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Mansioni superiori: quando i compiti aggiuntivi non bastano

Nel mondo del lavoro, è frequente che un dipendente si trovi a svolgere compiti che vanno oltre la propria qualifica. Ma questo è sufficiente per rivendicare un inquadramento superiore e un adeguamento dello stipendio? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce sull’importanza dell’onere probatorio a carico del lavoratore e sulla distinzione tra mansioni superiori effettive e compiti meramente accessori. L’analisi di questa decisione offre spunti fondamentali per lavoratori e datori di lavoro.

I Fatti del Caso: una Lavoratrice contro un Ente Ecclesiastico

Una lavoratrice, assunta con la qualifica di sacrista presso un Ente Ecclesiastico, sosteneva di aver svolto per un lungo periodo, dal 2003 al 2012, anche mansioni di livello superiore, tipiche di un’addetta alla contabilità e segreteria. Sulla base di ciò, aveva richiesto in tribunale il riconoscimento del livello di inquadramento superiore, il pagamento delle relative differenze retributive e il risarcimento per un successivo demansionamento, avvenuto quando era tornata a svolgere esclusivamente le mansioni di sacrista.

La Decisione dei Giudici di Merito

Sia il Tribunale in primo grado sia la Corte d’Appello hanno respinto le richieste della lavoratrice. Secondo i giudici, le prove raccolte, in particolare le testimonianze, non erano sufficienti a dimostrare lo svolgimento continuativo e prevalente delle mansioni superiori rivendicate. Al contrario, era emerso che i compiti extra erano stati svolti solo in modo occasionale ed episodico. Inoltre, altre attività indicate dalla lavoratrice, come la registrazione delle offerte, sono state ritenute compatibili e complementari alla figura professionale di sacrista, non giustificando quindi un inquadramento superiore.

La Decisione della Corte di Cassazione sulle mansioni superiori

La lavoratrice ha impugnato la sentenza d’appello dinanzi alla Corte di Cassazione, ma anche i giudici di legittimità hanno confermato la decisione, rigettando il ricorso. L’ordinanza della Suprema Corte è particolarmente interessante perché ribadisce alcuni principi chiave in materia di mansioni superiori.

L’Onere della Prova è del Lavoratore

La Corte ha sottolineato che l’onere probatorio grava interamente sul lavoratore che afferma di aver svolto mansioni superiori. Non è sufficiente allegare genericamente di aver compiuto attività diverse; è necessario dimostrare con precisione, attraverso prove concrete e non contraddittorie, la natura, la continuità e la prevalenza di tali mansioni rispetto a quelle previste dal proprio inquadramento.

Compiti Complementari e mansioni superiori

Un punto cruciale della decisione riguarda la natura dei compiti aggiuntivi. La Cassazione ha stabilito che attività complementari e funzionalmente collegate alla mansione principale non costituiscono mansioni superiori. Nel caso specifico, l’attività di “registrazione delle offerte” è stata considerata una naturale estensione del compito di “incasso delle offerte”, pienamente rientrante nel profilo professionale della sacrista. Questo principio chiarisce che non ogni compito aggiuntivo determina automaticamente il diritto a un livello superiore.

L’Insussistenza del Demansionamento

Infine, la Corte ha respinto anche la doglianza relativa al presunto demansionamento. È emerso che era stata la stessa lavoratrice, in modo spontaneo e volontario, a ridurre i propri compiti, tornando a quelli originari. Perché si possa parlare di demansionamento, è necessario un atto unilaterale del datore di lavoro che esercita il proprio ius variandi in modo illegittimo. In assenza di tale atto, non vi è alcuna responsabilità risarcitoria a carico dell’azienda.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su una rigorosa applicazione dei principi processuali e sostanziali. In primo luogo, la Corte ha ribadito che la valutazione delle prove testimoniali è di competenza esclusiva dei giudici di merito e non può essere riesaminata in sede di legittimità, se non in caso di vizi logici o motivazionali gravi, che nel caso di specie non sussistevano. In secondo luogo, la decisione si basa sulla corretta interpretazione della declaratoria contrattuale, evidenziando come alcune attività, pur apparendo diverse, siano in realtà compatibili con il profilo professionale del lavoratore. La Corte ha inoltre evidenziato come una richiesta di consulenza tecnica contabile (CTU) non possa essere utilizzata a fini meramente “esplorativi” per sopperire alla carenza di prove sull’esistenza stessa del diritto rivendicato. La reiezione del ricorso si fonda su più rationes decidendi autonome, ciascuna sufficiente a sorreggere la decisione, come la mancanza di prova sulla continuità delle mansioni e la loro natura meramente complementare.

Le Conclusioni

Questa ordinanza della Cassazione rappresenta un importante monito per i lavoratori: chi intende rivendicare un inquadramento superiore deve prepararsi a un percorso probatorio rigoroso e dettagliato. Non basta affermare di aver fatto “di più”, ma bisogna dimostrare che questo “di più” è stato costante, prevalente e qualitativamente differente dai compiti contrattuali. Per i datori di lavoro, la sentenza conferma che l’assegnazione di compiti accessori o complementari, che non alterano la sostanza della posizione lavorativa, non comporta rischi automatici di rivendicazioni. La chiave di volta, ancora una volta, risiede nella chiarezza dei ruoli e nella solidità delle prove in caso di contenzioso.

Svolgere compiti occasionali e aggiuntivi dà automaticamente diritto a un inquadramento superiore?
No. Secondo la Corte di Cassazione, per ottenere il riconoscimento di mansioni superiori è necessario che queste siano svolte in modo continuativo e prevalente, non essendo sufficiente un loro espletamento solo occasionale o episodico.

Se un lavoratore svolge compiti che sembrano superiori ma sono collegati alla sua mansione principale, può chiedere le differenze retributive?
No. La sentenza chiarisce che i compiti meramente complementari alla figura professionale principale non costituiscono mansioni superiori. Nel caso di specie, la registrazione delle offerte è stata considerata un’attività connessa e compatibile con il ruolo di sacrista, che già prevedeva l’incasso delle stesse.

Se un lavoratore decide volontariamente di ridurre i propri compiti, può in seguito accusare il datore di lavoro di demansionamento?
No. Il demansionamento presuppone un atto unilaterale del datore di lavoro. Se è il lavoratore a ridurre spontaneamente e volontariamente i propri compiti, non è possibile configurare un illecito a carico dell’azienda, poiché manca l’atto datoriale di esercizio dello ius variandi.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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