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Licenziamento verbale: chi ha il potere di licenziare?

Un dipendente impugna un licenziamento verbale ricevuto dal figlio del legale rappresentante della società. La Corte di Cassazione, confermando le decisioni dei gradi precedenti, dichiara il ricorso inammissibile. Viene stabilito che il licenziamento è inefficace poiché proferito da un soggetto privo del potere datoriale, che spettava esclusivamente al legale rappresentante. La Corte sottolinea l’importanza di provare l’effettiva titolarità del potere di recesso in capo a chi lo esercita, respingendo le prove indirette fornite dal lavoratore come insufficienti.

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Pubblicato il 15 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento verbale: quando è valido e chi può comunicarlo?

Il licenziamento verbale rappresenta una delle questioni più delicate nel diritto del lavoro, poiché la legge impone, di norma, la forma scritta per la risoluzione del rapporto. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce un aspetto fondamentale: non basta che le parole di licenziamento vengano pronunciate, è cruciale identificare chi le pronuncia. Se a farlo è una persona senza il potere formale di licenziare, il recesso è da considerarsi inefficace.

I Fatti del Caso: Un Licenziamento Verbale Contestato

Un lavoratore si rivolgeva al Tribunale per far dichiarare l’illegittimità del suo licenziamento verbale, avvenuto a seguito di un diverbio. Le parole fatidiche – “tu per me sei licenziato non venire più” – non erano state pronunciate dal legale rappresentante della società, bensì dal figlio di quest’ultimo, anch’egli impiegato nell’azienda.

Il lavoratore sosteneva che il figlio del titolare agisse come “datore di lavoro di fatto”, esercitando un potere gerarchico e direttivo. A prova di ciò, adduceva anche circostanze successive al diverbio, come la mancata fornitura di un biglietto del treno che, a suo dire, dimostrava il potere del figlio di gestire tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, inclusa la sua cessazione.

Le Decisioni di Primo e Secondo Grado

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno respinto le richieste del lavoratore. Entrambi i giudici di merito hanno concluso che le parole di licenziamento erano state proferite da un soggetto – il figlio del legale rappresentante – che rivestiva la qualifica di semplice dipendente e non aveva alcun potere formale per interrompere un rapporto di lavoro. Secondo i giudici, il vero e unico datore di lavoro era il padre, legale rappresentante della società, l’unico titolare del potere di recesso. Le prove portate dal lavoratore, inclusa la questione del biglietto del treno, sono state ritenute generiche e insufficienti a dimostrare l’esistenza di un potere datoriale “di fatto” in capo al figlio.

Il Giudizio della Corte di Cassazione e il potere di licenziare

Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, articolando diversi motivi di doglianza, tutti incentrati sulla presunta errata valutazione delle prove e sull’errata applicazione delle norme processuali. La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso interamente inammissibile, ponendo fine alla vicenda.

Le motivazioni della decisione

La Corte ha smontato punto per punto i motivi del ricorso. In primo luogo, ha evidenziato come molti motivi fossero generici o proponessero un riesame dei fatti, attività preclusa in sede di legittimità.

In particolare, la Corte ha confermato la correttezza della decisione d’appello per via della cosiddetta “doppia conforme”. Le due sentenze di merito erano giunte alla stessa conclusione attraverso un percorso logico-argomentativo identico, rendendo inammissibile la censura sulla valutazione dei fatti. I giudici hanno ribadito che la circostanza del mancato invio del biglietto ferroviario era stata correttamente ritenuta marginale e non decisiva per provare la titolarità del potere disciplinare.

Il punto cruciale della decisione è stato ribadire un principio fondamentale: il potere di licenziare spetta al datore di lavoro, identificato nel legale rappresentante della società o in un soggetto da questi formalmente delegato. L’onere di provare che la persona che ha comunicato il recesso avesse effettivamente tale potere spetta al lavoratore che impugna l’atto. Nel caso di specie, il lavoratore non era riuscito a fornire prove concrete che il figlio del titolare, al momento del diverbio, avesse la qualifica o il potere per licenziarlo.

Conclusioni: Cosa Insegna Questa Sentenza?

Questa ordinanza offre due importanti lezioni pratiche. Per i lavoratori, evidenzia che un licenziamento verbale non solo è quasi sempre illegittimo per vizio di forma, ma è anche totalmente inefficace se proviene da una persona che non ha il titolo per comunicarlo. È essenziale, in caso di contenzioso, essere in grado di dimostrare chi sia il vero titolare del potere datoriale. Per le aziende, la sentenza sottolinea l’importanza di avere una chiara definizione dei ruoli e delle deleghe. Le strutture aziendali, anche quelle a carattere familiare, devono formalizzare i poteri gestionali per evitare ambiguità che possono generare costosi contenziosi dall’esito incerto.

Chi ha il potere di licenziare un dipendente in un’azienda?
Il potere di licenziare appartiene al datore di lavoro, che nelle società si identifica con il legale rappresentante o con un altro soggetto a cui tale potere sia stato formalmente delegato. Non è sufficiente che una persona svolga mansioni di fatto direttive.

Un licenziamento verbale è efficace se pronunciato da chi non è il legale rappresentante dell’azienda?
No, è inefficace. La sentenza chiarisce che se il licenziamento è comunicato da un soggetto privo del potere di recesso (in questo caso, un altro dipendente, sebbene figlio del titolare), l’atto non produce alcun effetto giuridico.

Cosa significa il principio della “doppia conforme” in un ricorso per Cassazione?
Significa che se il Tribunale e la Corte d’Appello hanno emesso due sentenze con la stessa decisione, basate sul medesimo percorso logico e sulla stessa valutazione dei fatti, il ricorso in Cassazione non può essere utilizzato per chiedere un nuovo esame delle prove, ma solo per contestare errori di diritto. Questo rende l’appello alla Suprema Corte più difficile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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