Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 18024 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 18024 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 1634-2022 proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 897/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/01/2021 R.G.N. 1327/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Fatti di causa
Oggetto
R.G.N. 1634/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 02/04/2025
CC
La Corte d’appello di Milano, con la sentenza impugnata, giudicando in sede di rinvio a seguito della ordinanza della Corte di cassazione n.27871/2019, ha condannato Poste italiane spa a corrispondere a COGNOME NOME le retribuzioni dalla data della sentenza di conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato (26/5/2005) sino all’effettivo ripristino del rapporto di lavoro, oltre interessi legali e rivalutazione dal dovuto al saldo.
La Corte, per quanto ancora di interesse, ha rilevato che le spese processuali dovevano essere liquidate a favore della lavoratrice con compensazione di un terzo considerato che gli orientamenti giurisprudenziali in materia di contratto a termine non erano risultati sempre univoci; ha aggiunto che le stesse spese erano da liquidare negli importi di cui al dispositivo tenuto conto del valore indeterminabile della causa e dell’assenza di attività istruttoria, secondo la normativa vigente al tempo in cui l’attività processuale stessa era stata compiuta ed aveva trovato esaurimento, ciò in applicazione dell’orientamento di legittimità di cui alla sentenza n. 23318/2012 la quale aveva sancito che ‘ il giudice che deve liquidare le spese processuali relativa ad u n’attività difensiva oramai esaurita (nella specie con decisione nel merito) deve applicare la normativa vigente al tempo in cui l’attività stessa è stata compiuta sicchè per l’attività conclusa nella vigenza del DM 127 del 2004, deve applicare le tariffe da questo previste e non i parametri sopravvenuti ai sensi del DM n. 140 del 2012’.
Sulla scorta di tali premesse, la Corte d’appello ha quindi liquidato le spese del giudizio di primo grado in € 1800, le spese del giudizio di secondo grado in € 3000, le spese del primo giudizio avanti la Corte di cassazione in € 2600, le spese del primo giudizio di rinvio in € 2000, le spese del secondo giudizio davanti alla Corte di cassazione in € 1500 e quelle del secondo
giudizio di rinvio in € 2000, il tutto oltre a spese generali e accessori di legge, compensando nel resto.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione COGNOME NOME con quattro motivi di ricorso ai quali ha resistito Poste italiane con controricorso.
Sono state depositate memorie prima dell’udienza; per la lavoratrice si è costituto un nuovo difensore in sostituzione del precedente deceduto. Il collegio ha autorizzato il deposito della motivazione nel termine di 60 giorni previsto dalla legge.
Ragioni della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso si deduce ex art. 360 n. 3 e 4 c.p.c. la violazione dell’art. 11 preleggi, degli artt. 91 e 336 c.p.c., 28 D.M. 55/14, 132 comma 2 n. 4 e 118 disp. att. c.p.c. posto che la Corte di appello con motivazione illogica e contraddittoria, sembrerebbe aver applicato per tutte le fasi del giudizio il tariffario di cui al D.M. 127/2004, mentre avrebbe dovuto applicare il tariffario vigente ratione temporis al momento della conclusion e dell’attività difensiva.
1.1. Il motivo di ricorso è infondato. Come risulta dalle premesse in fatto la Corte di appello ha fatto applicazione testuale del criterio secondo cui nella liquidazione delle spese del giudizio devono applicarsi le tariffe in base alla ‘normativa vigente al tempo in cui l’attività processuale stessa è stata compiuta’; mentre il riferimento al DM 127 del 2004 è solamente contenuto nella sentenza di legittimità n. 23318/2012, richiamata dalla Corte di appello, che ribadisce il corretto principio generale della applicazione delle tariffe vigenti al tempo dell’esaurimento dell’attività difensiva considerata.
1.2. Lo stesso principio risulta riaffermato anche dalla successiva giurisprudenza avendo questa Corte (n. 17577/2018) statuito che ‘i nuovi parametri di liquidazione delle spese processuali, in base ai quali vanno commisurati i
compensi forensi ai sensi dell’art. 41 del d.m. n. 140 del 2012 in luogo delle abrogate tariffe professionali, si applicano in tutti i casi in cui la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del citato decreto purché, a tale data, l’attività difensiva non sia ancora completata; invece, essi non operano, quando la liquidazione venga effettuata dopo l’esaurimento dell’attività difensiva, come nel caso della liquidazione delle spese relative ad un grado o fase precedente da parte del giudice della impugnazione o del rinvio’.
1.3. La sentenza gravata ha pertanto statuito correttamente sul punto e si sottrae alle censure sollevate con lo stesso motivo. In alcun modo risulta del resto che, in concreto, la Corte non si sia attenuta allo stesso principio enunciato, né la censura, sollevata peraltro in modo dubitativo, ne offre una qualche dimostrazione.
2.- Con il secondo motivo di ricorso si deduce ex art. 360 nn. 3, 4, 5, c.p.c. la violazione degli artt. 91, 384 e 75 disp. att. c.p.c., artt. 2, 4, 5 d.m. 55/14 come modificato dal d.m. 37/18, nonché art. 132 comma 2 n. 4 e 118 disp. att. c.p.c.: la Corte di appello, disattendendo l’ordinanza rescindente aveva liquidato tutte le spese in modo unitario e non aveva distinto tra onorari, diritti, spese e fasi processuali, né aveva motivato sulle voci di spesa eliminate o ridotte rispetto agli importi esposti nella Nota spese.
3.- Con il terzo motivo di ricorso si deduce ex art 360 nn. 3, 4, 5, c.p.c. la violazione degli artt. 91, 112, 115, 384, 75 disp. att. c.p.c., art. 2233 c.c., artt. 2, 4, 5 d.m. 55/14 come modif. d.m. 37/18, ovvero in via subordinata dell’art.24 della leg ge 794/1942 e degli artt. 1, 4, 5 e 6 del DM n. 127/2004: la Corte di appello, pur dichiarando di aver liquidato le spese considerando il valore indeterminabile della causa, ha liquidato
importi inferiori rispetto ai parametri minimi previsti dall’art. 4, co. 1, D.M. 55/14, in relazione allo scaglione stabilito dall’art. 5, co. 6 di detto Decreto. ‘ Vizio di ultra o extrapetizione o di motivazione, omessa ovvero illogica ed apparente e, quindi, assente, con conseguente nullità della sentenza ai sensi degli artt. 132, comma 2, n. 4 o e 118 disp. att. CPC in relazione all’utilizzo di uno scaglione di valore inferiore rispetto sia ai predetti scaglioni, che a quelli indicati nella Nota spese ‘ .
3.1. I motivi secondo e terzo possono esaminarsi unitariamente per connessione e vanno dichiarati inammissibili.
Intervenendo sulla stessa materia questa Corte (Cass. n.27569/2020) ha chiarito che qualora si contesti la liquidazione con cui il giudice di merito ha proceduto ad una liquidazione globale delle spese – senza mettere la parte interessata in grado di controllare se abbia rispettato i limiti delle relative tabelle e di poter denunciare specifiche violazioni della legge o delle tariffe – ai fini dell’impugnazione deve pur sempre ricorrere un interesse giuridicamente tutelato in favore della parte; nel senso che questa deve poter conseguire una concreta utilità e poter rimuovere un danno effettivo e non limitarsi alla declamazione di teoriche esigenze di esattezza giuridica, con la conseguenza che è inammissibile, per carenza d’interesse, una impugnazione in cui la parte vittoriosa non provi specificamente il pregiudizio subito per la liquidazione globale, siccome attributiva di una somma inferiore ai minimi inderogabili (Cass. 8 marzo 2007 n. 5318).
E, ai fini della specificità del motivo, si è affermato il consequenziale principio secondo cui ‘ il superamento da parte del giudice dei limiti minimi e massimi della tariffa forense nella liquidazione delle spese giudiziali configura un vizio in iudicando e pertanto, per l’ammissibilità della censura, è necessario che nel ricorso per cassazione siano specificati i singoli conteggi
contestati e le corrispondenti voci della tariffa professionale violate al fine di consentire alla Corte il controllo di legittimità senza dover espletare una inammissibile indagine sugli atti di causa (Cass. 25/2/2020, n. 4990, che richiama Cass. n. 270 del 11/1/2016; Cass. n. 10409 del 20/5/2016; Cass. n. 22983 del 29/10/2014; Cass. n. 3651 del 16/2/2007).
I motivi di ricorso non soddisfano questa esigenza, perché se è vero che la ricorrente ha denunciato la liquidazione globale delle spese giudiziali, trascrivendo la nota spese e riportando le singole voci liquidabili per diritti ed onorari o per compensi professionali, è altrettanto vero che ella lo ha fatto tenendo conto di un erroneo parametro di riferimento, ovvero considerando, per il primo e secondo grado del giudizio, il valore da 51.700,01 a 103.300,00 (ex D.M. n. 127/04) e, per il giudizio di cassaz ione e il giudizio di rinvio, il valore da € 52.000 a € 260.000 (ex D.M. 55/2014).
Ora, l’art. 6, comma 5, del D.M. n. 127/2004, prevede quanto segue: ‘5. Per le cause di valore indeterminabile, gli onorari minimi sono quelli previsti per le cause di valore da €25.900,01 a €51.700,00, mentre gli onorari massimi sono quelli previsti per l e cause di valore da €51.700,01 a €103.300,00, tenuto conto dell’oggetto e della complessità della controversia; qualora le cause siano di particolare importanza per l’oggetto, per le questioni giuridiche trattate, per la rilevanza degli effetti e dei risultati utili di qualsiasi natura, anche di carattere non patrimoniale, gli onorari possono essere liquidati fino al limite massimo previsto per le cause di valore fino a €516.500,00’.
Alla luce della su trascritta disposizione, è evidente che la ricorrente ha articolato la sua censura procedendo ad una liquidazione dei compensi sulla base dei valori massimi, ovvero sulla base di una valutazione di complessità della controversia, alla quale il giudice del merito non era in alcun modo vincolato
– dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione (Cass. n. 12093/2018; Cass. n. 13809/2017; Cass., n. 18190/2015) – e che ha evidentemente disatteso, ove peraltro si consideri che il giudizio in esame non presenta caratteri di complessità né per l’oggetto né per le questioni giuridiche trattate, inserendosi piuttosto in un contenzioso cosiddetto seriale.
Per contro, la ricorrente non ha adeguatamente dedotto la violazione dei minimi tariffari in relazione al corretto “scaglione” compreso tra € 25.900,01 e €51.700,00, quale presupposto indispensabile per consentire di apprezzare la decisività della censura (Cass. 10/2/2015, n. 2532; e su fattispecie pressoché sovrapponibile, Cass. n. 36948/2021).
In mancanza di una puntuale indicazione in tal senso, che avrebbe dovuto essere contenuta nel ricorso, la censura non può essere accolta, dovendosi confermare il principio più volte enunciato secondo cui la parte la quale intende impugnare per cassazione la liquidazione delle spese, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, per pretesa violazione dei minimi tariffari, ha l’onere dell’analitica specificazione delle voci e degli importi considerati, necessaria per consentire il controllo in sede di legittimità (cfr. tra le tante Cass. n. 5607 del 23 giugno 1997 e n. 9763 del 18 novembre 1994).
Le stesse considerazioni valgono con riguardo al giudizio di cassazione e al giudizio in sede di rinvio, in cui la determinazione dei compensi è stata effettuata in relazione allo scaglione compreso tra € 52.000,01 e € 260.000,00′, laddove il DM. n. 55/2014, all’art. 5, comma 6, così prevede: ‘ Le cause di valore indeterminabile si considerano di regola e a questi fini di valore non inferiore a euro 26.000,00 e non superiore a euro 260.000,00, tenuto conto dell’oggetto e della complessità della
contro
versia’. E va altresì precisato che, in base alle tabelle del decreto, questo range di valori comprende in realtà due fasce tariffarie distinte (da 26.000 a 52.000 e da 52.000 a 260.000). Ora, rispetto al valore minimo previsto per le cause di bassa complessità (ossia da 26.000 € a 52.000 € ), la ricorrente nulla ha specificato sul se e come si sia prodotta la violazione delle tariffe.
Anche in tal caso, e per le considerazioni su svolte, la scelta del giudice di merito di ritenere la causa di complessità bassa non è sindacabile in questa sede, né implica un obbligo di specifica motivazione, e ciò determina anche l’inammissibilità del mo tivo di ricorso con il quale si censura la sentenza sotto il profilo dell’assenza o del difetto di motivazione.
4.- Con il quarto motivo di ricorso si deduce ex art 360 nn. 3 e 4 c.p.c. la violazione degli artt. 92, 132 comma 2 n. 4, 118 c.p.c.: la Corte di appello, pur affermando che la ricorrente è risultata vittoriosa, ha compensato per 1/3 le spese di lite di tutti i gradi di giudizio, giustificando la riduzione sulla non univocità degli orientamenti giurisprudenziali in tema di contratto a termine Il motivo deve essere disatteso
4.1. Il motivo è infondato. Nel caso di specie, il procedimento è iniziato in primo grado con il ricorso depositato il 24.12.2004 e trova quindi applicazione ai fini della regolazione delle spese l’art. 92 c.p.c. nella formulazione originaria, anteriore al le modifiche apportate dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263, secondo cui «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».
Secondo l’indirizzo consolidato formatosi su tale disposizione, in materia di spese processuali, il giudice può disporre la compensazione anche senza fornire alcuna motivazione, e senza che – per questo – la statuizione diventi sindacabile in sede di
impugnazione e di legittimità, atteso che la valutazione dell’opportunità della compensazione, totale o parziale, delle spese rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia in quella della ricorrenza di giusti motivi (v. Cass. S.U. n. 14989 del 2005).
Deve quindi applicarsi la normativa codicistica precedente alla modifica del 2005 che non richiedeva di indicare specificamente i giusti motivi nella motivazione (su cui v. pure S.U. n. 20598 del 30 luglio 2008); mentre nel caso di specie la Corte ha pure motivato ed in maniera congrua la deroga parziale al criterio della soccombenza.
5.- In base alle argomentazioni svolte il ricorso deve essere complessivamente rigettato; le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 2.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie, oltre accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 2.4.2025
La Presidente dott.ssa NOME COGNOME