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Mansioni superiori: la Cassazione sul compenso

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, si è pronunciata sul calcolo delle differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori nel pubblico impiego. È stato stabilito che in caso di assegnazione illegittima, cioè in assenza di un formale provvedimento, al lavoratore spetta la differenza tra il trattamento economico iniziale della qualifica superiore e quello percepito, come previsto dall’art. 52 del D.Lgs. 165/2001. Le più favorevoli disposizioni del contratto collettivo (CCNL) si applicano solo ai casi di assegnazione legittima e formale, escludendo una disparità di trattamento data la diversità delle situazioni.

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Pubblicato il 21 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Mansioni Superiori: Diritto al Compenso tra Legge e Contratto Collettivo

L’assegnazione di mansioni superiori a un dipendente pubblico è una questione complessa, che interseca il diritto a un’equa retribuzione con i rigidi vincoli della pubblica amministrazione. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito un’importante chiave di lettura sulla quantificazione del compenso dovuto al lavoratore in caso di assegnazione ‘di fatto’, ovvero senza un atto formale. Questo articolo analizza la decisione, spiegando la distinzione cruciale tra assegnazione legittima e illegittima e le relative conseguenze economiche per il dipendente.

Il Caso: Lavoratori Sanitari e l’Incarico di Fatto

Un gruppo di dipendenti di un’azienda sanitaria regionale si è rivolto al giudice lamentando di aver svolto per un lungo periodo mansioni riconducibili a una categoria contrattuale superiore a quella di appartenenza, senza però ricevere la retribuzione corrispondente. L’incarico non era stato conferito tramite un provvedimento formale, ma si era concretizzato in via di fatto. La Corte d’Appello, pur riconoscendo il diritto dei lavoratori alle differenze retributive, aveva limitato il calcolo sulla base dell’art. 52, comma 5, del D.Lgs. 165/2001. I lavoratori, ritenendo tale calcolo penalizzante, hanno proposto ricorso in Cassazione, sostenendo l’applicabilità della norma più favorevole prevista dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) di settore.

La Questione Giuridica sul Calcolo delle Mansioni Superiori

Il cuore della controversia risiedeva nello stabilire quale norma dovesse regolare il compenso per le mansioni superiori svolte di fatto. Da un lato, l’art. 52, comma 5, del D.Lgs. 165/2001 stabilisce che, al di fuori delle ipotesi legittime, l’assegnazione a mansioni superiori è nulla, ma al lavoratore spetta comunque “la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore”. Dall’altro, l’art. 28 del CCNL Sanità 1998-2001 prevedeva un meccanismo di calcolo potenzialmente più vantaggioso, ma legato alle ipotesi di conferimento formale e legittimo dell’incarico (ad esempio, per sostituire un collega assente o coprire un posto vacante).

le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dei lavoratori, confermando la decisione della Corte d’Appello. I giudici supremi hanno chiarito che esiste una distinzione fondamentale tra l’esercizio di mansioni superiori derivante da un provvedimento legittimo dell’amministrazione e quello che avviene ‘di fatto’, in assenza di tale atto. La disciplina del CCNL, invocata dai ricorrenti, si applica esclusivamente alla prima ipotesi, quella in cui l’amministrazione, seguendo procedure specifiche, conferisce formalmente l’incarico superiore. In questo scenario, il contratto collettivo integra la legge e definisce un trattamento economico specifico.
Al contrario, quando l’assegnazione è illegittima perché priva di un atto formale, la situazione non può essere regolata dalla contrattazione collettiva, ma ricade direttamente sotto l’ombrello dell’art. 52, comma 5, del D.Lgs. 165/2001. Questa norma, pur sancendo la nullità dell’assegnazione, protegge il lavoratore garantendogli il diritto a un compenso proporzionato alla qualità del lavoro svolto (in ossequio all’art. 36 della Costituzione). Tale compenso è quantificato nella differenza tra il trattamento economico percepito e quello iniziale previsto per la qualifica superiore. La Corte ha sottolineato che questa differenziazione non viola il principio di parità di trattamento, poiché le due situazioni (assegnazione formale e di fatto) non sono identiche e giustificano una disciplina diversa.

le conclusioni

La decisione della Cassazione ribadisce un principio cardine del pubblico impiego contrattualizzato: la forma è sostanza. La presenza o l’assenza di un provvedimento espresso di assegnazione a mansioni superiori determina il quadro normativo di riferimento per il calcolo della retribuzione. Se l’incarico è formalizzato secondo le regole, si applicano le disposizioni, anche più favorevoli, del CCNL. Se, invece, il lavoratore svolge di fatto compiti superiori senza un incarico formale, il suo diritto al compenso è garantito dalla legge (art. 52 D.Lgs. 165/2001), ma si limita alla differenza tra la retribuzione di base delle due categorie. Questa pronuncia serve da monito per le amministrazioni, che devono formalizzare correttamente gli incarichi, e chiarisce ai lavoratori i confini del loro diritto economico in queste specifiche circostanze.

Quale compenso spetta a un dipendente pubblico che svolge mansioni superiori senza un formale incarico?
Secondo la Corte, al lavoratore spetta la differenza tra il trattamento economico effettivamente percepito e il trattamento economico iniziale previsto per la superiore categoria, come stabilito dall’art. 52, comma 5, del D.Lgs. 165/2001.

Perché non si applica la norma più favorevole del CCNL in caso di assegnazione di fatto?
La disciplina del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) si applica solo alle ipotesi di assegnazione legittima, ovvero quando l’amministrazione conferisce formalmente l’incarico superiore tramite un provvedimento espresso e secondo le procedure stabilite. L’esercizio di fatto non rientra in questa casistica.

La differenza di trattamento economico tra assegnazione formale e di fatto viola il principio di parità di trattamento?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che le due situazioni sono diverse: una è legittima e prevista dalla contrattazione, l’altra è illegittima e regolata dalla legge. Questa diversità giustifica un trattamento economico differente, escludendo una violazione del principio di parità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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