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Licenziamento ritorsivo: quando la colpa è del datore

La Cassazione conferma l’illegittimità di un licenziamento ritorsivo nei confronti di un’assistente odontoiatrica. La corte ha stabilito che non sussiste giusta causa se il comportamento contestato, pur esulando dalle mansioni, era noto e tollerato dalla datrice di lavoro. Il licenziamento è stato considerato una ritorsione per una precedente impugnazione.

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Licenziamento Ritorsivo: Nullo se il Datore Tollerava il Comportamento

Un datore di lavoro non può licenziare un dipendente per un comportamento che ha sempre conosciuto e tollerato. Se tale licenziamento avviene dopo che il lavoratore ha esercitato un proprio diritto, può configurarsi un licenziamento ritorsivo, e come tale essere dichiarato nullo. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ribadisce questo principio fondamentale, offrendo importanti tutele ai lavoratori.

Il caso: dal licenziamento per motivo oggettivo al licenziamento ritorsivo

La vicenda riguarda un’assistente di studio odontoiatrico, inizialmente licenziata per giustificato motivo oggettivo. Dopo l’impugnazione da parte della lavoratrice, la datrice di lavoro revocava il primo licenziamento, collocandola in cassa integrazione. Tuttavia, a distanza di alcuni mesi, la stessa dipendente veniva nuovamente licenziata, questa volta per giusta causa.

L’addebito disciplinare era grave: aver eseguito trattamenti di igiene dentale, senza possedere il titolo abilitante, in un giorno di chiusura dello studio. La lavoratrice ha impugnato anche questo secondo licenziamento, sostenendo che si trattasse di una ritorsione.

Le decisioni di merito: la condotta era tollerata

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno dato ragione alla lavoratrice. I giudici hanno accertato che, sebbene l’assistente avesse effettivamente svolto mansioni superiori a quelle previste dal suo inquadramento, ciò era avvenuto con la piena consapevolezza e tolleranza della datrice di lavoro. Anzi, era la stessa titolare a fornire indicazioni affinché la dipendente intervenisse in quel modo, anche a favore di colleghi.

Di conseguenza, i giudici hanno concluso che il comportamento non poteva costituire una giusta causa di licenziamento. Inoltre, hanno qualificato il secondo recesso come un licenziamento ritorsivo, in quanto palesemente collegato alla precedente impugnazione della lavoratrice, che aveva costretto la datrice di lavoro a revocare il primo provvedimento.

L’analisi della Cassazione e il licenziamento ritorsivo

La datrice di lavoro ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando principalmente un vizio di motivazione da parte della Corte d’Appello e un’errata interpretazione delle norme sul profilo professionale dell’assistente di studio odontoiatrico.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso su tutta la linea, confermando le decisioni dei gradi precedenti. Gli Ermellini hanno chiarito che il loro giudizio sulla motivazione è limitato a verificare il rispetto del “minimo costituzionale”, e nel caso di specie la motivazione dei giudici d’appello era chiara, logica e completa.

Le motivazioni della Corte

Il cuore della decisione risiede nella distinzione tra l’illiceità di una condotta in astratto e la sua rilevanza sul piano disciplinare. La Corte ha spiegato che, sebbene eseguire trattamenti senza titolo sia illegittimo, nel contesto del rapporto di lavoro quel comportamento perde la sua antigiuridicità disciplinare perché era stato richiesto e autorizzato dalla stessa datrice di lavoro.

Le prove, inclusi numerosi messaggi WhatsApp, dimostravano in modo inequivocabile che la dipendente agiva secondo precise direttive di servizio. Pertanto, la datrice di lavoro non poteva poi usare quel comportamento, da lei stessa avallato, come pretesto per un licenziamento.

La Corte ha inoltre ritenuto palese e intellegibile la qualificazione del licenziamento come ritorsivo. La sequenza temporale e logica degli eventi (primo licenziamento, impugnazione, revoca, secondo licenziamento per fatti pregressi) dimostrava che l’intento reale non era sanzionare una presunta mancanza, ma punire la lavoratrice per aver rivendicato i propri diritti.

Conclusioni

Questa ordinanza rafforza un principio cardine del diritto del lavoro: la buona fede e la coerenza devono guidare il comportamento del datore di lavoro. Non è ammissibile contestare disciplinarmente condotte che sono state per lungo tempo tollerate, conosciute o addirittura incentivate. Farlo, soprattutto in reazione a un’azione legittima del lavoratore, integra la fattispecie del licenziamento ritorsivo, sanzionato con la nullità e la conseguente reintegrazione nel posto di lavoro. La decisione serve da monito per i datori di lavoro a non utilizzare il potere disciplinare in modo strumentale o vendicativo.

Può un datore di lavoro licenziare per giusta causa un dipendente per un comportamento che ha sempre tollerato?
No. Secondo la Corte di Cassazione, se il datore di lavoro era a conoscenza, tollerava e addirittura dava direttive affinché il lavoratore svolgesse determinate mansioni (anche se eccedenti il suo inquadramento), non può successivamente utilizzare quello stesso comportamento come motivo per un licenziamento per giusta causa. La condotta perde la sua antigiuridicità sul piano disciplinare.

Cos’è un licenziamento ritorsivo e quando viene riconosciuto?
È un licenziamento nullo perché la sua vera causa non è una mancanza del dipendente, ma una reazione illecita del datore di lavoro a un comportamento legittimo del lavoratore (es. un’azione legale, una richiesta di diritti). Nel caso analizzato, è stato riconosciuto perché il secondo licenziamento è apparso come una vendetta per l’impugnazione del primo licenziamento da parte della lavoratrice.

Se le sentenze di primo e secondo grado sono identiche (“doppia conforme”), è più difficile fare ricorso in Cassazione?
Sì. Il principio della “doppia conforme” limita fortemente la possibilità di contestare in Cassazione la motivazione della sentenza d’appello. In questi casi, il ricorso è inammissibile se il ricorrente non dimostra che le ragioni di fatto poste a base delle due decisioni sono diverse, cosa che rende molto più arduo ottenere un annullamento della sentenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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