Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 34410 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 34410 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 17895-2022 proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo STUDIO COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2151/2022 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/05/2022 R.G.N. 2837/2021;
Oggetto
LICENZIAMENTO
DISCIPLINARE
R.G.N. 17895/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 30/10/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/10/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma del provvedimento del giudice di primo grado, ha accolto la domanda proposta da NOME COGNOME confronti di RAGIONE_SOCIALE ed ha accertato l’illegittimità del licenziamento intimato il 27.12.2018 alla dipendente per aggressione verbale di una cliente (la quale aveva espresso valutazione negative sul suo conto nel questionario di valutazione compilato in occasione di preceden ti visite al negozio) e, in applicazione dell’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970, ha dichiarato la risoluzione del rapporto di lavoro e la condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a diciotto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte territoriale, ha rilevato che il quadro probatorio raccolto confermava che la lavoratrice, commessa del punto vendita, aveva -in data 21.10.2018 – esternato in presenza di terzi i giudizi personali espressi da una cliente (nel questionario di soddisfazione compilato alcuni mesi prima), con ciò violando la sua privacy, ed inoltre, aveva aggredito verbalmente la cliente, sempre alla presenza di altri clienti e delle colleghe, determinando l’uscita della cliente in lacrime e la perdita definitiva della cliente (che non aveva più frequentato il punto vendita); ha sottolineato che la condotta tenuta configurava un inadempimento all’obbligo (dettato dalla contrattazione collettiva) di usare modi cortesi con il pubblico e che (alla luce della scala valoriale dettata dal CCNL Turismo) il licenziamento si presentava, nel caso di specie, quale sanzione sproporzionata rispetto alle caratteristiche elencate dalle parti
sociali in riferimento al potere di recesso datoriale; peraltro, ai fini dell’individuazione della tutela applicabile, la condotta era sussistente e non era sussumibile in nessuna delle ipotesi punite dal CCNL applicato dall’azienda con sanzione conservativa; la Corte territoriale ha, pertanto, applicato il regime sanzionatorio dettato dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970.
Avverso tale sentenza il dipendente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. La società ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 220 e 225 CCNL settore Commercio Terziario, 18, commi 4 e 5 della legge n. 300 del 1970 avendo, la Corte territoriale commesso una violazione della disciplina contrattuale collettiva nella misura in cui non ha ricondotto la fattispecie ad una clausola generale: se è vero che il CCNL non prevede espressamente una sanzione conservativa per il tipo di condotta addebitata alla lavoratrice, è pur vero che le parti sociali hanno individuato una scala di sanzioni di crescente gravità che non può escludere che la suddetta condotta non sia tale da eccedere quelle che comportano una sanzione conservativa. Invero, la condotta, consistita nella violazione dell’ ‘ obbligo di…usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri’ (art. 220, comma 1, del CCNL), una volta esclusa la sussunzione nella sanzione negoziale espulsiva, doveva essere sussunt a nella previsione di cui all’art. 225 del CCNL che
prevede la sanzione conservativa della multa per il dipendente che ‘ esegua con negligenza il lavoro affidatogli’.
Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 1455 C.C., 3 Cost., 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 1970 avendo, la Corte territoriale, trascu rato che l’episodio contestato era assolutamente isolato in tutta un’intera carriera di oltre dieci anni e, dunque, non poteva attentare al vincolo fiduciario instauratori tra le parti: la decisione impugnata non è coerente con le acquisizioni istruttorie né rispetta il principio di proporzionalità, per cui la sanzione espulsiva si giustifica solamente per le condotte gravi.
Con il terzo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché 2727 e 2729 c.c. avendo, la Corte territoriale, effettuato una valutazione assolutamente parziale e formalistica del materiale probatorio, disattendendo l’evidenza delle prove assunte (come la testimonianza della cliente interessata e il Direttore del punto vendita).
Il primo ed il secondo motivo di ricorso non sono fondati.
4.1. Dalla natura legale della nozione di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento deriva che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004; v. pure Cass. n. 27004 del 2018); quindi, non essendo vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, spetta al giudice la valutazione di gravità del fatto e della sua proporzionalità
rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie (tra le recenti v. Cass. n.33811 del 2021).
4.2. Peraltro, ove le previsioni del contratto collettivo siano più favorevoli al lavoratore -nel senso che la condotta addebitata quale causa del licenziamento sia contemplata come infrazione sanzionabile con misura conservativa -il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (v. tra molte, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 19053 del 2005; Cass. n. 5103 del 1998; Cass. n. 1173 del 1996).
4.3. Ne consegue che nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 8621 del 2020; Cass. n. 14811 del 2020); in materia disciplinare, il procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, tipizzata dalle parti collettive, non consente una tale operazione logica quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi, estranei e aggravanti, rispetto alla previsione contrattuale (Cass. n. 8582 del 2019); è insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è riconducibile alle disposizioni della contrattazione
collettiva, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (Cass. n. 18195 del 2019; Cass. n. 13411 del 2020).
4.4. Da ultimo questa Corte, ribadito quanto innanzi, ha anche precisato (cfr., in particolare, Cass. nn. 11665 e 20780 del 2022) che laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva mediante una clausola gen erale o elastica, ‘graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravità ed utilizzando nella descrizione della fattispecie espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto’, sicuramente ‘rientra nel compito del giudice riempire di contenuto la clausola utilizzando standard conformi ai valori dell’ordinamento ed esistenti nella realtà sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità’, perché ‘all’interprete è demandato di interpretare la fonte negoziale e verificare la sussumibilità del fatto contestato nella previsione collettiva anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta’.
4.5. Orbene, l’art. 220 del CCNL applicabile nel caso di specie delinea gli obblighi dei lavoratori (che debbono ‘ osservare nel modo più scrupoloso i doveri … usare modi cortesi col pubblico e tenere una condotta conforme ai civici doveri ‘) e l’art. 225 indica le ipotesi per le quali sono previste le sanzioni, conservative o espulsive, in occasione della ‘ inosservanza dei
doveri da parte del personale dipendente ‘ e ‘ in relazione alla entità delle mancanze e alle circostanze che le accompagnano ‘; in particolare, la clausola negoziale prevede l’irrogazione della multa ove il lavoratore ‘ esegua con negligenza il lavoro affidatogli ‘.
4.6. Ebbene, la Corte territoriale, conformandosi all’orientamento elaborato da questa Corte, e seguendo il c.d. procedimento bifasico, ha, dapprima, accertato se sussisteva la giusta causa di recesso (alla luce della nozione legale di cui all’art. 2119 c .c., tenuto anche conto, ex art. 30 della legge n. 183 del 2010, delle tipizzazioni contenute nel CCNL), ritenendo – con accertamento in fatto non rivedibile in questa sede – di escludere la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, a fronte della ricostruzione dell’ipotesi di inadempimento imputato alla lavoratrice nonché di tutte le circostanze del caso concreto, le quali non delineavano un grave inadempimento (anche alla luce dei casi, esemplificati, previsti dalle parti sociali quali giuste cause di risoluzione del rapporto di lavoro); successivamente, una volta esclusa la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, e ritenuta, pertanto, la illegittimità del licenziamento, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5, della legge n. 300 del 1970, come novellato dalla legge n. 92 del 2012, la Corte territoriale ha proceduto alla disamina concernente la ricorrenza delle due condizioni previste dal comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria, dovendo, in assenza, applicare il regime costituito dalla c.d. tutela risarcitoria forte del comma 5. In particolare, la Corte territoriale, ritenuta sussistente la condotta, ha escluso che il catalogo delle infrazioni disciplinari punibili con sanzione conservativa contemplasse una condotta tipizzata nell’ambito
della quale sussumere quella oggetto di causa e, ha altresì, escluso che l’inadempimento della lavoratrice potesse essere ricondotto alla clausola generale ed elastica prevista dalle parti sociali (pag. 14 della sentenza impugnata). Invero, la Corte territoriale ha specificato che la condotta così come dettagliatamente accertata non potesse sussumersi nell’ipotesi tipizzata (punita dal CCNL con la multa) di colui che ‘ esegua con negligenza il lavoro affidatogli ‘, formula che richiama l’esatto adempimento de lla mansione affidata, perché nel caso di specie la lavoratrice ‘stava eseguendo in termini corretti le operazioni di cassa (oggetto, appunto, della prestazione lavorativa primaria)’ ma aveva ‘trasgredito gli aggiuntivi doveri posti a suo carico dal CCNL e del pari da osservare per adempiere esattamente la sua obbligazione lavorativa’. La Corte territoriale ha, inoltre, valutato l’elencazione dei provvedimenti disciplinari applicabili (art. 225 CCNL in esame) in combinato disposto con la clausola negoziale (elastica) che delinea gli obblighi del prestatore di lavoro (art. 220 CCNL) ed ha ritenuto che il decalogo delle sanzioni (graduate a seconda della gravità o recidività della mancanza o grado della colpa) atteneva a violazione di doveri diversi da quello accertato nel caso concreto (ove, in particolare, veniva in risalto la violazione dell’obbligo della riservatezza collegato alla compilazione, da parte dei clienti, delle schede di valutazione), con conseguente impossibilità di sussumere la violazione nella clausola negoziale generale. Ha, pertanto, ritenuto che la condotta addebitata non potesse sussumersi né in una previsione negoziale di comportamento tipizzato né nell’ambito della clausola generale ed elastica concernente i doveri del lavoratore.
4.7. Trattasi di percorso motivazionale metodologicamente corretto in diritto e in fatto, commisurato alle circostanze del caso concreto (che compete al giudice del merito apprezzare) e frutto di una corretta esegesi della fonte negoziale in quanto rispettosa non solo dei canoni esegetici di fonte normativa e di un significato socialmente condiviso dell’espressione elastica così come calata nel settore merceologico di riferimento ma altresì coerente con l’articolato regime di tutela dettato dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92 del 2012, regime che -come ha recentemente puntualizzato il giudice delle leggi (Corte Cost. n. 7 del 2024) -ha superato l’unicità della tutela reintegratoria per i licenziamenti individuali e collettivi e ha introdotto una diversa logica di fondo consistente nel principio per cui ‘non tutti i licenziamenti illegittimi sono uguali’ a fronte dei plurimi regimi di tutela introdotti nel 2012. L’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del combinato disposto degli artt. 220 e 225 del CCNL Commercio consente, in caso di ritenuta illegittimità del licenziamento per sproporzione tra infrazione disciplinare e sanzione, di riservare uno spazio di applicazione alla tutela indennitaria prevista dal com ma 5 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 che sarebbe, invece, del tutto compromessa (e di fatto abrogata) ove si interpretasse l’elencazione dei provvedimenti disciplinari (dotata di formula correlata alla crescente gravità dell’inadempimento dei ‘doveri’ del dipendente) quale clausola elastica che copre tutte le condotte di inadempimento.
Il terzo motivo non può trovare accoglimento.
5.1. Si invoca impropriamente la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., atteso che, come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per
dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre); parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell’art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014.
5.2. La doglianza non individua errori di diritto ma, piuttosto, critica gli apprezzamenti di fatto compiuti dai giudici del merito circa le ‘circostanze di tempo, di luogo e persona’ in cui il diverbio si è svolto (pag. 12 e 13 della sentenza impugnata): così si sollecita, tuttavia, un sindacato che esorbita dai poteri del giudice di legittimità perché spettano, inevitabilmente, al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità.
5.3. Infine, la violazione degli articoli 2727 e 2729 cod.civ., come già ripetutamente affermato da questa Corte, può essere censurata in sede di legittimità soltanto allorché ricorra il cosiddetto “vizio di sussunzione”, vale a dire allorquando il giudice di merito, dopo aver qualificato come “gravi, precisi e concordanti” gli indizi raccolti, li ritenga però inidonei a fornire la prova presuntiva; oppure, all’opposto, quando dopo aver qualificato come “non gravi, imprecisi e discordanti” gli indizi raccolti, li ritenga nondimeno sufficienti a fornire la prova del fatto controverso ( ex multis , in tal senso, Sez. Un. n. 1785 del 2018, paragrafo 4.1, lettera (bb), della motivazione; nonché Cass. n. 19485 del 2017, Cass. n. 3541 del 2020), profili che non ricorrono nel caso di specie.
In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 4.500,00 per
compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, de ll’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 30 ottobre