Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 19976 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 19976 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 23104-2021 proposto da:
NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME e COGNOME NUNZIATA , elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO nello studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentati e difesi d all’avv. NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
GENOVESE COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO nello studio dell’avv. COGNOME rappresentata e difesa da ll’avv. COGNOME
-controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 231/2021 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata in data 24/05/2021
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 21.3.2006 COGNOME COGNOME evocava in giudizio COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, lamentando che i convenuti avevano realizzato vedute dirette ed oblique sul suo fondo, prima inesistenti, e chiedendone la condanna ad eliminare le stesse e a risarcire il danno cagionatole.
Si costituivano i convenuti, resistendo alla domanda ed invocando, in via riconvenzionale, l’accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto di servitù di veduta.
Veniva integrato il contraddittorio nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME, proprietari del secondo piano e del sottotetto dell’edificio in cui si trovano gli immobili dei convenuti originari, e solo il primo si costituiva, aderendo alle difese dei COGNOME.
Con sentenza n. 1072/2018 il Tribunale accoglieva la domanda, condannando i convenuti, in solido, a chiudere le aperture insistenti sul cd. pozzo luce e condannando altresì i soli Tindaro e Aliquò a realizzare un parapetto a distanza di metri 1,5 dal confine con la proprietà dell’attrice, in favore della quale veniva anche liquidato il danno, quantificato in complessivi € 3.700,00.
Con la sentenza impugnata, n. 231/2021, la Corte di Appello di Messina riformava la decisione di prime cure, rigettando la domanda di chiusura delle aperture insistenti sulla parete del pozzo luce dell’edificio dei convenuti, condannando COGNOME e COGNOME ad innalzare fino a metri 2 il parapetto del loro balcone a confine con la proprietà Genovese.
La Corte distrettuale riteneva, in particolare, che le aperture sul pozzo luce non consentissero l’affaccio, essendo solo destinate a dare aria e luce, e quindi dovessero essere qualificate come luci. Evidenziava altresì che sia le aperture presenti sulla parete est del fabbricato dei convenuti, rappresentate da finestre, che quelle collocate sulla parete sud dello stesso, rispettavano, le prime, la distanza di 1,5 metri dal confine, prevista dall’art. 906 c.c., e le seconde la distanza di cui all’art. 905 c.c., in quanto distavano 3,5 metri dal confine. Quanto invece alle aperture sulla parete ovest dell’edificio dei convenuti, il giudice del gravame riteneva che l’installazione, sui balconi, di pannelli opachi alti 180 cm. e larghi 0,85 m. fosse sufficiente ai fini del rispetto delle norme in tema di distanze. Con riferimento invece al sottotetto, la Corte messinese riteneva che la possibilità di inspicere e prospiciere nel fondo Genovese non fosse esclusa dalla presenza di una ringhiera posta a metri 1,50 dal confine con la proprietà della stessa e di un serbatoio, collocato nella parte terminale del balcone del sottotetto, subito prima della predetta ringhiera, alto più di 1,60 m., anche a cagione del fatto che la parte terminale del balcone, oltre la ringhiera, era comunque accessibile, essendovi stato collocato il motore di un condizionatore. Il giudice di seconde cure, dunque, ordinava ai convenuti COGNOME e COGNOME l’innalzamento di un parapetto al fine di precludere la possibilità di affacciarsi, dal loro balcone, sul fondo Genovese.
Propongono ricorso per la cassazione di detta decisione COGNOME Maria, COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME e COGNOME affidandosi a due motivi.
Resiste con controricorso COGNOME spiegando ricorso incidentale articolato in quattro motivi.
In prossimità dell’adunanza camerale, ambo le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti principali lamentano la violazione o falsa applicazione degli artt. 900, 905, 2729 c.c., 12 Preleggi, 115 e 132 c.p.c., nonché omesso esame di fatti decisivi e nullità della sentenza per apparenza della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello, pur avendo escluso la sussistenza di una veduta esercitabile sul fondo Genovese dagli immobili di proprietà COGNOME, l’avrebbe tuttavia erroneamente ritenuta sussistente dal piano sottotetto dello stabile dei ricorrenti principali, di proprietà COGNOME. Questi ultimi sostengono che, in base agli stralci documentali ed alle fotografie riprodotte nel ricorso (cfr. pagg. 17 e ss. dello stesso) la Corte distrettuale avrebbe dovuto escludere anche la possibilità di esercitare inspectio e prospectio dal balcone del piano sottotetto d ell’edificio.
La censura è fondata.
La Corte di Appello, all’esito della valutazione delle risultanze istruttorie, ha dato atto della presenza di una prima ringhiera alta metri 1,50 e di un serbatoio a ridosso di essa, alto metri 1,60 (cfr. pag. 11 della sentenza impugnata), ma nonostante i predetti ostacoli ha configurato comunque l’esistenza di una veduta, ritenendo che l’ inspicere ed il prospicere non fossero limitati dalla loro presenza. In particolare, secondo il giudice di seconda istanza, ‘… la presenza di una ringhiera posta a mt. 1,50 dal confine con il fondo Genovese e la collocazione nella parte terminale del balcone, prima della detta ringhiera, di un serbatoio, che secondo le incontestate allegazioni dell’appellante, ha altezza maggiore di mt. 1,60 non escluda la configurata veduta diretta. Ciò in quanto la ringhiera consente, con manovra che neanche può ritenersi disagevole, di spingersi sino all’estremità del terrazzino, posto a confine con il terreno Genovese,
ed esercitare su questo inspectio e prospectio, non impedita dall’altezza del parapetto, alto appena mt. 1,00. E che tale parte terminale sia accessibile, nonostante la presenza della ringhiera in ferro, risulta dalla collocazione del motore di un condizionatore, le cui esigenze manutentive certamente impongono una visione ravvicinata’ (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata). La facoltà di esercitare una agevole prospezione sul fondo altrui, quindi, è stata configurata dalla Corte di merito nonostante la presenza accertata di ostacoli che impediscono l’accesso alla parte terminale del balcone -dalla quale potrebbe esercitarsi la veduta in discussione-, il cui superamento è possibile soltanto mediante una manovra di scavalcamento.
Tale ricostruzione collide apertamente con il consolidato insegnamento di questa Corte, secondo cui ‘Per configurare gli estremi di una veduta ai sensi dell’art. 900 c.c. conseguentemente soggetta alle regole di cui agli artt. 905 e 907 c.c. in tema di distanze, è necessario che le cd. inspectio et prospectio in alienum, vale a dire le possibilità di affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente, siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18910 del 05/11/2012, Rv. 24113, che ha ritenuto inidoneo, a tal fine, un parapetto alto 90 cm., poiché tale altezza non corrisponde a quella del petto, ma a quella del basso ventre di una persona di ordinaria statura, e quindi è insufficiente per garantire un affaccio sicuro; negli stessi termini, cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7267 del 12/05/2003, Rv. 562925 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3043 del 10/02/2020, Rv. 657095, secondo le quali l’affaccio deve essere esercitabile in condizioni di sicurezza).
Peraltro, va anche evidenziato che, sempre secondo l’insegnamento di questa Corte, ‘… l’assenza di parapetto su una terrazza di copertura di un edificio costituisce elemento decisivo per escludere che l’opera
abbia i caratteri della veduta o del prospetto, anche se essa sia di normale accessibilità e praticabilità da parte del proprietario, laddove la praticabilità può valere invece ai fini della qualificazione della situazione come luce irregolare’ (cfr. la già citata Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3043 del 10/02/2020, Rv. 657095). Di conseguenza, la Corte distrettuale ha anche errato nel ritenere che la ringhiera posta al termine dello sporto dal quale sarebbe esercitabile la veduta, alta soltanto un metro, sia idonea ai fini dell’esercizio del comodo inspicere e prospicere : in presenza di una protezione insufficiente, per altezza o caratteristiche, a garantire la sicurezza e comodità della veduta, infatti, il giudice di merito avrebbe dovuto configurare una luce irregolare, da assoggettare al regime dell’art. 901 c.c.
Passando all’esame dei motivi del ricorso incidentale, con il primo di essi la COGNOME lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 900, 901, 902, 2907 c.c., 112, 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello, pur avendo ravvisato che i convenuti, in luogo della parete cieca, inizialmente prevista a confine con il pozzo luce, avevano invece realizzato una struttura munita di vetrate, ha ritenuto che da quest’ultima non fosse possibile esercitare l’ inspectio e la prospectio , qualificandola quindi come luce, senza tuttavia ordinarne la regolarizzazione. La ricorrente incidentale evidenzia che, nel corso del giudizio di merito, essa aveva invocato non soltanto la chiusura delle vedute, ma anche la regolarizzazione di tutte le opere eseguite dai convenuti, ivi incluse quindi le luci. La struttura eretta dai convenuti avrebbe dovuto essere qualificata come luce irregolare, onde la stessa avrebbe dovuto essere assoggettata alla disciplina prevista dall’art. 901 c.c.
Con il secondo motivo del ricorso incidentale, invece, viene denunziata la violazione degli artt. 902, 1061 c.c. e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto assorbita la domanda di usucapione formulata in via riconvenzionale, per effetto del rigetto della domanda principale spiegata dalla Genovese, senza considerare che la parete nord, che incorpora il pozzo luce sul quale si collocano le aperture che la Corte distrettuale ha qualificato come luci, è di esclusiva proprietà dei ricorrenti principali. Di conseguenza il giudice di merito avrebbe dovuto rigettare la predetta domanda riconvenzionale, che era stata proposta dagli odierni ricorrenti principali, in quanto il possesso di luci irregolari non può dar luogo all’acquisto per usucapione del diritto di mantenerle.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto perché entrambe attinenti al punto della decisione di seconde cure concernente la qualificazione delle aperture praticate dai ricorrenti principali nel cd. pozzo luce e l’individuazione del regime giuridico ad esse applicabile, sono fondate.
La Corte di Appello ha ritenuto che le aperture in esame, realizzate dai convenuti in luogo della parete cieca originariamente prevista, costituissero luci, in quanto non idonee a consentire la inspectio e la prospectio sul fondo del vicino. In particolare, la Corte di Appello ha accertato che la parete sul cd. pozzo luce, ‘… inizialmente prevista come cieca, è invece munita di vetrate …’ ma ha ritenuto che ‘… tale difformità non assume, per i fini che qui interessano, alcun rilievo, non consentendo, ex se, l’esercizio di veduta diretta sul fondo della Genovese in spregio delle distanze di cui all’art. 905 c.c. Ciò in quanto tale porzione del fabbricato altro non è se non la parete del pozzo luce, che, come pure riconosciuto dal c.t.u., non può qualificarsi in termini
di ‘zona di affaccio’, essendo un cortile, delimitato dai muri perimetrali dell’edificio condominiale e destinato prevalentemente a dare arie a luce ai locali secondari che su esso si affacciano. Ora è evidente che tale parete, munita di vetrate destinate a dare aria e luce ma tali da non consentire l’affaccio, non presenti delle vedute in senso tecnico, per tali intendendosi le aperture verso l’esterno, quali balconi, finestre, che consentano l’inspectio e la prospectio sul fondo altrui. Dette aperture, infatti, mancando un piano di calpestio, tale da consentire ad un osservatore di affacciarsi sul fondo Genovese, debbono essere qualificate come luci, come tali non soggette all’osservanza delle distanze di cui agli artt. 905 e 906 c.c.’ (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata).
Deve considerarsi, tuttavia, che le luci, per essere regolari, devono corrispondere ai requisiti di cui all’art. 901 c.c., e quindi essere munite di un’inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino e di una grata fissa in metallo le cui maglie non siano maggiori di tre centimetri quadrati, avere il lato inferiore a un’altezza non minore di due metri e mezzo dal pavimento o dal suolo del luogo al quale si vuole dare luce e aria, se esse sono al piano terreno, e non minore di due metri se sono ai piani superiori, ed avere il lato inferiore a un’altezza non minore di due metri e mezzo dal suolo del fondo vicino, a meno che si tratti di locale che sia in tutto o in parte a livello inferiore al suolo del vicino e la condizione dei luoghi non consenta di osservare l’altezza stessa. In ogni altro caso, si configura una cd. luce irregolare, rappresentata da un’apertura che, pur non avendo i requisiti della veduta, perché non consente inspectio e prospectio in condizionidi sicurezza, non corrisponde al paradigma normativo previsto per la luce regolare.
Di ciò doveva tenersi conto nel giudizio di merito, anche con riferimento al tema dell’usucapione.
Va ribadito, sul punto, il consolidato principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui ‘L’apertura effettuata nel muro della propria casa rientra nella categoria delle cosiddette luci di tolleranza, quando la stessa non è conforme ai requisiti dell’art 901 c.c. in tal caso, il proprietario del fondo vicino può sempre pretenderne la regolarizzazione. Il possesso, di tale apertura, in quanto sprovvisto di titoli e fondato sulla tolleranza del vicino, non può condurre alla usucapione di una servitù di luce, difforme dal tipo ammesso dalla legge’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1407 del 08/06/1962, Rv. 252252; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1781 del 07/07/1962, Rv. 252825; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 843 del 24/03/1971, Rv. 350700; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3019 del 07/05/1980, Rv. 406779; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4084 del 09/07/1982, Rv. 422058; Cass. Sez. U, Sentenza n. 10285 del 21/11/1996, Rv. 500704; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4404 del 17/05/1997, Rv. 504467; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 71 del 04/01/2002, Rv. 551391; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11343 del 17/06/2004, Rv. 573685; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 34824 del 17/11/2021, Rv. 662867).
La ricorrente incidentale aveva chiesto, inter alia , la regolarizzazione delle opere eseguite dai ricorrenti principali, incluse le luci aperte sul proprio fondo. La COGNOME, sin dal suo primo scritto difensivo, aveva fatto riferimento, genericamente, alle aperture realizzate dagli odierni ricorrenti principali, invocandone la chiusura o la regolarizzazione. In tal modo, la predetta aveva lamentato anche l’apertura di luci irregolari, proponendo domanda ai sensi degli artt. 901 e 902 c.c. Di conseguenza il giudice di merito, una volta configurata l’apertura in questione come luce, avrebbe dovuto verificarne la regolarità. Nessuna statuizione, invece, è contenuta, al riguardo, nella sentenza impugnata, che di conseguenza va cassata,
non avendo il giudice dell’appello tratto le necessarie conseguenze dall’accertamento condotto in punto di fatto circa le caratteristiche e la natura dell’apertura sul cd. pozzo luce, di cui si discute.
Con il terzo motivo del ricorso incidentale, la COGNOME si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 1158, 1061, 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente valorizzato la deposizione del teste COGNOME. Secondo la ricorrente incidentale, il giudice di seconde cure, ritenendo la domanda riconvenzionale di usucapione assorbita dal rigetto di quella principale di regolarizzazione delle luci aperte sul cd. pozzo luce, si sarebbe indirettamente pronunziato su di essa, affermando che l’attuale conformazione del detto pozzo luce risalisse al 1983, e quindi oltre venti anni prima della notificazione della citazione introduttiva, eseguita il 21.3.2006.
La censura è assorbita dall’accoglimento dei primi due motivi del ricorso incidentale.
Il quarto motivo del ricorso incidentale, con il quale viene denunziata la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente compensato per i 3/4 le spese del doppio grado del giudizio di merito, ed il secondo motivo del ricorso principale, con il quale viene dedotta la violazione delle medesime disposizioni, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente operato il governo delle spese del giudizio di merito, sono assorbiti dall’accoglimento del primo motivo del ricorso principale e dei primi due motivi del ricorso incidentale.
In definitiva, vanno accolti il primo motivo del ricorso principale ed i primi due motivi di quello incidentale, con assorbimento di tutte le
altre doglianze. La sentenza impugnata va di conseguenza cassata, in relazione alle censure accolte, e la causa rinviata alla Corte di appello di Messina, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
la Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale ed i primi due motivi del ricorso incidentale, dichiarando assorbite le rimanenti doglianze. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia la causa alla Corte di appello di Messina, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda