Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15034 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15034 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 04/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 7547-2024 proposto da:
LEGORI NOME, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
nonché contro
Oggetto
Licenziamento individuale
R.G.N.7547/2024
COGNOME
Rep.
Ud.04/03/2025
CC
COGNOME, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 786/2023 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 28/09/2023 R.G.N. 482/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
04/03/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE
In data 31.8.2020 NOME COGNOME intimava alla dipendente NOME COGNOME in servizio dal 25.9.2017 con contratto part time e qualifica di assistente di studio odontoiatrico, licenziamento per giustificato motivo oggettivo, poi revocato il 25.9.2020, con collocazione della lavoratrice in cassa integrazione dal 31.8.2020.
Con lettera del 12.4.2021 alla COGNOME veniva successivamente intimato licenziamento per giusta causa per la seguente contestazione: avere eseguito, un martedì tra giugno e luglio 2019, un trattamento di igiene dentale nei confronti di un paziente, nonché della di lui madre, in un giorno in cui lo studio era chiuso e non erano presenti terze persone, senza avere il titolo abilitante.
Impugnato tale provvedimento di recesso, l’adito Tribunale di Milano, autorizzata l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’INPS, ordinava alla datrice di lavoro di reintegrare la dipendente nel posto di lavoro e di risarcirle il danno determinato in una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (euro 1.227,57) pari alle retribuzioni da corrispondere dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione, oltre accessori e regolarizzazione contributiva; rigettava, invece, la richiesta di condanna al pagamento delle differenze retributive.
La Corte di appello di Milano, con la sentenza n. 786/2023, confermava la pronuncia di primo grado evidenziando che: a) l’eccezione di genericità della contestazione disciplinare era stata tardivamente sollevata, b) l’addebito oggetto dell’incolpazione no n sussisteva nella sua antigiuridicità perché la datrice di lavoro era a conoscenza che la COGNOME eseguiva compiti che non rientravano nel suo formale livello di inquadramento ed anzi era ella stessa a fornire indicazioni affinché intervenisse e tollerava pure che la COGNOME svolgesse tali compiti anche in favore di un collega di studio di essa COGNOME; c) il secondo licenziamento era di natura ritorsiva in quanto, con l’impugnazione del 19.6.2020, la lavoratrice aveva costretto la COGNOME a revocare il primo recesso, manifestamente inefficace per la normativa ratione temporis vigente; d) la richiesta di differenze retributive era risultata carente di prova alla luce della espletata istruttoria.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi cui resisteva con controricorso NOME COGNOME Si costituiva anche l’INPS che si limitava a ribadire la sua estraneità ai fatti di causa chiedendo però il rimborso delle spese processuali.
La controricorrente depositava memoria.
Il Collegio si riservava il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati, così come prospettati dalla stessa ricorrente.
Con il primo motivo si eccepisce la nullità della sentenza in relazione all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, per difetto assoluto di motivazione e/o motivazione illogica, erronea e contraddittoria in relazione ad un punto decisivo della controversia, avendo la Corte territoriale omesso totalmente di motivare e/o di adeguatamente motivare la mancata ammissione delle istanze istruttorie reiterate in sede di appello da essa ricorrente volte a provare la sussistenza della giusta causa di licenziamento nonché la decisione di valutare, ai fini della esclusione
della sussistenza della giusta causa, la sola prospettazione fornita da controparte.
Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la nullità della sentenza per violazione, falsa applicazione e/o erronea interpretazione del CCNL dei Dipendenti Studi Professionali anno 2017, nonché degli art. 1 comma 2, 4 e 5 de ll’Accordo siglato in data 23.11.2017 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano allegato al DPCM 9 febbraio 2018 (GU n. 80 del 6.4.2018), concernente l’individuazione del profilo professionale dell’Assistente di studio odontoiatrico (ASO), quale operatore di interesse sanitario di cui all’art. 1 co. 2 della legge n. 43/2006, e la disciplina della relativa formazione.
Con il terzo motivo si obietta, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, la nullità della sentenza per omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, avendo la Corte territoriale omesso di motivare e/o motivato in maniera illogica e contraddittoria la decisione di qualificare il licenziamento intimato da essa ricorrente nei confronti della COGNOME, come ‘ritorsivo’, collegandolo causalmente ad una antecedente circostanza intercorsa tra i medesimi soggetti senza, tuttavia, fornire motivazione alcuna circa il nesso di causalità che avrebbe legato eziologicamente tale ulteriore circostanza all’intimato licenziamento per giusta causa.
Il primo ed il terzo motivo, da scrutinare congiuntamente perché interferenti, presentano profili e di inammissibilità e di infondatezza.
In primo luogo va osservato che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto
dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. n. 7090/2022).
Nella fattispecie, l’iter logico -giuridico seguito dalla Corte distrettuale è chiaro e consente di individuare le ragioni per cui è stata ritenuta la insussistenza della giusta causa: la prospettazione della COGNOME di avere agito, in relazione agli episodi oggetto della contestazione disciplinare, su richiesta del collaboratore di studio della Legori e che questa ultima tollerava che la dipendente svolgesse operazioni che esulavano dal suo inquadramento (4^), e ciò sia su indicazioni di essa datrice che su richiesta del predetto collega, risultava per tabulas , dai numerosi messaggi di whatsapp e dalle immagini offerte in visione per cui l’addebito mosso non sussisteva nella sua antigiuridicità in quanto la dipendente non aveva fatto altro che eseguire, come in numerose altre occasioni, quanto le era stato richiesto su precise direttive di servizio.
Inoltre, è palese ed intellegibile la statuizione dei giudici di merito che hanno qualificato come ritorsivo il secondo licenziamento perché connesso alla indotta revoca del primo licenziamento, palesemente inefficace, e alla rivendicazione, da parte della lavoratrice, delle differenze retributive per le prestazioni svolte in costanza di rapporto.
La Corte distrettuale ha, quindi, svolto il suo esame in modo completo, con un accertamento di merito adeguatamente motivato (e pertanto insindacabile in questa sede), dando atto delle ragioni per cui è giunta alle conclusioni senza che possa essere rilevato alcun profilo di contraddittorietà o di illogicità.
Per completezza deve, poi, precisarsi che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie emergenze probatorie di quelle ritenute
più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad una esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 16467 del 2017).
In secondo luogo, deve evidenziarsi che si è in presenza, tra le pronunce di primo e secondo grado, di una situazione di cd. ‘doppia conforme’ e, n ell’ipotesi di “doppia conforme”, il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 c.p.c. è inammissibile se non indica (come nel caso in esame) le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5947/2023).
In terzo ed ultimo luogo, va sottolineato che il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui esso investa un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa o non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” risulti priva di fondamento (Cass. n. 18072/2024).
Nel caso de quo , come sopra ricordato, le modalità della condotta della lavoratrice emergevano da prove documentali rispetto alle quali l’escussione di testi non avrebbe potuto comportare una diversa valutazione dell’intera vicenda storica.
Anche il secondo motivo è destituito di fondamento.
La circostanza che il comportamento oggetto di addebito non potesse essere eseguito dalla COGNOME è un fatto che gli stessi giudici del merito hanno considerato.
Il problema della insussistenza della giusta causa è, invece, stato ricondotto alla mancanza di antigiuridicità del fatto stesso perché si è ritenuto che la dipendente avesse agito eseguendo,
come avvenuto in numerose altre occasioni, quanto le era stato richiesto su precise direttive di servizio della datrice di lavoro e/o del suo collaboratore dentista.
Le censure non si sostanziano, pertanto, in violazioni o falsa applicazione delle numerose disposizioni denunciate, ma tendono alla sollecitazione di una rivisitazione del merito della vicenda (Cass. n. 27197/2011; Cass. n. 6288/2011, Cass. n. 16038/2013), non consentita in sede di legittimità.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, per ciascun controricorrente, in virtù dei principi di soccombenza e di causalità che regolano le determinazioni sulle spese processuali.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore di ciascun controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 marzo 2025