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Manifesta insussistenza del fatto e licenziamento

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6385/2024, ha rigettato il ricorso di una società contro la reintegrazione di una lavoratrice. Il licenziamento, motivato da una presunta riorganizzazione aziendale, è stato giudicato illegittimo per manifesta insussistenza del fatto, poiché l’azienda non ha provato il nesso causale tra la riorganizzazione e la soppressione della specifica posizione lavorativa. La Corte ha confermato la tutela reintegratoria e ha chiarito i criteri per il calcolo dell’indennità risarcitoria, ribadendo che l’onere della prova spetta interamente al datore di lavoro.

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Pubblicato il 5 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento nullo per manifesta insussistenza del fatto: la Cassazione conferma la reintegra

Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, offrendo chiarimenti cruciali sul concetto di manifesta insussistenza del fatto e sulle conseguenze in termini di tutela per il lavoratore. La decisione ribadisce che non basta addurre una generica riorganizzazione aziendale per giustificare un licenziamento, ma è necessario dimostrare un nesso causale diretto e specifico con la soppressione della posizione lavorativa. Vediamo nel dettaglio la vicenda e i principi affermati dalla Suprema Corte.

I fatti di causa

Una lavoratrice, impiegata presso uno stabilimento di un’azienda energetica, veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo. La società motivava il recesso sulla base di una complessa riorganizzazione che prevedeva l’esternalizzazione di alcune attività, la cessazione di altre e la conseguente soppressione del posto di lavoro della dipendente. Secondo l’azienda, la sua posizione era diventata superflua a seguito di tali cambiamenti.

La decisione della Corte d’Appello

La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, annullava il licenziamento e ordinava la reintegrazione della lavoratrice nel suo posto di lavoro. I giudici di merito hanno ritenuto che la società non avesse fornito la prova necessaria a sostenere la legittimità del recesso. In particolare, non era stato dimostrato il collegamento diretto tra la presunta riorganizzazione (l’esternalizzazione delle attività di trasporto e imbottigliamento) e la specifica soppressione delle mansioni svolte dalla lavoratrice (addetta allo smistamento ordini e inserimento dati). L’assenza di questo nesso causale ha portato la Corte a qualificare la situazione come manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, applicando così la tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 18 della Legge n. 300/1970.

La questione della prova nel licenziamento per manifesta insussistenza del fatto

La decisione di secondo grado si è basata su un punto fondamentale: l’onere della prova in capo al datore di lavoro. Non è sufficiente enunciare un piano di ristrutturazione; è indispensabile dimostrare in giudizio che tale piano si sia concretamente tradotto nella soppressione effettiva di una specifica funzione aziendale, rendendo non più utilizzabile la prestazione del lavoratore licenziato.

Le motivazioni della Suprema Corte

La società ha impugnato la sentenza d’appello dinanzi alla Corte di Cassazione, sollevando diversi motivi, tra cui la violazione del principio di non contestazione e l’errata applicazione della tutela reintegratoria. La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la decisione dei giudici di merito con importanti precisazioni.

Innanzitutto, la Corte ha chiarito che il principio di non contestazione (art. 115 e 416 c.p.c.) riguarda i fatti primari (es. l’avvenuto licenziamento), ma non si estende alle giustificazioni o alle difese legali. La giustificazione del recesso e il nesso causale sono elementi che il datore di lavoro deve allegare e provare pienamente, e che la lavoratrice ha ampiamente contestato. Pertanto, la mancata prova da parte dell’azienda non poteva essere superata invocando la presunta non contestazione.

Nel merito, la Cassazione ha confermato che la valutazione dei giudici di appello era corretta. L’assenza di prova sul nesso di causalità tra la riorganizzazione dichiarata e la soppressione del posto di lavoro integra pienamente la fattispecie della manifesta insussistenza del fatto. Questo vizio giustifica l’applicazione della sanzione più grave, ovvero la reintegrazione, così come previsto dall’art. 18, comma 7, della Legge 300/1970, alla luce anche delle recenti sentenze della Corte Costituzionale (n. 59/2021 e n. 125/2022) che hanno ampliato l’ambito di applicazione di tale tutela.

Infine, la Corte ha respinto anche i motivi relativi al calcolo dell’indennità risarcitoria. Sebbene la Corte d’Appello avesse fatto riferimento a criteri non del tutto pertinenti, il risultato finale (la condanna al pagamento di 12 mensilità) era corretto, poiché rappresenta il tetto massimo previsto dalla legge in questi casi. La richiesta della società di detrarre l’aliunde perceptum è stata giudicata inammissibile perché puramente esplorativa e non supportata da elementi concreti.

Le conclusioni

L’ordinanza in esame rafforza un principio cardine del diritto del lavoro: nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’onere della prova a carico del datore di lavoro è rigoroso. Non basta affermare l’esistenza di una riorganizzazione, ma occorre dimostrare con fatti concreti e verificabili che tale scelta imprenditoriale ha avuto come conseguenza diretta e inevitabile la soppressione di una specifica posizione lavorativa. In assenza di tale prova, il fatto posto a base del licenziamento è da considerarsi manifestamente insussistente, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria per il lavoratore.

Quando un licenziamento per motivo oggettivo è viziato da ‘manifesta insussistenza del fatto’?
Secondo la Corte, ciò avviene quando il datore di lavoro non riesce a provare il nesso di causalità tra la ragione economica o organizzativa addotta (es. una ristrutturazione) e la specifica soppressione del posto di lavoro. Se questo legame diretto manca, il fatto si considera palesemente inesistente.

Il principio di non contestazione si applica alle giustificazioni del licenziamento?
No. La Corte ha chiarito che il principio di non contestazione si applica ai fatti primari (costitutivi, modificativi o estintivi del diritto), ma non alle mere difese o alle giustificazioni addotte dal datore di lavoro, le quali devono essere sempre pienamente provate in giudizio se contestate dalla controparte.

Come si calcola l’indennità risarcitoria in caso di reintegrazione per manifesta insussistenza del fatto?
L’indennità risarcitoria è commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione. Da questa somma si deduce quanto eventualmente percepito dal lavoratore tramite altre occupazioni (aliunde perceptum). In ogni caso, l’importo totale non può superare le dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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