Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21314 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 21314 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 25/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 12919-2023 proposto da:
COGNOME ANNUNZIATA, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1636/2023 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 17/04/2023 R.G.N. 1507/2022;
Oggetto
Licenziamento disciplinare per giusta causa
R.G.N. 12919/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 26/02/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con ordinanza pubblicata il 13.5.2021 il Tribunale di Nola, riconoscendo la natura ritorsiva del licenziamento intimato a Pasculi Annunziata il 17.7.2020 dalla convenuta RAGIONE_SOCIALE in applicazione dell’art. 18, comma primo, l. n. 300/1 970, aveva dichiarato l’illegittimità di detto licenziamento, aveva ordinato a detta società di reintegrare immediatamente la ricorrente nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché di corrisponderle un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegra, in misura non inferiore alle cinque mensilità, oltre rivalutazione monetaria e interessi sulle somme via via rivalutate dal giorno della maturazione al saldo e al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, mentre per il resto rigettava il ricorso della lavoratrice.
Con sentenza n. 1185/2022 il medesimo Tribunale, in parziale accoglimento dell’opposizione della RAGIONE_SOCIALE alla suddetta ordinanza, dichiarava l’illegittimità del licenziamento impugnato e condannava la società a riassumere la lavoratrice entro il termine di tre giorni dalla pronuncia o, in mancanza, a risarcire il danno quantificato in quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; e rigettava nel resto il ricorso.
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Napoli rigettava il reclamo principale proposto da COGNOME contro la sentenza di primo grado e dichiarava
inammissibile il reclamo incidentale proposto dalla RAGIONE_SOCIALE contro la stessa sentenza.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva, tra l’altro, che la lavoratrice era stata licenziata a seguito di missiva in cui le era stato contestato ‘di aver arbitrariamente estratto copia e divulgato a terzi documentazione e dati di provenienza aziendale, senza richiedere ed avere alcuna autorizzazione in merito’, e che il Tribunale, ritenuta provata la circostanza della preventiva autorizzazione, aveva quindi escluso che potesse configurarsi l’illecito disciplinare contestato alla lavor atrice; mentre aveva ritenuto non provato lo specifico intento ritorsivo quale motivo unico e determinante del recesso, avendo la società confidato nella bontà delle dichiarazioni del COGNOME, che aveva dichiarato di non aver mai consegnato alcunché, né autorizzato la consegna dei documenti aziendali alla COGNOME.
4.1. Tanto premesso, la Corte giudicava infondato anzitutto il primo motivo di gravame della lavoratrice, con il quale ella tornava ad insistere sulla sussistenza del motivo ritorsivo del licenziamento, e parimenti riteneva infondati gli ulteriori quattro motivi del suo reclamo, ponendo in luce a più riprese che il primo giudice nella sentenza allora gravata aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento irrogato per mancata prova del fatto contestato.
Avverso tale decisione COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso.
Il Consigliere delegato ex art. 380 bis c.p.c. novellato, con atto depositato il 4.10.2024, ha proposto la definizione del ricorso per cassazione nel senso della sua inammissibilità.
Con atto depositato telematicamente il 7.11.2024, il difensore della ricorrente ha chiesto la decisione del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Osserva il Collegio che nella cennata proposta in data 4.10.2024, dopo aver riferito il contenuto dei due motivi di ricorso, si è rilevato che:
‘ 3. I motivi di ricorso sono inammissibili.
Come più volte precisato da questa Corte (Cass. n. 22799 del 2017; n. 7653 del 2012), il vizio di omessa pronuncia che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisce un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto, oppure su uno specifico motivo di appello (cfr. Cass. n. 1184 del 2006; n. 27387 del 2005; n. 1170 del 2004); non è configurabile la violazione dell’art. 112 c.p.c. ove si assuma che il giudice di merito non abbia considerato alcuni documenti oppure fatti secondari dedotti dalla parte, potendosi in tale caso ritenere integrato il
vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., ove ne ricorrano i presupposti.
Nel caso di specie, la Corte territoriale, ha delibato sulla domanda di legittimità del licenziamento e sul dedotto carattere ritorsivo: invero, esclusa la configurazione di un unico centro di imputazione di interessi con altre società, la Corte ha ritenuto provata la preventiva richiesta (con conseguente autorizzazione) di documentazione da parte della dipendente, escludendo, pertanto, che i fatti contestati fossero stati posti in essere dalla COGNOME, con conseguente declaratoria di illegittimità del licenziamento e applicazione del regime di tutela obbligatoria, ex art. 8 della legge n. 604 del 1966; la Corte territoriale ha, infatti, rilevato espressamente la carenza del requisito dimensionale necessario per l’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 e sottolineato, inoltre, che si trattava di elemento già accertato in primo grado e non oggetto di gravame. La Corte territoriale ha, inoltre, escluso il carattere ritorsivo del licenziamento, esponendo ampia argomentazione (con specifica valutazione del comportamento tenuto dal Responsabile COGNOME nei confronti dei vertici della società);
La nullità della sentenza per mancanza della motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., è prospettabile quando la motivazione manchi addirittura graficamente, ovvero sia così oscura da non lasciarsi intendere da un normale intelletto. In particolare, i l vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-
giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cfr. Cass. n. 3819 del 2020), non essendo più ammissibili, a seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif ., dalla l. n. 134 del 2012), le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione do merito impugnata (Cass. n. 23940 del 2017).
Come evidenziato, la Corte territoriale ha delibato sia sul dedotto carattere ritorsivo del licenziamento sia sul profilo di illegittimità, e il ricorso si palesa inammissibile in quanto volto nella sostanza a criticare la valutazione del materiale probatorio come eseguita dalla Corte di merito, al di fuori dei limiti consentiti dallo schema legale del nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (cfr. Cass., S.U. n. 8053 del 2014), nel caso di specie precluso in forza di pronuncia c.d. doppia con forme’ .
Ritiene il Collegio di decidere in senso conforme a tale proposta.
Con il primo motivo il ricorrente deduce ex ‘art. 360 c.p.c. n. 4 nullità della sentenza violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa decisione: sulla richiesta pronuncia di legittimità e di esclusione di antigiuridicità della condotta contestata alla lavoratrice -in applicazione dell’art. 24 d.lgs. 196/2003 sul -conseguente -richiesto avvertamento (N.D.R., rectius , accertamento) dichiarativo del carattere ritorsivo del licenziamento, in quanto esclusiva manifestazione della volontà punitiva aziendale rispetto ad una condotta della dipendente -conosciuta dalla azienda come legittima e priva di antigiuridicità, per espressa previsione normativa.
Con il secondo motivo deduce ex .
Orbene, in ordine al primo motivo rileva anzitutto il Collegio che la stessa ricorrente neppure deduce che la questione dell’esclusione della c.d. antigiuridicità della sua condotta rispetto a quanto previsto dall’art. 24 d.lgs. n. 196/2003 avesse formato oggetto di un distinto ed autonomo motivo di reclamo sul quale la Corte d’appello dovesse pronunciarsi, per non incorrere nella violazione dell’art. 112 c.p.c.
5.1. Del resto, secondo la pur non chiara prospettazione della ricorrente, l’assenza dell’antigiuridicità della condotta contestatale sotto il suddetto specifico profilo era funzionale sempre all’accertamento della natura ritorsiva del licenziamento intima tole (la stessa ricorrente assume l’accertamento appunto del carattere ritorsivo del licenziamento come ‘conseguente’ alla richiesta di pronunzia di legittimità della sua condotta).
Peraltro, come evidenziato in narrativa, già il giudice dell’opposizione nella sentenza reclamata aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento per la mancanza di prova del fatto contestato (prima -vien fatto di dire -che per la dedotta legittimità della condotta della lavoratrice), sia pure con applicazione della tutela obbligatoria ex art. 8 l. n. 604/1966.
Pertanto, la declaratoria d’illegittimità del recesso datoriale a motivo della liceità della condotta contestata (piuttosto che per l’insussistenza del fatto) di per sé sola non avrebbe portato ad una tutela diversa da quella già ottenuta, e l’allora reclamante neppure avrebbe avuto quindi interesse ad ottenere dai giudici di secondo grado una mera ‘sostituzione’ della causale d’illegittimità del licenziamento. Per contro, aveva interesse a coltivare la domanda di accertamento della nullità del licenziamento per motivo illecito unico e determinante costituito dal suo carattere ritorsivo, per ottenere la piena tutela di cui agli all’art. 18, commi primo e secondo, l. n. 300/1970 (tutela sganciata dal requisito dimensionale del datore di lavoro).
Tanto osservato, secondo quanto già anticipato in narrativa, la Corte di merito si è certamente espressa sul primo motivo di reclamo dell’attuale ricorrente per cassazione, che atteneva appunto al ‘motivo’ asseritamente ‘ritorsivo’ del licenziamento (cfr. § 5 della sua sentenza tra la facciata 8 e quella 11).
D’altronde, la stessa ricorrente riconosce, nello svolgimento sia del primo motivo che del secondo motivo di ricorso, che la Corte si sia pronunciata su tale questione, criticando tuttavia la relativa valutazione nel merito, come esattamente notato nella proposta sopra riportata.
In definitiva, resta confermato che il primo motivo di ricorso è inammissibile perché neppure vi è dedotta l’omessa pronuncia su uno specifico motivo d’impugnazione (ulteriore e diverso da quello sulla natura ritorsiva del licenziamento, su cui pronunci a certamente v’è stata), che riguardasse la questione dell’assenza di antigiuridicità della condotta contestata alla
lavoratrice rispetto al disposto dell’art. 24 d.lgs. n. 196/2003; laddove, in base ai principi di diritto richiamati nella proposta ex art. 380 bis c.p.c., il suddetto vizio poteva configurarsi soltanto in mancanza di qualsiasi decisione su uno specifico motivo d’impugnazione.
Parimenti inammissibile è il secondo motivo di ricorso, nel quale, in chiave di prospettato ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’, in realtà è criticato l’apprezzamento probatorio operato dalla Corte di merito, come emerge chiaramente dallo svolgimento di detta censura (v. pagg. 29-31 del ricorso).
In definitiva, in conformità alla suddetta proposta, il ricorso dev’essere dichiarato inammissibile.
La ricorrente, soccombente in rito, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto. Inoltre, ai sensi dell’art. 380 bis, ult. comma, c.p.c. novellato, siccome il giudizio di legittimità viene definito in conformità alla proposta di cui sopra, devono essere applicati il terzo ed il quarto comma dell’art. 96 c.p.c. nei termini specificati in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%,
IVA e C.P.A. come per legge; condanna, altresì, la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, della somma di € 2.250,00, ex art. 96, comma terzo, c.p.c., ed al pagamento, in favore della cassa delle ammende, della somma di € 2.250,00, ex art. 96, comma quarto, c.p.c.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 26.2.2025.