Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6385 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 6385 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 08/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 7515-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME COGNOME, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME AVV_NOTAIO, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
Licenziamento Rapporto privato
–
R.G.N. 7515/2020
COGNOME.
Rep.
Ud. 13/12/2023
CC
avverso la sentenza n. 4829/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/12/2019 R.G.N. 1630/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/12/2023 dal AVV_NOTAIO.
RILEVATO CHE
la Corte d’Appello di Roma ha annullato il licenziamento intimato a NOME COGNOME da RAGIONE_SOCIALE con comunicazione 7/8/2014, e ordinato alla società la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, con condanna al pagamento di indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e al versamento dei contributi dal licenziamento alla reintegrazione; ciò in parziale riforma di sentenza del Tribunale di Latina, che, in sede di opposizione alla decisione di rigetto delle domande della lavoratrice resa in esito alla fase sommaria nel rito di cui alla legge n. 92/2012, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento e condannato la società al pagamento in favore della lavoratrice di un’indennità pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
a fondamento della propria decisione, per quanto rileva in questa sede, la Corte distrettuale ha in particolare osservato: che la lavoratrice era dipendente RAGIONE_SOCIALE (poi incorporata in RAGIONE_SOCIALE) con mansioni di impiegata liv. B CCNL settore GPL presso lo stabilimento di Pontinia; che il 24.7.2014 aveva ricevuto comunicazione ex art. 7 legge n. 604/1966, nella quale si affermavano la ristrutturazione della società, l’esternalizzazione dell’attività di trasporto, la cessazione dell’attività di imbottigliamento presso lo stabilimento di Pontinia, l’esubero dei 3 impiegati ivi assegnati, con la scelta di trattenerne in servizio solo un altro con carico di famiglia più gravoso, l’impossibilità di
individuare altri posti nello stabilimento di Pontinia o negli altri della società al quale preporre la lavoratrice, stante in via generale la necessità della riduzione del personale anche presso gli altri siti lavorativi; che, atteso che la riorganizzazione aziendale riguardava mansioni diverse da quelle svolte dalla ricorrente (addetta allo smistamento degli ordini della clientela e all’inserimento dei dati contabili a terminale), la soppressione del posto della medesima non si poneva in rapporto di immediata conseguenza con la non dimostrata esternalizzazione delle attività di trasporto e imbottigliamento; che, appunto non risultando provata la dedotta esternalizzazione, il licenziamento non risultava giustificato dalla decisione di sopprimere un posto di lavoro per eliminazione di una funzione aziendale ritenuta non necessaria, in carenza di prova che la specifica posizione lavorativa fosse venuta del tutto meno con l’accorpamento del relativo ufficio a quello di pari funzionalità retto dalla consorella RAGIONE_SOCIALE in vista della fusione; che la ritenuta mancanza di nesso causale tra il progettato ridimensionamento e lo specifico provvedimento di recesso era riconducibile a manifesta insussistenza del fatto, che giustifica, ai sensi dell’art. 18, comma 7, legge n. 300/1970 come modificato dalla legge n. 92/2012, la tutela reintegratoria attenuata; che andava determinata l’indennità risarcitoria nella misura massima, in base all’anzianità di servizio e anagrafica della lavoratrice e alle dimensioni della società; che era stata tacitamente rinunciata nel grado l’eccezione della società relativa all’ aliunde perceptum ;
avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società, affidato a 5 motivi, illustrati da memoria; ha resistito con controricorso la lavoratrice; al termine della
camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
CONSIDERATO CHE
con il primo motivo, la società ricorrente deduce (art. 360, n.3, c.p.c.) violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 115, comma 1, e 416, comma 3, c.p.c. (art. 360, n. 3 c.p.c.), in relazione all’affermata irrilevanza del principio di non contestazione sui fatti posti a fondamento del recesso (soppressione del posto di lavoro per cessazione di alcune attività presso lo stabilimento di Pontinia);
con il secondo motivo, deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonché degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c., per mancata ammissione della richiesta prova testimoniale sui fatti posti a fondamento del recesso (ristrutturazione aziendale con esternalizzazione di alcune attività);
con il terzo motivo, formulato in via subordinata, deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 7, legge n. 300/1970, in relazione alla ritenuta manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso;
con il quarto motivo, formulato in via ulteriormente gradata, deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione o falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 5, legge n. 300/1970 relativamente all’applicazione dei parametri di cui al comma quinto, anziché del criterio di calcolo previsto dal comma quarto di tale disposizione;
con il quinto motivo, deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione o falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, legge n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, legge
92/2012, relativamente alla mancata deduzione dell’ aliunde perceptum e percipiendum ;
i primi due motivi, da trattare congiuntamente perché strettamente connessi, risultano inammissibili;
con essi la società assume l’effettività della soppressione del posto, come da essa decisa a attuata, ma sovrappone tale profilo a quelli della giustificazione della soppressione a fondare il licenziamento e del nesso causale con il recesso, circostanze ampiamente contestate e fondanti le difese della lavoratrice, incompatibili con l’accettazione degli effetti della decisione aziendale;
si tratta di elementi di valutazione che si rivelano esterni al perimetro di applicazione del principio di contestazione e che attengono all’ambito della selezione dei mezzi di prova e della valutazione delle risultanze probatorie, riservato al merito;
come noto, il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 416, comma 2, c.p.c., riguarda solo i fatti cd. primari, costitutivi, modificativi od estintivi del diritto azionato, e non si applica alle mere difese (Cass. n. 17966/2016); una volta operata la netta distinzione tra eccezioni e difese, la contestazione da parte del convenuto dei fatti già affermati o già negati nell’atto introduttivo del giudizio non ribalta sull’attore l’onere di “contestare l’altrui contestazione”, dal momento che egli ha già esposto la propria posizione a riguardo (Cass. n. 6183/2018); l’onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti e non le prove assunte, la cui valutazione opera in un momento successivo alla definizione dei fatti controversi ed è rimessa all’apprezzamento del giudice (Cass. n. 3126/2019);
è alla luce di tali principi che vanno lette le valutazioni della Corte di merito, in base alle quali è stato ritenuto indimostrato il nesso di causa tra la circostanza
dell’esternalizzazione di alcune attività e il recesso, basato su tale motivazione;
ne consegue l’inammissibilità dei motivi in esame che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, mirano, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. S.U. n. 34476/2019 e successive conformi), tenuto altresì conto della facoltà del giudice di merito di escludere, anche attraverso un giudizio implicito, la rilevanza di una prova, senza necessità di esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga non rilevante o di enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr., tra le molte conformi, Cass. n. 20553/2021);
il terzo motivo non è fondato;
dato atto che nella sentenza gravata si è dato conto, anche richiamando pertinenti precedenti di legittimità, delle ragioni per cui la concreta fattispecie di ritenuta mancanza di nesso causale tra il progettato ridimensionamento e lo specifico provvedimento di recesso è stata ricondotta nell’alveo della manifesta insussistenza del fatto, la questione risulta superata per effetto delle recenti sentenze della Corte Costituzionale direttamente incidenti sull’art. 18, comma 7, della legge n. 300/1970 (come novellato dalla legge n. 92/2012), che regola l’apparato sanzionatorio da applicare in caso di accertamento della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo; la sentenza n. 59 del 2021 ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma; la sentenza n. 125 del 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, limitatamente alla parola «manifesta» (cfr. Cass. n. 1299/2023);
14. neppure è meritevole di accoglimento il quarto motivo;
15. come chiarito in controversie analoghe (Cass. n. 32825, 32826, 32827/2022) a proposito di tale doglianza, occorre ricordare che, in base all’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, legge n. 92/2012, la determinazione dell’indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo dell’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, a titolo di aliunde perceptum o percipiendum , e, comunque, entro la misura massima corrispondente a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, senza che possa attribuirsi rilievo alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel corso del periodo di estromissione; se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all’importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l’indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo (Cass. n. 3824/2022, n. 12034/2022); una volta che il giudice di merito abbia rispettato i su visti criteri di calcolo e gli esiti che essi determinano (cosa nella specie avvenuta), la norma di cui al comma quarto dell’art. 18 prevede esclusivamente che: ” In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto “; nel caso che ci
occupa appare dalla pronuncia qui gravata che la reintegrazione nel posto di lavoro non sia avvenuta nel corso dell’intero giudizio (almeno sino alla sentenza di appello) e quindi per un tempo parecchio superiore a un anno, e che perciò l’importo delle retribuzioni perse, in relazione al quale di regola dev’essere operato il computo dell’indennità risarcitoria, sarebbe stato ben superiore a quello di dodici mensilità; risulta, perciò, ininfluente il dato che la Corte distrettuale per giustificare la determinazione dell’indennità in misura pari a quella massima abbia fatto capo a taluni dei criteri previsti dal successivo comma quinto dell’art. 18 cit. ai fini della differente indennità risarcitoria ivi disciplinata, perché, anche in difetto di tali riferimenti (giuridicamente erronei, ma nella specie superflui ed innocui), l’indennità in questione comunque doveva essere parametrata al massimo legale, solo in virtù del limite appunto di dodici mensilità; trattandosi semplicemente di erronea motivazione in diritto, in decisione che nel dispositivo risulta conforme a legge, giusta l’art. 384, ult. comma, c.p.c., questa Corte di legittimità può limitarsi a correggere in parte qua la motivazione, nel senso di doversi reputare semplicemente espunti gli irrilevanti cenni a taluni dei parametri di quantificazione previsti dal comma quinto dell’art. 18 cit.;
parallelamente, risulta inammissibile per difetto di decisività il quinto motivo;
anche dato atto che l’odierna parte ricorrente non avesse rinunciato alla relativa eccezione, nel caso concreto, in difetto di dati sulla reintegrazione e tenuto conto della limitazione legale massima dell’indennità risarcitoria, la richiesta della società di deduzione dell’ aliunde perceptum e percipiendum risulta puramente esplorativa in quanto sganciata da elementi da cui desumere la possibilità di
riduzione in concreto dell’indennità in virtù di percezione di redditi nell’intero periodo successivo al licenziamento;
il ricorso deve, pertanto, essere respinto, con regolazione delle spese del grado, liquidate come da dispositivo, secondo il regime della soccombenza, con distrazione in favore del difensore di parte controricorrente dichiaratosi antistatario; alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto nella ricorrenza dei presupposti processuali;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 5.000 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15% ed accessori di legge, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale del 13