Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21279 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 21279 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso 22818-2021 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1088/2021 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 07/06/2021 R.G.N. 1841/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/06/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME.
Oggetto
Licenziamento disciplinare
RNUMERO_DOCUMENTO.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 26/06/2024
CC
Rilevato che
La Corte d’appello di Bari, giudicando in sede di rinvio dalla Corte di cassazione (sentenza n. 20523 del 2019), ha respinto l’appello di NOME COGNOME, confermando la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatole il 22 maggio 2007 dalla RAGIONE_SOCIALE (poi RAGIONE_SOCIALE).
La Corte territoriale, verificato il rituale svolgimento del procedimento disciplinare, in conformità all’art. 7 St. Lav. (l’omessa pronuncia su tale aspetto aveva determinato la cassazione con rinvio della precedente decisione di appello), ha accertat o la sussistenza dell’addebito mosso alla lavoratrice con lettera del 30.4.2007 ed esattamente che il 26.4.2007 ‘la COGNOME ebbe a timbrare in entrata alle 06:49 e la COGNOME (sua collega, ndr.) alle 06:48; posto che le due dipendenti erano state attenzionate dalla struttura per un uso quantomai disinvolto (e, per così dire, reciproco) del cartellino marcatempo è emerso, anche dall’istruttoria espletata in prime cure, che i dipendenti COGNOME e COGNOME, preavvertiti dell’uscita intorno alle 19 della COGNOME, si appostarono dietro il banco dell’accettazione e constatarono entrambi che la predetta COGNOME strisciava due diversi cartellini marcatempo. In particolare, il COGNOME ebbe a verificare le risultanze dell’orologio marcatempo e prese atto che risultavano in uscita sia la COGNOME che la COGNOME al medesimo orario 19.02, pur essendo risultata presente alla marcatura solo la COGNOME e non essendo stata affatto vista da entrambi la COGNOME‘; quest’ultima fu immediatamente contattata per telefono; si appurò che si trovava presso il proprio domicilio e che quel giorno aveva lasciato la RAGIONE_SOCIALE cura alle 12:22, senza timbrare il cartellino.
Secondo i giudici di appello, la condotta posta in essere dalla lavoratrice, espressione di un ‘contegno fraudolento’ idoneo di per sé a ledere il rapporto fiduciario, integrava una giusta causa di licenziamento, data peraltro l’espressa previsione nel contratto collettivo (art. 41, lett. g del c.c.n.l. 19.1.2005), tra le condotte suscettibili della massima sanzione espulsiva, di quella del lavoratore che ‘alteri o falsifichi le indicazioni del registro presenze o dell’orologio marcatempo o compia su que ste, comunque, volontariamente annotazioni irregolari’.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) ha resistito con controricorso. È stata depositata memoria nell’interesse della lavoratrice.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che
Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 7 legge n. 300/1970 e 41 c.c.n.l. Comparto Sanità privata. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2106 e 2729 c.c., degli artt. 115, 116, 246 c.p.c., in rela zione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. Infondatezza degli addebiti disciplinari. Non corrispondenza degli addebiti medesimi agli elementi di prova acquisiti.
Si censura la sentenza impugnata per aver illegittimamente rigettato l’impugnazione di merito e per l’effetto la domanda risarcitoria avanzata dalla ricorrente sulla base dell’illegittima applicazione del regime delle presunzioni semplici, nonché per aver omesso di esaminare e valutare atti e documenti di causa,
nonché la prova orale raccolta in primo grado in relazione a circostanze decisive; si censura inoltre la sentenza poiché affetta da vizi di illegittimità, illogicità e contraddittorietà della valutazione di atti e documenti di causa nonché delle risultanze istruttorie acquisite al processo. Il tutto con derivata violazione degli artt. 7 St. Lav. e 41 c.c.n.l. Comparto Sanità privata.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 7, legge n. 300/1970 e 41 c.c.n.l. Comparto Sanità privata. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2106 e 2729 c.c., degli artt. 115, 116 e 246 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. nonché violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. Infondatezza degli addebiti disciplinari. Sproporzione della sanzione disciplinare.
Si censura subordinatamente la sentenza impugnata sul rilievo che la Corte di appello, incorsa nei vizi di cui al precedente motivo, avrebbe omesso ogni valutazione sulla sproporzione della massima sanzione disciplinare e, quindi, sulla legittimità dell a stessa, non tenendo in debito conto l’eventuale ripercussione sugli interessi aziendali della condotta contestata alla ricorrente e, a monte, se la datrice di lavoro avesse allegato e provato qualsivoglia effetto esiziale dei presunti comportamenti addebitati.
Il primo motivo è inammissibile. Esso solo formalmente denuncia un error in iudicando , anche attraverso l’improprio riferimento agli artt. 115 e 116 (cfr. Cass. n. 23940 del 2017 e Cass. n. 25192 del 2016, con la giurisprudenza ivi richiamata), mentre nella sostanza critica la sentenza impugnata per aver ritenuto dimostrata la condotta contestata alla lavoratrice e il carattere fraudolento della stessa; tale accertamento di fatto, tuttavia, non è sindacabile in sede di legittimità oltre i limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come
rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici), di cui parte ricorrente non tiene alcun conto, pretendendo piuttosto una rivalutazione degli accadimenti storici ed una revisione del giudizio di fatto non ammissibile in questa sede di legittimità.
11. Deve ribadirsi, in consonanza con l’orientamento di questa Corte (v. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), che la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità qualora il giudice, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale. In modo parallelo, la violazione dell’art. 116 c.p.c. presuppone che il giudice abbia valutato una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale. La violazione dell’art. 2697 c.c. implica che il giudice abbia invertito gli oneri di prova. Nessuna di queste situazioni è rappresentata nel motivo di ricorso in esame, ove è unicamente dedotto che il giudice ha male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, censura consentita solo ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. nel caso di specie precluso in ragione della c.d. doppia conforme e, comunque, non integrato nei requisiti richiesti dal nuovo testo.
Né può criticarsi, in questa sede, la sentenza impugnata per il ragionamento presuntivo operato, perché spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (v. Cass. n. 10847 del 2007; n. 24028 del 2009; n. 21961 del 2010); va escluso che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017), spettando al giudice del merito l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell ‘íd quod plerumque accidit (v. Cass. n. 16831 del 2003; n. 26022 del 2011; n. 12002 del 2017; n. 6838 del 2023).
Neppure il secondo motivo di ricorso può trovare accoglimento atteso che, sulla integrazione del parametro della giusta causa di licenziamento, la Corte d’appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; n. 6901 del 2016; n. 21214 del 2009; n. 7838 del 2005) e di proporzionalità della misura espulsiva (cfr. Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007) ed ha motivatamente valut ato la gravità dell’addebito, sottolineando la grave lesione dell’elemento fiduciario connessa al carattere fraudolento della condotta tenuta dalla dipendente. Le censure non denunciano una errata opera di interpretazione
o sussunzione ma sollecitano, ancora una volta, solo una revisione del ragionamento decisorio in senso favorevole alla ricorrente.
Per le ragioni esposte il ricorso risulta inammissibile.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
L’inammissibilità del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 26 giugno 2024