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Mancata riattivazione rapporto: ricorso inammissibile

Un’Azienda Sanitaria, condannata a costituire un rapporto di lavoro con una lavoratrice, non ottempera. La lavoratrice ottiene la condanna al pagamento delle retribuzioni. L’Azienda ricorre in Cassazione lamentando vizi procedurali. La Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile perché mira a una rivalutazione dei fatti e difetta di autosufficienza, confermando il diritto della lavoratrice alle retribuzioni per la mancata riattivazione rapporto di lavoro.

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Pubblicato il 2 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Mancata riattivazione rapporto di lavoro: quando il ricorso in Cassazione è inammissibile

L’ordinanza n. 4689/2024 della Corte di Cassazione offre un importante chiarimento sui limiti del ricorso in sede di legittimità, specialmente in casi complessi di contenzioso lavorativo. La vicenda riguarda la mancata riattivazione rapporto di lavoro da parte di un’Azienda Sanitaria, nonostante una precedente sentenza avesse accertato il diritto di una lavoratrice all’assunzione. La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso dell’Azienda inammissibile, ribadendo principi fondamentali della procedura civile.

La vicenda giudiziaria: dall’ordine di assunzione alla condanna

La controversia ha origine da una sentenza della Corte di Appello del 2010 che aveva riconosciuto il diritto di una lavoratrice all’assunzione a tempo indeterminato presso un’Azienda Ospedaliero-Universitaria, con decorrenza retroattiva dal 2003. Nonostante la sentenza costituisse il rapporto di lavoro, l’Azienda non aveva mai chiamato la dipendente a prendere servizio.

Successivamente, in un altro giudizio, la Corte di Appello, con sentenze del 2017 e 2018, aveva condannato l’Azienda al pagamento delle retribuzioni maturate dal 2003 al 2014. I giudici di merito avevano ritenuto l’Azienda in mora credendi, ovvero inadempiente per non aver consentito alla lavoratrice di eseguire la sua prestazione. Dalla somma dovuta era stato detratto l’eventuale aliunde perceptum, ossia quanto guadagnato dalla lavoratrice in altri impieghi.

I motivi del ricorso dell’Azienda Sanitaria

L’Azienda Sanitaria ha impugnato le decisioni davanti alla Corte di Cassazione, sollevando tre motivi principali:

1. Omesso esame di un fatto decisivo: L’Azienda sosteneva che i giudici di merito non avessero considerato che la lavoratrice era stata assunta nel 2009 a seguito di un altro concorso, circostanza che, a suo dire, avrebbe escluso la mora credendi.
2. Vizio di ultrapetizione: Secondo la ricorrente, la Corte di Appello avrebbe condannato l’Azienda per la mancata riattivazione del rapporto in anni non oggetto della domanda iniziale.
3. Violazione del giudicato: L’Azienda lamentava che la domanda di pagamento delle retribuzioni fosse inammissibile, poiché la prima sentenza del 2010 aveva già rigettato ogni pretesa risarcitoria.

La decisione della Cassazione sulla mancata riattivazione rapporto di lavoro

La Corte di Cassazione ha dichiarato tutti i motivi di ricorso inammissibili. La decisione si fonda su due pilastri fondamentali del processo di legittimità.

Il difetto di autosufficienza del ricorso

In primo luogo, la Corte ha rilevato che il ricorso mancava del requisito di autosufficienza. La parte ricorrente, infatti, non aveva trascritto integralmente né localizzato con precisione gli atti processuali (come il ricorso di primo grado o l’atto di appello) su cui basava le proprie censure. Questo principio impone che il ricorso debba contenere tutti gli elementi necessari a comprenderne i motivi, senza che i giudici debbano ricercare documenti esterni. L’inosservanza di tale onere rende il motivo di ricorso inammissibile.

Il divieto di rivalutazione dei fatti in sede di legittimità

In secondo luogo, e in modo ancora più incisivo, la Cassazione ha sottolineato che i motivi proposti miravano, in realtà, a una rivisitazione del fatto e a una nuova valutazione delle prove, attività preclusa nel giudizio di legittimità. La Corte di Cassazione non è un terzo grado di merito e non può riesaminare le decisioni fattuali dei giudici dei gradi precedenti. Il suo compito è verificare la corretta applicazione delle norme di diritto e la coerenza logica della motivazione.

Le motivazioni

Le motivazioni della Suprema Corte sono chiare e in linea con il suo orientamento consolidato. I giudici hanno affermato che il ricorso, pur mascherando le censure come violazioni di legge, tendeva a una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un terzo grado di merito. L’accertamento relativo alla richiesta di riattivazione del rapporto di lavoro e alla quantificazione delle retribuzioni dovute era stato effettuato dalla Corte territoriale con una valutazione di fatto, insindacabile in sede di Cassazione. Pertanto, la mancata riattivazione rapporto di lavoro è stata correttamente sanzionata dai giudici di merito e la decisione non poteva essere messa in discussione attraverso un’inammissibile richiesta di riesame dei fatti.

Le conclusioni

L’ordinanza in commento ribadisce due lezioni fondamentali per chiunque affronti un contenzioso. La prima è di natura processuale: un ricorso per cassazione deve essere redatto nel rigoroso rispetto del principio di autosufficienza, pena l’inammissibilità. La seconda è di natura sostanziale: non è possibile utilizzare il ricorso in Cassazione come un’ulteriore opportunità per discutere i fatti della causa. La decisione conferma la condanna dell’Azienda, che dovrà corrispondere le retribuzioni alla lavoratrice e pagare le spese legali del giudizio di legittimità.

Quando un ricorso in Cassazione rischia di essere dichiarato inammissibile?
Quando non è ‘autosufficiente’, cioè non riporta in modo completo e preciso gli atti e i documenti su cui si fonda, costringendo la Corte a cercarli altrove. Inoltre, è inammissibile quando, invece di denunciare vizi di legge, tenta di ottenere una nuova valutazione dei fatti già decisa dai giudici di merito.

Cosa significa che il datore di lavoro è in ‘mora credendi’?
Significa che il datore di lavoro, senza un motivo legittimo, non riceve la prestazione lavorativa offerta dal dipendente. In questo caso, pur essendoci una sentenza che costituiva il rapporto di lavoro, l’Azienda non ha chiamato la lavoratrice a prestare servizio, ponendosi in una condizione di inadempimento.

Il datore di lavoro deve pagare le retribuzioni anche se il dipendente non ha lavorato a causa della mancata riattivazione rapporto di lavoro?
Sì. Secondo la decisione, se la mancata prestazione lavorativa dipende dal datore di lavoro che non ha dato esecuzione a un ordine di assunzione o riattivazione, quest’ultimo è tenuto a pagare le retribuzioni, salvo la detrazione di quanto il lavoratore abbia guadagnato altrove (aliunde perceptum).

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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