Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20942 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 20942 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 23/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 1196-2023 proposto da:
NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE NAPOLI 3 SUD, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende; – controricorrente – avverso la sentenza n. 2886/2022 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 30/06/2022 R.G.N. 3138/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/02/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Oggetto
RETRIBUZIONE PUBBLICO IMPIEGO
R.G.N.1196/2023
COGNOME
Rep.
Ud.18/02/2025
CC
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Torre Annunziata rigettava la domanda dell’avvocato NOME COGNOME formalmente inquadrata quale collaboratore amministrativo-professione espertocategoria DS, volta al riconoscimento delle differenze retributive per lo svolgimento, in via esclusiva, di mansioni di avvocato inizialmente della Asl NA 5 di Castellammare di Stabia e poi dell’Asl Napoli 3 Sud, dapprima sulla scorta di appositi atti deliberativi di conferimento dell’incarico e procura alle liti e poi in virtù di apposita procura speciale generale.
La sentenza veniva gravata dall’odierna ricorrente con tre motivi di appello.
La Corte di Appello di Napoli rigettava il gravame, confermando la sentenza di primo grado con condanna dell’appellante alle spese di giudizio.
2.1 In primo luogo, la Corte distrettuale riteneva che il giudice di primo grado avesse correttamente escluso il riconoscimento degli emolumenti richiesti non essendo emersa prova circa lo svolgimento di mansioni riconducibili nell’alveo della dirigenza superiori rispetto al livello di inquadramento formale. Tali conclusioni erano da ritenersi corrette considerato che l’appellante nel chiedere la condanna dell’amministrazione alle differenze retributive aveva richiamato espressamente la normativa sulla dirigenza pubblica e, in particolare, l’articolo 23 della legge 247/2012 e l’articolo 27 C.C.N.L. 8 giugno 2000 della Dirigenza Professionale Tecnica ed Amministrativa.
2.2 In secondo luogo, ad avviso della Corte territoriale, nessuno specifico elemento, a parte quello relativo allo svolgimento delle mansioni di avvocato e ad un rapido riferimento alla istituzione di un’autonoma funzione centrale per gli affari legali retta da un dirigente, era stato addotto, cosicché non era
possibile in alcun modo accertare l’organizzazione data dall’azienda all’ufficio legale, di valutare se fossero state istituite una o più posizioni dirigenziali e di dirigente avvocato destinatario di un incarico di tipo professionale e se la COGNOME fosse stata o meno chiamata a ricoprire una di dette posizioni vacanti interagendo con il dirigente responsabile della struttura nei termini di cui all’articolo 15 del D.lgs. n. 502/1992 che prevede l’affidamento di ‘compiti professionali con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura’, nonché ‘funzioni di collaborazione e di corresponsabilità nella gestione delle attività’. Sono proprio questi elementi, non sussistenti nel caso di specie, e che implicano l’esercizio di fatto di mansioni superiori rispetto a quelle del collaboratore amministrativo professionale che pur potendo essere assegnato al settore legale si limita a curare ‘attività comportanti un’autonoma elaborazione di atti preliminari ed istruttori dei provvedimenti di competenza dell’unità operativa in cui è inserito’ e ‘collabora con i dirigenti nell’attività di studio e di programmazione’.
2.3 Infine, la Corte territoriale ha rilevato che la mancata conduzione di una struttura conduce ad escludere lo svolgimento di mansioni superiori.
2.4 Avverso la sentenza di appello l’avvocato COGNOME propone ricorso per cassazione assistito da tre motivi cui resiste con controricorso l’amministrazione.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si eccepisce la violazione del CCNL Comparto Sanità Integrativo del 7/4/1999- violazione del R.D.L. n.1578/1933 convertito in legge 36/1934 e della legge 247/2012-violazione del CCNL Dirigenza Sanitaria del
5/12/96 e del CCNL 8/6/2000- violazione dell’art 52 decreto legislativo n. 165/2001violazione dell’articolo 36 Costituzione e 2126 c.c.violazione articolo 113 c.p.c. in relazione all’articolo 360, comma 1 n. 3, c.p.c. violazione dell’articolo 112 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c..
La Corte di appello avrebbe erroneamente inquadrato l’oggetto della domanda con la quale l’odierna ricorrente ha rivendicato il riconoscimento delle differenze retributive per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori di avvocato. Non ha mai chiesto l’accertamento di mansioni dirigenziali, su cui la Corte di appello ha ritenuto di doversi pronunciare rigettando la domanda di differenze retributive.
Ad avviso della ricorrente la disciplina applicabile è quella di cui all’articolo 52 del decreto legislativo n. 165/2001 in relazione anche ai compiti propri di profilo professionale di avvocato come individuati dalla contrattazione collettiva di settore e dalla normativa speciale regolante le mansioni dell’avvocato iscritto all’albo speciale dei dipendenti da amministrazioni pubbliche.
Pertanto, la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto che il diritto alle differenze retributive per il dipendente che svolga mansioni e compiti di avvocato sorga solo se accompagnati dall’esercizio di mansioni e compiti dirigenziali.
In altri termini, lo svolgimento delle mansioni di avvocato di per sé è autonomamente valutabile ai fini del riconoscimento di mansioni superiori rispetto alla categoria DS. In particolare, il CCNL 08/06/2000 include l’avvocato, giusta anche la previsione dell’art. 1, comma 2 del precedente accordo del 05/12/1996 tra i dipendenti con funzioni giurisdizionali rinviando quanto ai contenuti delle specifiche attività alla legge professionale.
Pertanto, il pacifico svolgimento da parte della COGNOME delle funzioni di avvocato avrebbe dovuto comportare,
conseguentemente, il riconoscimento di funzioni dirigenziali e, quindi, dello svolgimento di mansioni superiori rispetto all’inquadramento posseduto. In altri termini, una volta accertato che la ricorrente ha svolto mansioni di avvocato ne conseguirebbe automaticamente il riconoscimento dell’esercizio svolgimento di mansioni superiori all’inquadramento nella categoria DS.
Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Violazione artt. 112 e 116 c.p.c. Violazione dell’art. 52 decreto legislativo n. 165/2001 in relazione all’art 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
La Corte distrettuale avrebbe errato nel ritenere non sussistente un ambito di autonomia nello svolgimento delle mansioni di avvocato, tale da far ritenere l’insussistenza di funzioni dirigenziali.
Ad avviso della ricorrente, il conferimento degli incarichi professionali congiunto e disgiunto non poteva che essere qualificato come incarico di alta responsabilità in quanto l’avvocato dell’ente, in quanto tale, rappresenta l’ente a tutti gli effetti senza che ciò possa essere inficiato dalla sottoscrizione di un atto anche da parte di un altro dipendente avvocato. L’assunzione di responsabilità è rilevante all’esterno dal momento in cui si ha la procura per la costituzione in giudizio congiunta e disgiunta conferita direttamente dal direttore generale con singola delibera di conferimento con atto notarile di conferimento generale alle liti agli atti del giudizio di primo e secondo grado alla stregua di tutti gli altri avvocati del servizio legale.
Con il terzo ed ultimo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c. per non aver la Corte di merito compensato almeno parzialmente le spese di lite, in considerazione di un contrasto giurisprudenziale in materia.
Il primo motivo di censura è inammissibile per non essersi la ricorrente confrontata, per impugnarla specificamente, con la ratio decidendi della sentenza impugnata.
Al riguardo, il ricorso per cassazione deve contenere, invero, a pena di inammissibilità, l’esposizione dei motivi per i quali si richiede la cassazione della sentenza impugnata, aventi i requisiti della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (Cass., 25/02/2004, n. 3741; Cass., 23/03/2005, n. 6219; Cass., 17/07/2007, n. 15952; Cass., 19/08/2009, n. 18421; Cass. 24/02/2020, n. 4905). In particolare, è necessario che venga contestata specificamente, a pena di inammissibilità, la «ratio decidendi» posta a fondamento della pronuncia oggetto di impugnazione (Cass., 10/08/2017, n. 19989).
Il decisum, infatti, si fonda essenzialmente sull’assunto che lo svolgimento di funzioni quale avvocato dipendente dell’ente non comporta in via automatica il riconoscimento delle funzioni di avvocato dirigente al fine di ottenere il pagamento delle differ enze retributive previste dal CCNL ‘Dirigenza sanitaria, professionale, tecnica ed amministrativa del SSN’, considerato che, ad avviso della Corte napoletana, il compito di avvocato può essere svolto anche da un dipendente con qualifica di collaboratore professionale esperto rientrante nella categoria DS, quale l’odierna ricorrente. In altri termini, la ratio decidendi della pronuncia non esclude lo svolgimento delle funzioni di avvocato, ma di quelle di avvocato dirigente che si ritiene che pacificamente la COGNOME non abbia svolto.
Al riguardo, la censura non aggredisce tale ratio eludendo il confronto con tale profilo motivatorio.
Inoltre, la censura non si confronta specificamente con l’iter motivazionale della Corte distrettuale, nella misura in cui ha affermato la carente deduzione di elementi idonei a provare lo svolgimento delle mansioni superiori rivendicate, a parte quelli relativi allo svolgimento delle mansioni di avvocato e ad un rapido riferimento alla istituzione di un’autonoma funzione centrale per gli affari legali retta da un dirigente, con conseguente impossibilità di accertare l’organizzazione data dall’azienda all’ufficio legale al fine di valutare se fossero state istituite una o più posizioni dirigenziali e di dirigente avvocato destinatario di un incarico di tipo professionale e se la COGNOME fosse stata o meno chiamata a ricoprire una di dette posizioni vacanti interagendo con il dirigente responsabile della struttura nei termini di cui all’articolo 15 del D.lgs. n. 502/1992. La norma prevede specifici elementi quali l’affidamento di ‘compiti professionali con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura’, nonché ‘funzioni di collaborazione e di corresponsabil ità nella gestione delle attività’ che la Corte ha ritenuto non sussistenti nel caso di specie, ai fini del riconoscimento dell’esercizio di fatto di mansioni superiori rispetto a quelle del collaboratore amministrativo professionale che, pur potendo essere assegnato al settore legale, si limita a curare ‘attività comportanti un’autonoma elaborazione di atti preliminari ed istruttori dei provvedimenti di competenza dell’unità operativa in cui è inserito’ e ‘collabora con i dirigenti nell’attività di studio e di programmazione’.
Anche il secondo motivo è inammissibile.
Come detto, ad avviso della ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe errato nel ritenere non sussistente un ambito di autonomia nello svolgimento delle mansioni di avvocato, tale da far ritenere l’insussistenza di funzioni dirigenziali.
La censura è per un verso inammissibile per le ragioni esposte con riferimento al primo motivo di ricorso e peraltro è finalizzata a richiedere a questa Corte un inammissibile riesame del merito e delle prove assunte al fine di dimostrare lo svolgimento di funzioni dirigenziali.
Infine, va dichiarato inammissibile pure il terzo motivo avente ad oggetto la regolamentazione delle spese di lite considerato che si rammenta che per consolidata giurisprudenza di questa Corte, in linea generale, in tema di responsabilità delle parti per le spese di giudizio (Capo IV del Titolo III del Libro Primo del codice di rito), la denuncia di violazione della norma di cui all’art. 91, comma 1, c.p.c., in questa sede di legittimità trova ingresso solo quando le spese siano poste a carico della parte integralmente vittoriosa (ex multis: Cass. n. 18128 del 2020 e Cass. n. 26912 del 2020) e che la compensazione delle spese processuali, di cui all’art. 92 c.p.c., costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito (v., per tutte, Cass. SS. UU. n. 20598 del 2008), che nella specie risulta correttamente esercitato considerando l’esito complessivo dei due gradi del merito del giudizio.
Sul punto la ricorrente si limita a fare riferimento ad un asserito contrasto giurisprudenziale in materia senza indicare con puntualità elementi decisivi al riguardo e senza considerare che i suindicati principi sono del tutto consolidati nella giurisprudenza.
In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite secondo il principio della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna la ricorrente al rimborso di € 4.000,00, a titolo di compensi, oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione