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Licenziamento ritorsivo: quando è nullo? La Cassazione

Una lavoratrice ha impugnato il suo licenziamento durante il periodo di prova, sostenendo si trattasse di un licenziamento ritorsivo a seguito di sue lamentele. La Corte d’Appello aveva respinto la domanda, ravvisando una reciproca insoddisfazione nel rapporto. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione, dichiarando il ricorso inammissibile e ribadendo che, per aversi un licenziamento ritorsivo, il motivo illecito deve essere l’unica e determinante ragione del recesso, condizione non soddisfatta nel caso di specie.

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Pubblicato il 17 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento Ritorsivo: Quando è Nullo? La Cassazione Chiarisce

Il licenziamento durante il periodo di prova è un tema delicato, spesso percepito come una zona grigia dove il potere del datore di lavoro è quasi assoluto. Tuttavia, questo potere non è illimitato. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su un concetto cruciale: il licenziamento ritorsivo. Questo provvedimento ci aiuta a comprendere quali sono i limiti del recesso datoriale in prova e quali prove deve fornire il lavoratore per dimostrare che dietro la decisione si cela una vendetta e non una valutazione negativa del suo operato.

Il Caso: Recesso Durante il Periodo di Prova

La vicenda riguarda una lavoratrice assunta con la qualifica di Quadro e licenziata poco prima della scadenza del patto di prova. La dipendente ha impugnato il licenziamento, sostenendo che la vera causa non fosse il mancato superamento della prova, bensì una ritorsione. Secondo la sua difesa, il recesso era la conseguenza diretta di alcune sue lamentele, espresse in un colloquio con i vertici aziendali e in una successiva email, riguardanti l’organizzazione del lavoro.

Mentre il tribunale di primo grado le aveva dato ragione, la Corte d’Appello ha ribaltato la decisione. I giudici di secondo grado hanno ritenuto che le prove raccolte (incluse registrazioni audio e testimonianze) dimostrassero una reciproca insoddisfazione tra le parti. La lavoratrice non era contenta delle condizioni di lavoro, e l’azienda non era soddisfatta delle sue capacità e della sua personalità. Di conseguenza, non era possibile individuare nella ritorsione l’unico motivo del licenziamento.

La Prova del Licenziamento Ritorsivo: Un Onere Complesso

Il cuore della questione legale ruota attorno alla prova del licenziamento ritorsivo. Per legge (art. 1345 c.c.), un contratto è nullo se la sua causa è un motivo illecito comune a entrambe le parti. Nel contesto del lavoro, questo principio si applica quando il licenziamento è determinato da un motivo illecito unico ed esclusivo da parte del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso della lavoratrice, ha ribadito questo principio fondamentale. Per far dichiarare nullo un licenziamento per ritorsione, non basta sospettare che ci sia un nesso tra la protesta del dipendente e la sua uscita dall’azienda. Il lavoratore ha l’onere di dimostrare che il motivo illecito (la vendetta) è stato:
1. Determinante: l’unica vera ragione che ha spinto il datore di lavoro a licenziare.
2. Esclusivo: il motivo lecito addotto dall’azienda (in questo caso, il mancato superamento della prova) è in realtà inesistente o meramente pretestuoso.

Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che la motivazione della Corte d’Appello fosse solida: la presenza di una reciproca insoddisfazione costituiva una valida e plausibile ragione per il recesso durante la prova, escludendo così che la ritorsione potesse essere l’unico motore della decisione.

I Limiti del Giudizio di Cassazione

Un altro aspetto importante chiarito dall’ordinanza riguarda i limiti del giudizio di legittimità. Il ricorso per Cassazione non è un terzo grado di giudizio dove si possono riesaminare i fatti e le prove. La Suprema Corte può intervenire solo per violazioni di legge o per vizi di motivazione molto gravi (ad esempio, una motivazione del tutto assente o incomprensibile).

La Corte ha specificato che i motivi presentati dalla lavoratrice miravano, in realtà, a ottenere una nuova valutazione del materiale probatorio, un compito che spetta esclusivamente ai giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello). Poiché la motivazione della sentenza d’appello era logica e coerente, il ricorso è stato giudicato inammissibile.

Le Motivazioni della Decisione della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso basandosi su argomenti consolidati. In primo luogo, ha confermato che la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi in materia di licenziamento ritorsivo. È stato sottolineato come la ragione addotta dal datore di lavoro, ovvero la valutazione negativa dell’esperimento lavorativo, non fosse meramente formale o pretestuosa, ma trovasse riscontro in una situazione di insoddisfazione condivisa anche dalla lavoratrice riguardo alle condizioni del rapporto. La presenza di un valido motivo lecito, anche se concorrente, è sufficiente a escludere la nullità del licenziamento per ritorsione. Inoltre, i giudici hanno respinto le censure relative a una presunta motivazione apparente o contraddittoria, chiarendo che tali vizi sussistono solo quando la sentenza è talmente oscura da non far comprendere il ragionamento logico seguito dal giudice, circostanza non verificatasi nel caso di specie. Tutti i motivi del ricorso sono stati quindi ricondotti a un tentativo inammissibile di rivalutare i fatti e le prove, operazione preclusa in sede di legittimità.

Conclusioni: Cosa Insegna Questa Ordinanza

Questa decisione offre due importanti lezioni pratiche. La prima è che dimostrare un licenziamento ritorsivo è estremamente difficile. Il lavoratore deve fornire una prova rigorosa che la vendetta sia stata l’unica ed esclusiva causa del recesso, demolendo completamente la validità delle ragioni ufficiali fornite dall’azienda. La seconda è che la libertà di recesso durante il patto di prova, sebbene ampia, non è assoluta, ma la sua contestazione richiede basi probatorie solidissime che vadano oltre la semplice correlazione temporale tra un reclamo e la successiva interruzione del rapporto.

Quando un licenziamento può essere considerato ritorsivo?
Secondo la Corte, un licenziamento è ritorsivo solo quando il motivo illecito di vendetta costituisce l’unica, esclusiva e determinante ragione che ha spinto il datore di lavoro a interrompere il rapporto.

È sufficiente un collegamento temporale tra la protesta del lavoratore e il licenziamento per provarne la natura ritorsiva?
No. La decisione chiarisce che la mera correlazione temporale non è di per sé decisiva. Il lavoratore deve dimostrare che le ragioni legittime addotte dall’azienda (come il mancato superamento della prova) sono false o pretestuose e che l’unica vera causa è la ritorsione.

Il datore di lavoro può licenziare liberamente durante il patto di prova?
Sì, durante il periodo di prova il recesso è generalmente libero e non richiede motivazione. Tuttavia, questo diritto non può essere esercitato per un motivo illecito, come la ritorsione. Se però esiste una valida ragione legata all’esito negativo della prova (come una reciproca insoddisfazione), il licenziamento è legittimo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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