Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 22211 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 22211 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3505/2022 R.G. proposto da :
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME difesi dagli avvocati COGNOME e COGNOME
-ricorrenti-
contro
NOMECOGNOME difesi da ll’avvocato NOME
-controricorrenti-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO SALERNO n. 1663/2021 depositata il 23/11/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/07/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Nel 1982 NOME COGNOME dante causa degli attuali controricorrenti, conveniva dinanzi al Tribunale di Salerno NOME
Cinque, proprietario di un fondo confinante, per un’azione di regolamento di confini, lamentando un’occupazione di terreni con costruzione di un manufatto e coltivazioni. Quel giudizio, dopo una sentenza di primo grado favorevole all’attore, veniva annullato in appello nel 2010, ove si disponeva la rimessione della causa al primo giudice per difetto di integrazione del contraddittorio nei confronti di NOME COGNOME, moglie del convenuto, comproprietaria dei fondi e quindi litisconsorte necessaria. Il giudizio veniva quindi riassunto nel 2010 dagli eredi COGNOME e COGNOME nei confronti di entrambi i coniugi.
Il Tribunale di Salerno nel 2019 rigettava le domande degli attori e accoglieva la domanda riconvenzionale di usucapione avanzata dai convenuti. Il primo giudice fondava la sua decisione su una duplice e distinta argomentazione. Per NOME COGNOME l’usucapione era maturata poiché il suo possesso, iniziato al più tardi nel 1982, non era stato validamente interrotto fino alla notifica dell’atto di riassunzione nel 2010; la domanda giudiziale del 1982, notificata solo al marito, non poteva estendere a lei i suoi effetti, data l’inapplicabilità dell’art. 1310 c.c. in materia di diritti reali. Per NOME COGNOME l’usucapione era ugualmente maturata perché la dichiarazione di nullità del primo giudizio aveva privato la domanda iniziale del suo effetto sospensivo permanente, riducendolo a un effetto interruttivo istantaneo, con la conseguenza che il termine ventennale era ripreso a decorrere nel 1982 e si era completato nel 2002.
La Corte di appello di Salerno, con la sentenza qui impugnata, ha riformato la decisione di primo grado, ritenendo che l’atto notificato nel 2010 costituisse una tempestiva riassunzione del processo originario e non l’introduzione di un nuovo giudizio. Di conseguenza, ha affermato che la domanda giudiziale del 1982 aveva prodotto un effetto interruttivo e sospensivo della prescrizione, ai sensi dell’art. 2945 co. 2 c.c., protrattosi per tutta
la durata del processo e ostativo al compimento dell’usucapione. Quanto alla posizione di NOME COGNOME, litisconsorte inizialmente pretermessa, la Corte distrettuale ha applicato il principio secondo cui l’integrazione del contraddittorio produce effetti sananti retroattivi anche nei confronti del litisconsorte successivamente evocato in giudizio, con decorrenza dalla prima notifica. La Corte ha altresì rigettato la domanda riconvenzionale subordinata di accessione invertita ex art. 938 c.c. per la mancata prova della buona fede del costruttore. Infine, ha dichiarato gli COGNOME e Harrison proprietari dei terreni e ha condannato i Cinque e Gentile alla rimozione del manufatto.
Ricorrono in cassazione i convenuti con sette motivi, illustrati da memoria. Resistono gli attori con controricorso e memoria. Il consigliere delegato ha proposto definizione del ricorso per improcedibilità. I ricorrenti ne hanno chiesto la decisione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-In via preliminare, a superamento della proposta di definizione anticipata, è da osservare che, nonostante la mancata produzione della relata di notifica, il ricorso è procedibile poiché risulta dagli atti che esso è stato notificato il 20 gennaio 2022, entro il termine di sessanta giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, avvenuta il 23 novembre 2021, sicché non vi è incertezza sulla tempestività dell’impugnazione.
-Il primo e il secondo motivo meritano di essere esaminati congiuntamente.
Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 434 c.p.c. I ricorrenti sostengono che la Corte di appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile il gravame, in quanto gli appellanti avevano censurato unicamente l’argomentazione secondaria della sentenza di primo grado, relativa alla posizione del solo Cinque, omettendo di criticare la ragione principale e autonoma della decisione, fondata sulla mancata
interruzione del possesso nei confronti della Gentile. L’appello, privo di specificità sulla ratio decidendi principale, non avrebbe devoluto tale questione al giudice del gravame.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., 2909 c.c. e 324 c.p.c. Quale conseguenza del primo motivo, si deduce che sulla statuizione di primo grado relativa all’avvenuta usucapione in favore di NOME COGNOME si sarebbe formato il giudicato interno, non essendo stata oggetto di specifica impugnazione. La Corte di appello, pronunciandosi anche su tale capo, avrebbe violato il giudicato.
Il primo e il secondo motivo sono rigettati.
Secondo orientamento costante « L’effetto devolutivo preclude al giudice d’appello esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti non ricompresi, neanche implicitamente, nel tema esposto nei motivi d’impugnazione, mentre non impedisce che la decisione si fondi su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, siano tuttavia in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte, costituendone necessario antecedente logico e giuridico; in appello, infatti, il giudice può riesaminare l’intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purché senza coinvolgere punti decisivi della statuizione impugnata suscettibili di giudicato interno in assenza di contestazione, decidendo anche in base a ragioni diverse da quelle svolte nei motivi di gravame » (così, tra le meno remote, Cass. 30129/2024).
Nel caso attuale, la Corte di appello ha correttamente rigettato l’eccezione di inammissibilità ex art. 342 c.p.c., motivando che l’atto di gravame individuava chiaramente le questioni e le censure contro la decisione di primo grado, permettendo al collegio di comprendere il devolutum come esteso alla posizione di entrambi i coniugi COGNOME e COGNOME e alla controparte di difendersi adeguatamente. Implicitamente, ritenendo l’appello idoneo a
investire l’intera statuizione sull’usucapione, ha escluso la formazione di un giudicato parziale sulla posizione della Gentile.
3. – Con il terzo motivo si contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 170 c.p.c., 125 disp. att. c.p.c., 101 c.p.c., nonché degli artt. 24 e 111 Cost. Si critica l’interpretazione dell’atto del 2010 come mera riassunzione del precedente giudizio. Ad avviso dei ricorrenti, la forma dell’atto (citazione), la notifica personale e la nuova costituzione in giudizio generavano un’oggettiva equivocità, che, in ossequio al principio di buona fede e del diritto di difesa, avrebbe dovuto indurre a qualificarlo come atto introduttivo di un nuovo processo per non pregiudicare le strategie difensive dei convenuti.
Il terzo motivo è rigettato.
La censura dell’error in procedendo è sufficientemente specifica da consentire un proficuo accesso agli atti per verificare il rispetto dei canoni enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 16924 del 2012, tra le altre). Per stabilire se un atto costituisca una riassunzione o l’inizio di un nuovo processo, è necessario un esame del suo contenuto e del suo tenore complessivo. Se da ciò si desume una implicita ma inequivoca volontà di proseguire il giudizio inizialmente promosso, nonché la presenza di tutti gli elementi idonei a ciò , l’ eventuale inosservanza della forma corretta dell’atto è irrilevante ex art. 156 co. 3 c.p.c.
Così è nel caso attuale.
La Corte ha affermato correttamente che, in base al principio di strumentalità delle forme, l’uso della citazione anziché del ricorso per la riassunzione costituisce una mera irregolarità, avendo l’atto raggiunto il suo scopo in quanto conteneva tutti gli elementi idonei a identificare la causa da proseguire. Ha quindi concluso che il processo era stato tempestivamente riassunto.
4. – Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 164 co. 5, 102 e 331 c.p.c. Si censura l’applicazione
dell’efficacia sanante retroattiva dell’integrazione del contraddittorio. I ricorrenti sostengono che il principio affermato dalle Sezioni Unite nel 2010 non si adatterebbe alle azioni relative a diritti reali, per le quali gli effetti della domanda si producono solo con la notifica al destinatario. Si argomenta, inoltre, che la mancata notifica al litisconsorte necessario costituisce un vizio che non può essere sanato con efficacia ex tunc, similmente a quanto previsto dall’art. 164 co. 5 c.p.c. per i vizi concernenti l’editio actionis.
Il quarto motivo è rigettato.
Secondo la sentenza delle Sezioni Unite n. 9523 del 2010: « Nel caso di litisconsorzio necessario, l’integrazione del contraddittorio prevista dal secondo comma dell’art. 102 cod. proc. civ. ha effetti di ordine sia processuale che sostanziale, nel senso che sana l’atto introduttivo viziato da nullità per la mancata chiamata in giudizio di tutte le parti necessarie ma è altresì idonea ad interrompere prescrizioni e ad impedire decadenze di tipo sostanziale nei confronti anche delle parti necessarie originariamente pretermesse».
In altre parole l’ordine di integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario pretermesso produce un effetto sanante retroattivo -in linea con il principio generale della retroattività della sanatoria dei vizi processuali – che si estende non solo al piano processuale, ma anche a quello sostanziale. La sanatoria opera ex tunc , con la conseguenza che gli effetti della domanda giudiziale si producono nei confronti di tutte le parti, compresa quella successivamente evocata, sin dal momento della notificazione dell’atto introduttivo originario.
La Corte di appello si è conformata correttamente a tale principio, mentre la distinzione, prospettata dai ricorrenti, tra diritti potestativi e diritti reali mostra di non cogliere la ratio della decisione delle Sezioni Unite, la quale non si fonda sulla natura del
diritto azionato, bensì sulla struttura del litisconsorzio necessario e sulla necessità processuale di pervenire a una pronuncia unica e con effetti uniformi per tutte le parti. L’effetto sanante retroattivo è connaturato al rimedio processuale dell’integrazione, che mira a emendare l’atto introduttivo viziato, rendendolo idoneo fin dall’origine a produrre tutti i suoi effetti, sia processuali sia sostanziali.
Pertanto, la domanda giudiziale notificata nel 1982 al solo Cinque ha interrotto e sospeso ex art. 2945 co. 2 c.c. il decorso del termine per l’usucapione anche nei confronti della Gentile, litisconsorte necessaria evocata in giudizio a seguito dell’ordine di integrazione.
5. -Con il quinto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 132 co. 2 n. 4 c.p.c. I ricorrenti lamentano che la Corte territoriale, a fronte dell’eccezione possideo quia possideo che aveva trasformato l’azione in rivendica, avrebbe accolto la domanda degli attori nonostante questi non avessero fornito la probatio diabolica. Inoltre, la sentenza sarebbe nulla per omessa motivazione su un fatto decisivo, non avendo esaminato l’eccezione e la situazione di possesso vantata dai convenuti.
Il quinto motivo è rigettato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte la probatio diabolica che accompagna l’esercizio dell’azione di rivendicazione trova una mitigazione nell’ipotesi in cui convenuto spieghi una domanda ovvero un’eccezione riconvenzionale, invocando un possesso ad usucapionem iniziato successivamente al perfezionarsi dell’acquisto ad opera dell’attore in rivendica (o del suo dante causa): in tal caso, infatti, l’onere probatorio gravante su quest’ultimo si riduce alla prova del suo titolo d’acquisto, nonché della mancanza di un successivo titolo di acquisto per usucapione da parte del convenuto, attenendo il thema disputandum all’appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell’invocata usucapione e non già
all’acquisto del bene medesimo da parte dell’attore (così, tra le altre, Cass. 8215/2016).
Così è nel caso attuale, in cui titolo di acquisto prodotto dagli attori -il rogito notarile del 1927 -non è stato mai posto in discussione, cosicché il rigetto della riconvenzionale di usucapione ha risolto il conflitto in favore dei proprietari, rendendo superfluo ogni ulteriore onere probatorio a loro carico.
6. – Il sesto motivo lamenta la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., 115, 116, 177, 187, 188, 189 e 244 c.p.c., e 132 co. 2 n. 4 c.p.c. Si critica il rigetto della domanda riconvenzionale di usucapione e la mancata ammissione della prova testimoniale. La Corte avrebbe errato nel giudicare equivoca la coltivazione di un fondo agricolo e nel non considerare che i capitoli di prova vertevano anche su altri elementi (recinzione, edificazione), idonei a dimostrare un possesso uti dominus . Il rigetto immotivato della prova avrebbe violato il diritto di difesa.
Il sesto motivo è rigettato.
Secondo un orientamento consolidato di questa Corte (cfr., tra le meno remote, Cass. 1796/2022) la mera coltivazione di un fondo è un’attività di per sé equivoca, inidonea a dimostrare l’esercizio di un possesso uti dominus, in quanto non esprime in modo inequivocabile l’intento del coltivatore di possedere il bene come proprietario, potendo tale attività corrispondere anche a un rapporto di diversa natura, come la detenzione per ragioni di servizio o di lavoro, o fondarsi sulla mera tolleranza del proprietario.
La Corte si è conformata a quest’orientamento , ritenendo le circostanze di prova generiche e il comportamento della coltivazione di per sé equivoco e inidoneo, a dimostrare un possesso uti dominus . Quanto al manufatto, la prova è stata correttamente ritenuta irrilevante, poiché si allega la costruzione
agli inizi degli anni ’70, un momento insufficiente a ritenere maturata l’usucapione .
La valutazione del giudice di merito circa la genericità e l’inidoneità complessiva dei capitoli di prova a dimostrare un possesso pieno ed esclusivo, caratterizzato dall’ animus rem sibi habendi rientra nell’ apprezzamento del giudice di merito che, in quanto adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità. Le censure dei ricorrenti, in definitiva, si risolvono nella richiesta di una nuova e diversa valutazione del materiale istruttorio, inammissibile in questa sede.
7. – Con il settimo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 938 c.c. Si contesta il rigetto della domanda di accessione invertita, sostenendo che la mancata prova della buona fede è conseguenza dell’illegittimo diniego della prova testimoniale e che la Corte avrebbe errato nell’interpretare il presupposto oggettivo dell’istituto, che sarebbe precluso solo dalla costruzione interamente sul fondo altrui, e non dalla mera occupazione, anche totale, di una particella altrui nell’ambito di uno sconfinamento di un edificio che insiste in parte sul proprio fondo.
Il settimo motivo è rigettato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, come concretizzata fra le pronunce meno remote da Cass. 11845/2021: « la buona fede rilevante ai fini dell’accessione invertita di cui all’art. 938 c.c. consiste nel ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere alcuna usurpazione. Essa, in assenza di una previsione analoga a quella dettata in materia di possesso dall’art. 1147 c.c., non è presunta, ma deve essere provata dal costruttore; ai fini probatori, è necessario avere riguardo alla ragionevolezza dell’uomo medio e al convincimento che questi poteva legittimamente formarsi circa l’esecuzione della costruzione sul proprio suolo, in base alle cognizioni possedute effettivamente o che egli avrebbe potuto acquisire con un
comportamento diligente, sicché la buona fede deve escludersi qualora, in relazione alle particolari circostanze del caso concreto, il costruttore avrebbe dovuto fin dall’inizio anche solo dubitare della legittimità dell’occupazione del suolo del vicino» .
Fra le distinte e autonome ragioni che la sentenza ha fornito a fondamento del rigetto della domanda ex art. 938 c.c., campeggia quella relativa al difetto di prova della buona fede, la quale è in linea con l’orientamento precedentemente indicato. L’argomento dei ricorrenti, secondo cui la mancata prova sarebbe dipesa dalla non ammissione della prova testimoniale, è privato di forza dalla motivazione sottesa al rigetto del sesto motivo, cui si rinvia. Ciò rende superfluo l’esame delle critiche relative all’interpretazione del presupposto oggettivo dello sconfinamento, essendo la statuizione impugnata autonomamente fondata sull’accertata carenza del requisito soggettivo della buona fede.
– La Corte rigetta il ricorso. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in € 8.500, oltre a € 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge, da corrispondere all’avv. NOME COGNOME dichiaratosi antistatario.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 09/07/2025.