Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 7844 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 7844 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 30850/2021 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa giusta procura alle liti in data 29/11/2021 rilasciata su foglio separato congiunto al ricorso mediante strumento informatico all’Avv. NOME COGNOME il quale chiede di ricevere le comunicazioni e le notificazioni all’indirizzo di posta elettronica certificato
-ricorrente principale – contro
Ministero della Cultura (già Ministero per i beni culturali e ambientali e Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difes o dall’Avvocatura Generale dello Stato, elettivamente domiciliato ex lege in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente incidentale –
Avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, n. 3187/2021, depositata in data 30/4/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 /2/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
La controversia riguarda l’esecuzione della Convenzione stipulata in data 15/7/1986 tra il Ministero per i beni culturali e ambientali (oggi Ministero della cultura) ed il concessionario pubblico RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE) per la realizzazione di interventi di risanamento, consolidamento, restauro e valorizzazione di beni di rilevante interesse culturale inclusi: 1) il progetto Sviluppo Matera;2) il Parco Archeologico di Ostia; 3) la Rocca di Spoleto.
Veniva poi stipulato un primo atto aggiuntivo il 16/5/1990 e un secondo atto aggiuntivo il 14/5/1996.
In data 8/11/2012 la RAGIONE_SOCIALE ora RAGIONE_SOCIALE, proponeva domanda di arbitrato con contestuale nomina di arbitro, contestando al Ministero gravi inadempimenti che avevano causato una serie di danni alla concessionaria, chiedendo il pagamento della somma di euro 37.000.000,00, formulando sei quesiti in ordine all’esecuzione della Convenzione.
In particolare – ad avviso della attrice – l’Amministrazione aveva omesso di corrispondere rilevanti importi dovuti a titolo di «prezzo
chiuso», in quanto i criteri di applicazione della clausola del prezzo chiuso imposti dall’Amministrazione concedente con l’atto aggiuntivo del 1996, e l’applicazione del metodo «a scalare», si ponevano in contrasto con l’art. 33, comma 4, della legge n. 41 del 1986.
Si sarebbe verificata la nullità della disposizione e la necessaria applicazione del metodo globale di calcolo, come indicato dalla giurisprudenza di legittimità (si citava Cass., n. 7917 del 2012).
Inoltre, Amministrazione aveva effettuato «solo parzialmente (e con grave ritardo) il collaudo delle opere.
L’Amministrazione, poi, avrebbe pagato con ritardo anche i corrispettivi dell’appalto.
Venivano così sottoposti al collegio arbitrale otto quesiti: 1) «dica il collegio arbitrale che spetta all’impresa il pagamento degli importi maturati a titolo di prezzo chiuso», facendo corretta applicazione dei criteri di cui all’art. 33, comma 4, della legge n. 41 del 1986, previa declaratoria di nullità dei patti in deroga; 2) «dica il collegio arbitrale che spetta all’impresa il rimborso dei maggiori oneri indebitamente sostenuti per il ritardo nella redazione ed approvazione del collaudo»; 3) «dica il collegio arbitrale che spetta all’impresa la corresponsione delle somme di cui all’art. 10 lettera c) su tutti gli importi di cui ai precedenti quesiti e condanni l’Amministrazione concedente al pagamento della somma che risulterà dovuta, oltre interessi legali e moratori secondo i tassi delle decorrenze di cui agli articoli 35 e 36 del d.P .R. n. 1063/62 e successive modifiche ed integrazioni, calcolati con i criteri di contabilizzazione di cui all’art. 4 della legge n. 741/81»; 4) «i saldi risultanti dagli atti di collaudo, oltre accessori » (pagina 4 del controricorso); 5) «dica il collegio arbitrale che spetta all’impresa la corresponsione degli interessi legali moratori maturati per il ritardato pagamento sugli acconti dei lavori»; 6) «il collegio arbitrale condanni, pertanto, la convenuta
Amministrazione al pagamento di tutte le somme di cui quesiti che precedono a titolo di responsabilità extracontrattuale ovvero a titolo di indebito arricchimento»; 7) «gli ulteriori interessi legali a decorrere dalla notifica della domanda di arbitrato sulle somme liquidate a titolo di accessori in forza dei quesiti che precedono» (pagina 4 del controricorso);8) «dica il collegio arbitrale che per tutte le ragioni esposte e nel rispetto del principio di causalità, tutte le spese del procedimento arbitrale, nonché gli onorari degli arbitri e le spese di onorari di difesa, devono essere poste a carico della convenuta Amministrazione».
La società nominava arbitro l’Avv. NOME COGNOME ed invitava l’Amministrazione convenuta nominare a sua volta il proprio arbitro.
L’Amministrazione declinava la competenza arbitrale con atto del 5/2/2012, notificato il 13/2/2013.
In difetto di nomina da parte dell’Amministrazione, veniva designato dal presidente del tribunale di Roma in data 17/4/2013, quale secondo arbitro, l’Avv. NOME COGNOME
Gli arbitri così individuati nominavano, quindi, quale terzo arbitro con funzioni di presidente, l’Avv. NOME COGNOME in data 26/5/2013.
Tale nomina «veniva accettata dall’Amministrazione, con espressa indicazione che con l’accettazione non si intendeva in alcun modo rinunciare alla proposta declinatoria».
Nel corso del giudizio arbitrale l’Amministrazione contestava le pretese della società attrice, proponendo altresì domanda riconvenzionale.
In via preliminare, l’Amministrazione «negava che sussistesse la competenza degli arbitri, atteso che era intervenuta declinatoria con atto notificato in data 13/2/2013».
Nel merito, evidenziava l’erroneità dei criteri indicati da controparte, in relazione al metodo globale, in luogo di quello, corretto, a scalare. Rimarcava che le questioni erano state risolte in via transattiva attraverso diversi atti aggiuntivi.
A seguito del deposito della CTU, con l’elaborato peritale depositato il 10/8/2014, con una nota del 7/8/2014, acquisita al protocollo ministeriale, la Holding «proponeva di definire il contenzioso, con la tacitazione di ogni pretesa avanzata nel giudizio arbitrale, mediante il pagamento da parte del Ministero dell’importo di euro 11.500.000,00 oltre al rimborso del 50% delle spese arbitrali e della espletata consulenza, con compensazione delle spese legali».
A tale proposta faceva seguito la nota ministeriale del 30/9/2014, acquisita agli atti del collegio arbitrale nella riunione collegiale del 2/10/2014, mediante la quale «all’esito del parere favorevole dell’Avvocatura dello Stato che evidenziava il vantaggio per l’erario della transazione stante il consolidamento dell’orientamento di legittimità in materia di prezzo chiuso favorevole a Bonifica veniva conferito incarico dal Direttore Generale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo alla Dirigente del servizio I del medesimo Ministero, Dott.ssa NOME COGNOME di formalizzare all’udienza del 2 ottobre 2014 la seguente proposta transattiva, contenente altresì un riconoscimento di debito».
Nella riunione del 2/10/2014 «il rappresentante dell’Amministrazione dichiarava di riconoscere parzialmente dovute somme alla parte attrice con riferimento a quanto richiesto con la domanda giudiziale. Il rappresentante legale di parte attrice prendeva atto della proposta, ‘chiedendo la condanna dell’Amministrazione concedente al pagamento degli importi riconosciuti come dovuti, rinunciando alle ulteriori pretese fatte valere».
Il collegio arbitrale, quindi, «prendeva a sua volta atto delle dichiarazioni delle parti, riteneva la procedura arbitrale ‘sufficientemente istruita e matura per la decisione’, e introitava la causa in decisione».
Con atto sottoscritto dagli arbitri in data 16/11/2014 il collegio pronunciava lodo a definizione della controversia.
Il collegio, quindi, «superata ed assorbita ogni altra questione» riteneva «di dover provvedere alla condanna a carico dell’Amministrazione resistente» e dunque al pagamento delle somme di cui al riconoscimento espresso in udienza, affermando in particolare la «sopravvenuta improcedibilità» delle eccezioni e della domanda riconvenzionale formulate da parte convenuta nei propri scritti difensivi, in quanto «superate e implicitamente rinunciate».
Il collegio arbitrale, dunque, condannava l’Amministrazione convenuta «al pagamento dell’importo di euro 11.300.000,00 a parziale riconoscimento delle pretese avanzate con il primo e il terzo quesito; dichiarava improcedibili le restanti domande della società attrice, la domanda riconvenzionale e le eccezioni della parte convenuta «stante la implicita rinuncia alle stesse in ragione dell’avvenuto riconoscimento della parziale fondatezza nel merito delle domande attore».
Il collegio provvedeva la compensazione tra le parti delle spese di funzionamento del collegio, quelle derivanti dalla CTU, nonché le spese del giudizio arbitrale.
Con atto notificato il 2/6/2015 Ministero proponeva impugnazione per la nullità del lodo dinanzi alla Corte d’appello di Roma.
9.1. Deduceva con il primo motivo la «nullità del lodo ai sensi del combinato disposto degli articoli 829, comma 1, nn. 1 e 4, e 817 c.p.c. -Incompetenza del collegio arbitrale a decidere la
contro
versia; con tale motivo si rilevava, in sostanza, la suddetta incompetenza del collegio arbitrale a decidere la controversia, determinata dalla declinatoria dell’istanza di arbitrato, notificata dall’Amministrazione alla controparte in data 13/2/2013, alla quale il Ministero non aveva mai rinunciato, ribadendola, anzi anche all’udienza del 2/10/2014, nella quale il collegio aveva assunto l’arbitrato in decisione».
9.2. Con il secondo motivo l’appellante deduceva la «nullità del lodo ai sensi del combinato disposto degli articoli 829, primo comma, numeri 5 e 12, e 823 n. 5 c.p.c. – Omessa motivazione; con tale motivo si rilevava l’omessa motivazione del lodo sulla sussistenza della competenza arbitrale, a fronte della menzionata declinatoria e delle ampie deduzioni svolte dall’Amministrazione sul punto, in entrambe le memorie presentate dinanzi a collegio arbitrale, con conseguente violazione delle norme sopra indicate».
9.3. Il terzo motivo di appello ineriva alla «nullità del lodo ai sensi del combinato disposto degli articoli 829 comma 1, n. 4 e 817 c.p.c.: incompetenza del collegio arbitrale a decidere la controversia; decisione del merito della controversia in un caso in cui il merito non poteva essere deciso; pertanto, se anche si fosse interpretato il lodo arbitrale nel senso che il collegio aveva preso atto della circostanza che le parti avevano di fatto concluso una transazione, lo stesso collegio «non avrebbe in ogni caso potuto pronunziare un ‘lodo transattivo’, in assenza di una norma specifica che, diversamente da quanto previsto in altri tipi di giudizio, contempli la possibilità di emanare una pronuncia arbitrale di tale contenuto nonché in assenza di un’esplicita volontà delle parti».
Il collegio arbitrale avrebbe dovuto limitarsi «a dichiarare cessata la materia del contendere, anziché emettere una pronuncia di condanna a carico di una delle parti».
9.4. Con il quarto motivo d’appello si deduceva «la nullità del lodo ai sensi del combinato disposto degli articoli 829, primo comma, numeri 5 e 12, e 823, n. 5, c.p.c.: Omessa motivazione: con tale motivo si denunciava la mancata motivazione della pronuncia arbitrale in ordine alla validità della dichiarazione effettuata in giudizio dal rappresentante dell’Amministrazione intervenuto nella riunione collegiale del 2/10/2014, attesa la discordanza tra il mandato ricevuto dal Direttore Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanea, avente ad oggetto la delega a formulare una proposta transattiva, e la stessa dichiarazione con la quale il suddetto funzionario si era espresso nel senso di ‘riconoscere la parziale fondatezza delle pretese avanzate dalla parte attrice con la domanda arbitrale’, con ciò esorbitando dal potere conferitogli con la delega».
9.5. Con il quinto motivo di appello si deduceva la «nullità del dolo per violazione degli articoli 3, paragrafo 3, TUE, 107-109 TFUE e dei principi generali del diritto dell’unione e nazionale in materia di concorrenza ai sensi dell’art. 141, comma 15bis , del codice degli appalti (d.lgs. n. 163/2006); con tale motivo si censurava l’omesso accertamento, da parte del collegio arbitrale, circa la sussistenza del potere dello stesso Direttore Generale delegante a transigere la controversia, mediante il riconoscimento della debenza di somme determinate in base all’applicazione del c.d. metodo globale di determinazione del prezzo chiuso, in contrasto con la previsione di calcolo con il c.d. metodo a scalare, contenuta nel secondo atto aggiuntivo stipulato dalle parti nel 1996, così avallando una distorsione ex post dell’assetto concorrenziale nel quale si era svolta la gara di aggiudicazione del contratto concessorio e così dando luogo al riconoscimento di un aiuto di Stato nei confronti dell’impresa, illecito, perché contraria alla normativa europea».
9.6. Con il sesto motivo d’appello si censurava «la nullità del lodo per violazione del combinato disposto degli articoli 829, comma 1, numeri 5 e 12, e 823, n. 5, c.p.c.: omessa motivazione; con il suddetto motivo si censurava ulteriormente l’omessa verifica della sussistenza, in capo al delegante, del potere di riconoscere alla controparte somme determinate in base alla suddetto metodo illegittimo di determinazione del prezzo chiuso».
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 3187/2021, pubblicata il 30/4/2021, rigettava l’appello.
10.1. In particolare, con riferimento al primo motivo d’appello, relativo all’incompetenza del collegio arbitrale a decidere la controversia, per aver sollevato la relativa eccezione tempestivamente e per non avervi mai rinunciato, ribadendola anche all’udienza del 2/10/2014, la censura era infondata.
Per la Corte di merito, era vero che l’Amministrazione, con atto notificato il 5/2/2013, aveva declinato la competenza arbitrale, tuttavia, in tale udienza, la dott.ssa COGNOME per conto del Ministero con l’assistenza dell’Avvocatura Generale dello Stato, «ha formalizzato una proposta di definizione bonaria della controversia, sulla base di quella già formulata dalla Holding, con il chiaro intendimento di porre fine, del merito, al contenzioso in atto senza più insistere sulle questioni preliminari processuali già sollevate».
Il richiamo, nel verbale d’udienza, alla circostanza che i difensori delle parti «si riportano a tutti i propri precedenti atti e alle deduzioni, richieste, eccezioni opposizioni dispiegate» non era altro che «una mera clausola di stile».
Per tale ragione, doveva ritenersi che il Ministero, «concordando sostanzialmente con la volontà della controparte di addivenire ad una definizione transattiva della vertenza, abbia rinunciato all’eccezione di incompetenza del collegio arbitrale».
10.2. La Corte d’appello rigettava anche il secondo motivo di gravame, relativo all’omessa motivazione del lodo sulla sussistenza della competenza arbitrale, a fronte della menzionata declinatoria, in quanto tale doglianza era stata espressamente affrontata, leggendosi nel lodo che «stante l’avvenuto riconoscimento della parziale fondatezza nel merito delle domande attore, il collegio deve ritenere superate e quindi implicitamente rinunciate le eccezioni e la domanda riconvenzionale formulate da parte convenuta sia nella prima memoria datata 19/9/2013 che nella seconda datata 6/11/2013, con conseguente sopravvenuta improcedibilità».
10.3. Quanto alla terza doglianza in base alla quale il collegio arbitrale avrebbe dovuto limitarsi a dichiarare cessata la materia del contendere, anziché emettere una pronuncia di condanna, la Corte d’appello ha evidenziato che «le parti, pur dichiarandosi disposte a definire bonariamente la vertenza e precisando le condizioni, anche economiche, per addivenire a tale conclusione, non hanno mai sottoscritto alcun accordo in tal senso né stragiudizialmente dinanzi agli arbitri».
Anzi – sottolineava la Corte di merito – «la RAGIONE_SOCIALE, nel verbale dell’udienza del 2 ottobre 2014, ha dichiarato di aver preso atto della proposta del Ministero ed ha chiesto al collegio di emettere la sentenza di condanna al pagamento dell’importo riconosciuto dal Ministero come dovuto, rinunciando ad ogni ulteriore pretesa formulata nell’atto introduttivo».
Tuttavia, «a detta verbalizzazione non ha fatto seguito alcuna ulteriore dichiarazione da parte dell’odierna parte impugnante e gli arbitri hanno, di conseguenza, assunto la causa in decisione».
Per tale motivo, «il collegio non poteva che assumere una decisione di merito conformemente alle dichiarazioni rese dalle parti,
alla cui volontà si è del tutto uniformato anche in punto di regolamentazione delle spese».
Del resto, rimarca la Corte d’appello, «la pronuncia di cessazione della materia del contendere presuppone che qualsivoglia questione fra le parti – compreso l’eventuale versamento della somma oggetto della proposta conciliativa – sia già stata risolta con la conseguenza che la pronuncia del giudice non sia più necessaria».
10.4. In ordine, poi, alla quarta doglianza, relativa alla dedotta discordanza tra il mandato affidato da parte del Direttore Generale al funzionario incaricato e la stessa dichiarazione con la quale il funzionario si era espresso in udienza, per la Corte d’appello «non si ravvisa la dedotta discrasia tra il mandato ricevuto dalla dott.ssa COGNOME e la dichiarazione dalla stessa effettuata in udienza, atteso che, al contrario, vi è piena rispondenza di contenuti, peraltro ben noti al collegio che ha acquisito la nota del Direttore Generale e ne ha dato conto nella decisione della controversia».
10.5. In ordine poi ai motivi quinto e sesto d’appello, per la Corte di merito il collegio arbitrale si era «limitato a recepire le indicazioni delle parti in ordine alla fondatezza delle reciproche pretese».
Non spettava del resto al collegio arbitrale verificare «se il Direttore Generale avesse o meno il potere di transigere la controversia e di effettuare il riconoscimento di debito».
La censura peraltro risultava «del tutto generica, atteso che nell’atto di impugnazione la carenza di poteri viene meramente adombrata, senza alcuna presa di posizione sul punto in difetto di allegazioni in ordine al soggetto effettivo titolare di quel potere e all’assetto organizzativo interno del Ministero».
Senza contare – aggiungeva la Corte territoriale – che la proposta era stata formalizzata in udienza da parte del Ministero ed era stata «preceduta da un parere dell’Avvocatura dello Stato che, nel
prendere atto che il CTU aveva quantificato in oltre euro 17.000.000,00 l’importo spettante alla RAGIONE_SOCIALE» aveva affermato che risultava «allo stato estremamente difficile contestare la debenza di somme a titolo di prezzo chiuso globale».
Ribadiva la Corte d’appello che peraltro «l’Avvocatura dello Stato, che – oltre a svolgere funzioni consultive – rappresenta ex lege Ministero, era peraltro presente all’udienza in cui è stato effettuato il riconoscimento di debito (conformemente al citato parere) così che le censure svolte in questa sede non appaiono coerenti con il comportamento processuale assunto dalla parte impugnante, che ha creato sia nella controparte che nel collegio un ragionevole affidamento nella correttezza della procedura espletata».
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE spedito in data 30/11/2021 e ricevuto alle ore 12,34.
Successivamente ha proposto ricorso per cassazione il Ministero della cultura spedito in data 30/11/2021, ricevuto il 30/11/2021 alle ore 22,25.
Ha resistito con controricorso la RAGIONE_SOCIALE.
Ha resistito con controricorso il Ministero della cultura.
CONSIDERATO CHE:
Deve premettersi che in data 30/11/2021 è stato spedito il ricorso per cassazione da parte della società, ricevuto alle ore 12,34, che va qualificato come ricorso principale.
Il ricorso del Ministero, invece, risulta spedito il 30/11/2021 e ricevuto in pari data alle ore 22,25, divenendo ricorso incidentale.
Nei procedimenti con pluralità di parti, una volta avvenuta ad istanza di una di esse la notificazione del ricorso per cassazione (nella specie è stato spedito per primo il ricorso del Ministero della cultura), le altre parti, alle quali il ricorso sia stato notificato,
debbono proporre, a pena di decadenza, i loro eventuali ricorsi avverso la medesima sentenza nello stesso procedimento e, perciò, nella forma del ricorso incidentale, ai sensi dell’art. 371 c.p.c., in relazione all’art. 333 dello stesso codice, salva la possibilità della conversione del ricorso comunque presentato in ricorso incidentale e conseguente riunione ai sensi dell’art. 335 c.p.c. – qualora risulti proposto entro i quaranta giorni dalla notificazione del primo ricorso principale, posto che in tale ipotesi, in assenza di una espressa indicazione di essenzialità dell’osservanza delle forme del ricorso incidentale, si ravvisa l’idoneità del secondo ricorso a raggiungere lo scopo (Cass., sez. 6-5, 19/12/2019, n. 33809).
Va anche precisato che i l principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso, fermo restando che tale modalità non è essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale.
Nella specie va trattato in via prioritaria il ricorso incidentale, in quanto il ricorso principale censura la liquidazione delle spese del giudice di appello.
1.1. Con il primo motivo di impugnazione incidentale il ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione di legge: combinato disposto degli articoli 829, primo comma, numeri 1 e 4, e 817, c.p.c.; nonché dell’art. 1362 e seguenti c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Per il ricorrente, dunque risultava che l’Amministrazione aveva declinato la competenza arbitrale con atto notificato in data
14/2/2013 e che aveva insistito nell’eccezione di incompetenza, sin dalla prima memoria. Tale eccezione era stata poi ribadita nella seconda memoria dinanzi a collegio arbitrale.
Nella riunione del collegio arbitrale del 2/10/2014, su invito del collegio, «i difensori delle parti ribadivano, confermandole, le domande e le eccezioni formulate nel corso del giudizio arbitrale».
Tant’è vero che nel verbale di udienza si leggeva che i difensori delle parti «illustrano diffusamente le ragioni di fatto e di diritto posti a base delle proprie domande e si riportano a tutti i propri precedenti atti e alle deduzioni, richieste, eccezioni e opposizioni ivi spiegate, chiedendo di dare parola ai procuratori speciali qui presenti».
Dopo la precisazione delle conclusioni era intervenuta la dichiarazione della dott.ssa COGNOME funzionario del Ministero, con esibizione dell’atto di delega conferitole dal Direttore Generale della direzione per il paesaggio, le belle arti, architettura e le arti contemporanee, con nota del 30/9/2014.
Parte convenuta, quindi, dichiarava di riconoscere la parziale fondatezza delle pretese avanzate della parte attrice con la domanda arbitrale.
Era poi intervenuta la dichiarazione di parte attrice la quale, preso atto della dichiarazione di parte convenuta, ne chiedeva «la condanna al pagamento degli importi dalla stessa riconosciuti come dovuti, rinunciando alle ulteriori pretese fatte valere con la domanda arbitrale».
Il collegio aveva reputato implicitamente avvenuta la rinuncia alle eccezioni e alla domanda riconvenzionale formulate da parte convenuta.
In realtà, ad avviso della ricorrente, «nessuna rinuncia esplicita era mai stata formulata dall’Amministrazione».
La nota del Direttore Generale in data 30/9/2014, unico atto idoneo a manifestare la volontà dell’Amministrazione, «conteneva una mera delega a formalizzare nei confronti della controparte una proposta transattiva (e, dunque, non un riconoscimento della domanda, nella conclusione di un accordo in sede processuale)».
Ed infatti i difensori delle parti si erano riportati alle domande ed alle eccezioni già spiegate.
La Corte d’appello ha rigettato il gravame ritenendo che la dottoressa COGNOME, per conto del Ministero, all’udienza del 2/10/2014, aveva formalizzato una proposta di definizione bonaria della controversia, sulla base di quella già formulata dalla Holding, «con il chiaro intendimento di porre fine, nel merito, al contenzioso in atto senza più insistere sulle questioni preliminari processuali già sollevate».
Per il ricorrente, invece, la Corte d’appello, così statuendo, «è incorsa, innanzitutto, in una palese violazione delle disposizioni contenute negli articoli 1362 e seguenti del codice civile, ritenendo che la ‘proposta di definizione bonaria della controversia’ o ‘transattiva’ costituisce fonte di rinuncia implicita all’eccezione di incompetenza formulata nelle difese dell’Amministrazione».
In realtà, per il Ministero, tale proposta, formulata subito dopo l’espressa conferma delle conclusioni processuali da parte della difesa dell’Amministrazione, «per porre nel nulla queste ultime avrebbe dovuto contenere una rinuncia espressa al loro contenuto».
Inoltre, anche ove si fosse potuta ipotizzare una rinuncia implicita all’eccezione di incompetenza degli arbitri, «essa sarebbe dovuta consistere in una manifestazione di volontà incompatibile con la predetta eccezione».
Tale manifestazione, però, si poteva ben interpretare «come finalizzata al raggiungimento di un accordo, solo nella subordinata
ipotesi di mancato accoglimento dell’eccezione in questione, o comunque al di fuori del giudizio arbitrale e, in ogni caso, solo in caso di accettazione della controparte».
Tale accettazione tuttavia non vi era stata, tant’è vero che la precedente proposta in data 7/8/2014 della RAGIONE_SOCIALE era difforme del contenuto, in quanto avente ad oggetto il pagamento della somma di euro 11.300.000,00, anziché di euro 11.500.000,00.
Con il secondo motivo di impugnazione incidentale il ricorrente principale deduce la «violazione e/o falsa applicazione di legge: articoli 829, comma 1, numeri 5 e 12 e 823, n. 5, c.p.c., in relazione all’art. 1711 c.c. e all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Con il quarto motivo di impugnazione del lodo si era evidenziata la nullità di quest’ultimo in quanto il collegio arbitrale, ritenuta la propria competenza, «avrebbe dovuto comunque espressamente motivare sul contenuto e l’efficacia delle dichiarazioni rese in udienza dalle parti».
In particolare, a fronte di un incarico di intervenire in udienza, facendosi latore di una proposta transattiva, il funzionario dell’Amministrazione aveva invece dichiarato di «riconoscere la parziale fondatezza delle pretese avanzate della parte attrice con la domanda arbitrale», affermando come dovuti gli importi successivamente precisati e verbale stesso.
Tale dichiarazione -a giudizio del ricorrente -«non corrispondeva, evidentemente, al mandato che era stato conferito al rappresentante dell’Amministrazione, il collegio arbitrale avrebbe dovuto porsi il problema della sua validità ed efficacia, essendo i limiti del mandato ben conoscibile adesso alla parte attrice».
La Corte d’appello, sul punto, ha ritenuto non ravvisabile «la dedotta discrasia tra il mandato ricevuto dalla dottoressa COGNOME
e la dichiarazione della stessa fatta all’udienza», essendovi piena rispondenza di contenuti.
Per il ricorrente, dunque, la Corte avrebbe violato l’art. 1711 c.c., a mente del quale il mandatario non può eccedere i limiti fissati dal mandato.
Per il Ministero, quindi, «le dichiarazioni rese a verbale dalla dottoressa COGNOME avente ad oggetto il riconoscimento parziale della domanda di controparte, erano del tutto difformi dalla delega alla mera formulazione della proposta transattiva, impartita dal Direttore Generale».
Il collegio arbitrale non avrebbe potuto emettere il lodo.
I due motivi di impugnazione incidentale, che vanno esaminati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono inammissibili.
3.1. Deve muoversi dalla circostanza che già in data 7/8/2014, dopo che il CTU aveva depositato la relazione scritta, la RAGIONE_SOCIALE aveva proposto di definire il contenzioso «con la tacitazione di ogni pretesa avanzata nel giudizio arbitrale, mediante il pagamento da parte del Ministero dell’importo di euro 11.500.000,00 oltre al rimborso del 50% delle spese arbitrari e della espletata consulenza, con compensazione delle spese legali».
3.2. A tale proposta ha fatto seguito la nota ministeriale del 30/9/2014 con l’esito del parere favorevole dell’Avvocatura dello Stato che evidenziava il vantaggio per l’erario della transazione, stante il consolidamento dell’orientamento di legittimità in materia di prezzo chiuso favorevole a Bonifica (Cass. n. 7917 del 2012).
Questo era il tenore della proposta del Ministero: «il Ministero per i beni e le attività culturali, direzione generale per il paesaggio le belle arti l’architettura e l’arte contemporanea, considerato il parere dell’Avvocatura generale dello Stato espresso con riferimento alla
proposta transattiva formulata dalla RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE con lettera prot. n. 1577/14 del 7 agosto 2014, che si allega in copia, dichiara la disponibilità dell’Amministrazione di riconoscere, saldo e stralcio e transazione di ogni pretesa avanzata dalla parte attrice con la domanda arbitrale, l’importo complessivo ed onnicomprensivo di euro 11.300.000 altre al rimborso del 50% delle competenze arbitrari (ivi compresa la CTU), con rinuncia ad ogni pretesa creditoria fatta valere con la domanda riconvenzionale, e con integrale compensazione delle spese legali con rinuncia al vincolo di solidarietà ex art. 68 L.P . oltre: si riconosce come dovuto detto importo di 11.300.000,00 a parziale riconoscimento delle pretese tutte avanzate con i quesiti 1, 2,3,4,5,67 e 8 dell’originaria domanda arbitrale, di cui euro 4.787.535,48 a titolo di corrispettivo capitale dovuto a fronte delle pretese di cui ai soli quesiti 1 e 3, ed il residuo importo di euro 6.512.464,52, a titolo di interessi legali e moratori riferite al corrispettivo capitale di cui soli quesiti 1 e 3, nulla riconoscendo a fronte di ogni altra pretesa avanzata. Tale manifesta disponibilità dovrà considerarsi del tutto inesistente, inefficace, e comunque integralmente revocata, nel caso in cui la parte attrice non rinunci conseguentemente ad ogni altra pretesa fatta valere con ogni domanda arbitrale nel presente giudizio».
3.3. All’udienza del 2/10/2014 dinanzi al collegio arbitrale, in primo luogo, i difensori si riportavano ai propri scritti difensivi. Si legge infatti nel verbale, come trascritto ritualmente che «i difensori delle parti illustrano diffusamente le ragioni di fatto e di diritto poste a base delle proprie domande e si riportano tutti ai propri precedenti atti alle deduzioni, richieste, eccezioni e opposizioni dispiegate, chiedendo di dare parola ai procuratori speciali qui presenti».
Subito dopo si rinviene nel verbale: «parte convenuta, così come sopra rappresentata, dichiara di riconoscere la parziale fondatezza
delle pretese avanzate dalla parte attrice con la domanda arbitrale, così come precisato nella seconda memoria, e, in relazione a tali pretese dichiara di riconoscere come dovuti seguenti importi: l’importo netto di euro 11.300.000 a parziale riconoscimento delle pretese avanzate con i quesiti numeri 1 e 3 di cui euro 4.787.535,48 a titolo di corrispettivo capitale ed il residuo importo pari ad euro 6.512.464,52 a titolo di interessi; l’importo pari al 50% delle spese di funzionamento del collegio, compresi i compensi spettanti agli arbitri e al segretario, … con compensazione delle spese di difesa a parziale riconoscimento del quesito n. 6. La parte attrice prende atto delle dichiarazioni della parte convenuta ne chiede la condanna al pagamento degli importi dalla stessa riconosciuti come dovuti, rinunciando alle ulteriori pretese fatte valere con la domanda arbitrale».
4. A questo punto, il collegio arbitrale emetteva il lodo n. 76 del 2014 rilevando che «preso atto delle dichiarazioni formulate dalle parti in causa all’udienza del 2 ottobre 2014, constatato in particolare l’intervenuto riconoscimento da parte dell’Amministrazione resistente della doverosità del pagamento degli importi di cui alla dichiarazione della parte pubblica contenuta nella nota del 30/9/2014, ribadita a verbale in data 2/8/2014, e quindi superata ed assorbita ogni altra questione, ritiene all’unanimità di dover provvedere alla condanna a carico dell’Amministrazione resistente nei limiti e termini precisati dalla rappresentante della parte pubblica alla predetta udienza del 2 ottobre 2014, altresì dichiarando l’improcedibilità di tutte le restanti domande inerenti le ulteriori pretese articolate dalla parte privata nella sede arbitrale con i quesiti numeri 1, 2, 3 4 e 5, stante l’avvenuta rinunzia alle stesse. In forza di tutto quanto sopra, e, in particolare stante l’avvenuto riconoscimento della parziale fondatezza nel merito delle domande
attrici, il collegio deve ritenere superate e quindi implicitamente rinunciate le eccezioni e la domanda riconvenzionale formulate da parte convenuta sia nella prima memoria datata 19/9/2013 che nella seconda data 6/11/2013, con conseguente sopravvenuta improcedibilità».
La Corte d’appello, come detto, ha rigettato il gravame proposto dal Ministero, attraverso un esame accurato e dettagliato delle dichiarazioni di entrambe le parti, così come trascritte nel verbale di udienza dinanzi al collegio arbitrale in data 2/10/2014.
Deve sul punto premettersi che per questa Corte, in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia deciso sull’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, al fine di verificare se la sentenza medesima sia adeguatamente e correttamente motivata in relazione ai motivi di impugnazione del lodo, il giudice di legittimità non può apprezzare direttamente la pronuncia arbitrale, e può esaminare solo la decisione emessa nel giudizio di impugnazione, con la conseguenza che il sindacato di legittimità va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità della motivazione della sentenza che ha deciso sull’impugnazione del lodo (Cass., sez. 6-1, 7/2/2018 , n. 2985; Cass., sez.1, 15/3/2007, n. 6028).
Pertanto, la denuncia di nullità del lodo arbitrale postula, in quanto ancorata agli elementi accertati dagli arbitri, l’esplicita allegazione dell’erroneità del canone di diritto applicato rispetto a detti elementi e non è, pertanto, proponibile in collegamento con la mera deduzione di lacune d’indagine e di motivazione, che potrebbero evidenziare l’inosservanza di legge solo all’esito del riscontro dell’omesso o inadeguato esame di circostanze di carattere decisivo (Cass., sez. 1, 12/11/2018, n. 28997; Cass., sez. 1, 12/9/2014, n. 19324).
Il sindacato di legittimità è dunque diretto al riscontro della conformità alla legge della sentenza e della congruità della motivazione (Cass. sez. 1, 18/10/2013, n. 23675). La Corte di cassazione può, infatti, esaminare solo la pronuncia emessa nel giudizio di impugnazione del lodo, allo scopo di verificare se essa sia adeguatamente correttamente motivata in relazione ai profili di censura del lodo, con la conseguenza che il sindacato di legittimità va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità legge e della congruità dei motivi della sentenza resa sul gravame (Cass., sez. 2, 26/5/2015, n. 10809).
Altra precisazione fondamentale è quella per cui è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione, formulato avverso la sentenza della Corte territoriale ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., con il quale il ricorrente riproponga questioni di fatto già oggetto della decisione arbitrale, atteso che il controllo della Suprema Corte non può mai consistere nella rivalutazione dei fatti, neppure in via di verifica della adeguatezza e congruenza dell’iter argomentativo seguito dagli arbitri (Cass., sez. 1, 26/7/2013, n. 18136; Cass., sez. 6-1, 7/2/2018, n. 2985).
Nella specie, invece, il ricorrente, in entrambi i motivi di ricorso, chiede a questa Corte proprio una rivalutazione dei fatti, quando tutti gli elementi istruttori sono stati adeguatamente valutati dalla Corte d’appello, in sede di impugnazione del dolo. Ciò non è possibile in questa sede.
7.1. Ed infatti, la Corte territoriale ha ritenuto che, proprio alla stregua dell’originaria proposta della Holding del 7/8/2014 e del contenuto della delega fatta dal Ministero in favore del funzionario, oltre che del tenore del verbale d’udienza del 2/10/2014, il Ministero aveva rinunciato all’eccezione di incompetenza del collegio arbitrale, oltre che alla domanda riconvenzionale.
Ha chiarito la Corte di merito che in tale udienza «la dott.ssa COGNOME per conto del Ministero e con l’assistenza dell’Avvocatura generale dello Stato, ha formalizzato una proposta di definizione bonaria della controversia, sulla base di quella già formulata dalla Holding, con il chiaro intendimento di porre fine, nel merito, al contenzioso in atto senza più insistere sulle questioni preliminari processuali già sollevate».
Non solo, ma la Corte d’appello ha chiarito anche il contenuto della porzione del verbale precedente alle dichiarazioni rese dalla dott.ssa COGNOME peraltro assistita in udienza dall’Avvocatura generale dello Stato.
La frase, contenuta nel verbale d’udienza, per cui i difensori si riportavano «a tutti i propri precedenti atti e alle deduzioni, richieste, eccezioni e opposizioni dispiegate», non poteva che ridursi e ridimensionarsi «ad una mera clausola di stile», proprio in quanto la COGNOME «aveva ricevuto l’incarico di formulare la proposta transattiva, poi recepita dal collegio».
Di qui l’affermazione per cui doveva ritenersi «che il Ministro, concordando sostanzialmente con la volontà della controparte di addivenire alla definizione transattiva della vertenza, abbia implicitamente rinunciato all’eccezione di competenza del collegio arbitrale».
Non v’è dubbio, dunque, che la Corte d’appello, con adeguata ed esaustiva motivazione, abbia spiegato le ragioni per cui ha ritenuto rinunciate sia l’eccezione di incompetenza che la domanda riconvenzionale articolata dal Ministero.
Non è consentito, in questa sede, sovrapporre una diversa valutazione a quella già effettuata dalla Corte d’appello nel giudizio di impugnazione del lodo.
Le medesime considerazioni valgono anche in ordine alla prospettata divergenza tra l’atto di transazione, cui sarebbe stata facultata la funzionaria del Ministero, e il contenuto del verbale d’udienza, nel quale si dà riconosciuta la parziale fondatezza della domanda presentata dalla società.
Anche questo caso, la Corte d’appello ha affermato con estrema chiarezza che «non si ravvisa la dedotta discrasia tra il mandato ricevuto dalla dottoressa COGNOME e la dichiarazione dalla stessa effettuata in udienza, atteso che, al contrario, vi è piena rispondenza di contenuti, peraltro ben noti al collegio che ha acquisito la nota del Direttore Generale e ne ha dato conto nella decisione della controversia».
Allo stesso modo, la Corte d’appello ha ritenuto insussistenti i presupposti per la dichiarazione della cessazione della materia del contendere, in luogo della pronuncia di condanna.
La Corte d’appello non solo ha ritenuto che le parti non avessero mai sottoscritto alcun accordo in tal senso, ma ha anche aggiunto che la RAGIONE_SOCIALE, nel verbale dell’udienza del 2/10/2014, ha dichiarato di avere preso atto della proposta del Ministero ed ha chiesto al collegio di emettere la sentenza di condanna al pagamento dell’importo riconosciuto dal Ministero come dovuto, rinunciando ad ogni ulteriore pretesa formulata nell’atto introduttivo.
Tuttavia, precisava la Corte di merito che «a detta verbalizzazione non ha fatto seguito alcun ulteriore dichiarazione da parte dell’odierna parte impugnante e gli arbitri hanno, di conseguenza, assunto la causa in decisione».
La decisione è stata assunta, quindi, conformemente alle dichiarazioni rese dalle parti, non potendo dichiararsi la cessazione della materia del contendere in quanto la stessa «presuppone che qualsivoglia questione tra le parti – compreso l’eventuale versamento
della somma oggetto della proposta conciliativa – sia stata già risolta con la conseguenza che la pronuncia del giudice non sia più necessaria».
Anche in questo caso, vi è stata una compiuta ed articolata analisi da parte della Corte d’appello, con un giudizio di fatto che non può essere messo in discussione di nuovo in questa sede.
Costituisce peraltro costante insegnamento di questa Corte quello per cui la cessazione della materia del contendere presuppone che le parti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento della situazione dedotta in controversia e sottopongano al giudice conclusioni conformi, spettando peraltro al giudice di merito ogni valutazione sul punto (Cass., sez. 6-5, 10/12/2013, n. 27598; Cass., sez. 3, 8/7/2010, n. 16150; Cass., sez. 5, 18/1/2006, n. 909).
Pertanto, l’allegazione di un fatto sopravvenuto, assunto da una sola parte come idoneo a determinarla – e oggetto di contestazione dalla controparte – comporta la necessità che il giudice ne valuti l’idoneità a determinare cessata la materia del contendere e, qualora non la reputi sussistente, pronunci su tutte le domande ed eccezioni delle parti (Cass., sez. L, 30/1/2014, n. 2063).
Vale il principio generale per cui nel processo civile, la pronuncia di cessazione della materia del contendere deve essere adottata anche d’ufficio, senza che sia necessario un espresso accordo delle parti, atteso che, indipendentemente dalle conclusioni da queste ultime formulate, spetta al giudice valutare l’effettivo venir meno dell’interesse delle stesse ad una decisione sul merito della vertenza (Cass., sez. 2, 23/7/2019, n. 19845, in motivazione; Cass., sez. 5, 4/8/2017, n. 19568; Cass., 16/3/2015, n. 5188; Cass., 8/7/2010, n. 16150).
La cessazione della materia del contendere si ha per effetto della sopravvenuta carenza d’interesse della parte alla definizione del
giudizio, postulando che siano accaduti nel corso del giudizio fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e da rendere incontestato l’effettivo venir meno dell’interesse sottostante alla richiesta pronuncia di merito, senza che debba sussistere un espresso accordo delle parti anche sulla fondatezza (o infondatezza) delle rispettive posizioni originarie nel giudizio, perché altrimenti non vi sarebbero neppure i presupposti per procedere all’accertamento della soccombenza virtuale ai fini della regolamentazione delle spese che, invece, costituisce il naturale corollario di un tal genere di pronuncia, quando non siano le stesse parti a chiedere congiuntamene la compensazione delle spese (Cass., sez. 2, 31/10/2023, n. 10553).
11. Con un unico motivo di ricorso principale la società RAGIONE_SOCIALE deduce la «violazione e/o falsa applicazione di legge ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. in relazione agli articoli 91, 92 e 132, comma 2, n. 4, c.p.c. ed art. 4 del decreto ministeriale del 10 marzo 2014 n. 55, come modificato dal decreto del Ministro della giustizia n. 37 dell’8 marzo 2018».
In particolare, la sentenza impugnata ha condannato il Ministero al pagamento della somma di euro 13.500,00, oltre accessori di legge e spese forfettarie nella misura complessiva del 15%.
Il Ministero, nell’atto di impugnazione del lodo dinanzi alla Corte d’appello, ha affermato che «ai fini della prenotazione a debito del contributo unificato, secondo le vigenti disposizioni, si dichiara che il valore della controversia è di oltre euro 11.000.000, corrispondente a un contributo pari a euro 2529».
Se così è, l’art. 4 del decreto ministeriale del 10/3/2014, n. 55, come modificato dal decreto del Ministero della giustizia n. 37 dell’8/3/2018, stabilisce che «il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate, che, in applicazione dei parametri generali,
possono essere aumentati di regola sino all’80%, ovvero possono essere diminuiti in ogni caso non oltre il 50%».
Nella specie, la ricorrente indica con precisione i valori minimi, medi e massimi delle varie fasi processuali, e segnatamente il minimo viene indicato in euro 7760 per lo studio, in euro 4511 per la fase introduttiva, in euro 14.555 per la fase istruttoria ed in euro 12.902,00 per la fase decisionale, per un importo complessivo di euro 39.728,00.
La ricorrente reputa applicabile anche l’aumento del 33% per l’ipotesi di «difese manifestamente fondate», giungendo quindi ad un aumento di euro 13.118,00, per un totale di euro 52.838,00.
Si evidenzia, peraltro, che ai sensi dell’art. 6 del decreto ministeriale n. 55 del 2014, per le cause di valore superiore ad euro 520.000,00, «alla liquidazione dei compensi per le controversie di valore superiore a euro 520.000,00 si applica di regola il seguente incremento percentuale: per le controversie di valore superiore ad euro 8.000.000 fino al 30% in più dei parametri numerici previsti per le cause di valore sino ad euro 8.000.000».
Pertanto, ai sensi dell’art. 6 del D.M. n. 55, del 2014, il valore medio sarebbe quello di euro 15.520 per la fase di studio, di euro 9022 per la fase introduttiva, di euro 20.792 della fase istruttoria, di euro 25.805 nella fase decisionale.
Il tutto per un totale di euro 71.139 applicando i valori medi dei compensi.
Sarebbe emersa, dall’altro, la circostanza di cui al comma 8 dell’art. 4 del D.M. n. 55 del 2014, che stabilisce il compenso da liquidare giudizialmente a carico del soccombente costituito con aumento fino ad 1/3 quando «le difese della parte vittoriosa sono risultate manifestamente fondate».
L’importo delle spese legali, in luogo di quello di euro 13.500,00, sarebbe quello di euro 94.315,00.
Inoltre, ad avviso della ricorrente, la valutazione effettuata dalla Corte d’appello non sarebbe «supportata da alcuna motivazione», pur discostandosi in misura significativa dall’effettivo valore da liquidare, risultando «addirittura 7 volte inferiore valori stabiliti da D.M. 55».
Tale liquidazione operata in concreto dal giudice non rispetta neppure i «valori minimi» di cui alla tabella, per cui tale vizio determina il pregiudizio per la società.
In particolare, aggiunge la società, che «la liquidazione operata dalla Corte di appello non sia contenuta entro i limiti delle tariffe medesime, essendo decisamente inferiori anche ai valori minimi previsti dal D.M. 55».
Il tutto, in assenza di motivazione espressa.
Il motivo è fondato nei termini di cui in motivazione.
Effettivamente, alla stregua dell’importo delle somme in contestazione, di valore superiore ad euro 11.000.000,00, i minimi tariffari sono costituiti da euro 7760,00 per la fase di studio, da euro 4511 per la fase introduttiva, da euro 14.555 per la fase istruttoria e da euro 12.902,00 per la fase decisionale.
La Corte d’appello, nella decisione impugnata, si è spinta a liquidare i compensi professionali sotto i limiti tariffari.
Invero, si rileva che alla liquidazione delle spese del giudizio d’appello non possono applicarsi i criteri del D.M. n. 55 del 2014 (prima delle modifiche di cui al DM n. 37 del 2018), con la possibilità per il giudice di liquidare anche sotto i limiti tariffari.
La difesa del Ministero fa riferimento a pronunce di questa Corte, che però si riferiscono alla liquidazione delle spese a seguito del D.M. n. 55 del 2014, ma prima del D.M. n. 37 del 2018.
Ed infatti, con le modifiche apportate dal D.M. n. 37 del 2018 non è più consentito al giudice di liquidare le spese sotto i limiti tariffari (Cass., sez. 2, 13/4/2023, n. 9815), in quanto aventi carattere inderogabile.
Si è chiarito che l’art. 4, comma 1, del D.M. n. 55 del 2014, come modificato dal D.M. n. 37 del 2018, stabilisce che «il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate, che, in applicazione dei parametri generali, possono essere aumentati fino al 50% , ovvero possono essere diminuiti in ogni caso non oltre il 50%».
Si utilizza, dunque, l’espressione «in ogni caso», proprio a sancire l’inderogabilità dei limiti minimi.
La precedente disposizione, invece, prevedeva che la riduzione non poteva «di regola» superare il 50%. Proprio per tale ragione questa Corte era giunta a sostenere che la quantificazione del compenso delle spese processuali fosse espressione di un potere discrezionale riservato al giudice, e che la liquidazione, se contenuta entro i valori tabellari minimi e massimi, non richiedeva un’apposita motivazione e non era sottoposta al controllo di legittimità, dovendosi invece giustificare la scelta del giudice di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere (Cass., n. 28325 del 2022; n. 14198 del 2022; n. 19989 del 2021; n. 89 del 2021).
Si è così ritenuto (Cass. n. 9815 del 13/4/2023) che «a tale approccio interpretativo, tuttora valido per le spese processuali e i compensi professionali regolati da D.M. 55/2014, non può darsi continuità anche per quelli sottoposti al regime introdotto dal D.M. 37/2018: non è più consentita la liquidazione di importi risultanti da una riduzione superiore alla percentuale massima del 50% dei parametri medi e ciò per effetto di una scelta normativa intenzionale, volta a circoscrivere il potere del giudice di quantificare il compenso
o le spese processuali – e a garantire, attraverso una siffatta flessibilità dei parametri tabellari, l’uniformità e la prevedibilità delle liquidazioni a tutela del decoro della professione e delle livello della prestazione professionale».
Si è stabilito, poi, che ai fini della liquidazione in sede giudiziale del compenso spettante all’avvocato nel rapporto col proprio cliente (ove ne sia mancata la determinazione consensuale), così come ai fini della liquidazione delle spese processuali a carico della parte soccombente o del compenso del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, dopo le modifiche degli artt. 4, comma 1 e 12, comma 1, del d.m. n. 55 del 2014, apportate dal d.m. n. 37 del 2018, il giudice non può in nessun caso diminuire oltre il 50 per cento i valori medi di cui alle tabelle allegate (Cass., sez. 2, 19/4/2023, n. 10438). Le medesime considerazioni valgono anche con riferimento alle modificazioni al D.M. n. 55 del 2014 introdotte mediante il D.M. n. 147 del 2022 (Cass., sez. 2, 22/8/2023, n. 24993).
Devono necessariamente applicarsi i criteri di cui al D.M. n. 37 del 2018 in quanto si è ritenuto che tali parametri vanno applicati ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto a condizione che a tale data non sia stata ancora completata la prestazione professionale, ancorché essa abbia avuto inizio e si sia in parte svolta nella vigenza della pregressa regolamentazione, atteso che l’accezione omnicomprensiva di “compenso” evoca la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata (Cass., sez. L, 26/10/2018, n. 27233).
12.1. Deve poi aggiungersi che in tema di compensi professionali in favore degli avvocati per gli affari di valore superiore ad Euro 520.000,00, il d.m. n. 55 del 2014, nella parte in cui prevede che
alla relativa liquidazione si applica, “di regola”, un incremento fino al 30% dei parametri numerici contemplati dai relativi scaglioni di riferimento (ed individuati, nella specie, dall’art. 22 del cit. d.m.), impone uno specifico apporto motivazionale, esplicativo delle ragioni sottese a tale scelta, nel solo caso in cui il giudice reputi di non disporre alcun incremento percentuale, restando egli, al contrario, libero di stabilire un aumento in misura anche superiore al massimo del 30%, applicando i criteri generali di cui all’art. 4 del medesimo d.m. n. 55, con decisione non censurabile in sede di legittimità (Cass., sez. 2, 20/10/2021, n. 29170).
13. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che