Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6224 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 6224 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 09/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 3455-2023 proposto da:
NOME COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 708/2022 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 19/09/2022 R.G.N. 210/2022;
Oggetto
PATTO DI PROVA
R.G.N. 3455/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 04/02/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Milano, in riforma del provvedimento del giudice di primo grado, ha respinto le domande proposte da RAGIONE_SOCIALE nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE per la declaratoria della nullità del licenziamento intimato il 5.5.2020 per mancato superamento del periodo di prova e per la condanna al risarcimento del danno.
La Corte territoriale ha rilevato che il quadro probatorio acquisito (in specie, file audio del colloquio intercorso tra la lavoratrice e i vertici della società in data 4.4.2020, mail inviata dalla stessa il giorno successivo, deposizioni testimoniali) ha dimostrato la reciproca insoddisfazione in ordine allo svolgimento del rapporto, con ciò escludendo la possibilità di ricondurre il recesso a motivo illecito determinante; i giudici del merito hanno, inoltre, rilevato che gli elementi forniti dalla lavoratrice a sostegno della natura ritorsiva del licenziamento erano ‘lacunosi e non concludenti’, posto che non appariva decisiva la mera correlazione temporale tra il colloquio, l’invio della mail e il provvedimento di recesso, essendosi limitata, in tali occasioni, la lavoratrice, ad esprimere alcune doglianze in ordine all’organizzazione e allo svolgimento dell’attività lavorativa senza avanzare rivendicazioni nei confronti della società; infine, la Corte territoriale ha, altresì, respinto la domanda di accertamento di demansionamento, rilevando che il materiale probatorio raccolto dimostrava che la lavoratrice era stata correttamente adibita alle mansioni di Controller (addetta al controllo dei costi di gestione, qualifica di Quadro) per le quali era stata assunta, era stata dotata degli strumenti informatici
necessari per svolgere il suddetto ruolo ed aveva ricevuto la formazione (di base, nonché specifica) adeguata alla funzione.
Avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. La società ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. violazione degli artt. 2096, 1375, 1175, 1366, 1345, 2119 c.c., 4 della legge n. 604 del 1966, 18 della legge n. 300 del 1970, 2729 c.c., avendo la Corte territoriale erroneamente ricercato altri motivi concorrenti (leciti) posti a base del licenziamento, senza attribuire valore determinante al motivo ritorsivo (reazione illegittima al colloquio e alla mail inviata dalla lavoratrice a Ceo e Cfo della società), da ritenersi provato per presunzione in base agli elementi acquisiti.
Con il secondo motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, 4, c.p.c. violazione degli artt. 132 c.p.c. e 111 Cost. avendo, la Corte territoriale, fornito una motivazione apparente e contraddittoria ed avendo valutato erroneamente il contenuto delle deposizioni testimoniali.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. omesso esame circa un fatto decisivo della controversia con riguardo alla interpretazione fornita dalla Corte territoriale in ordine alla mail scritta dalla lavoratrice.
Con il quarto motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c. violazione dell’art. 2103 c.c. nonché omessa motivazione in ordine al capo di rigetto della domanda di demansionamento, illogicità delle argomentazioni e
carenza assoluta della ratio decidendi avendo, le deposizioni testimoniali assunte, reso evidente il demansionamento.
Il ricorso è inammissibile.
Tutti i motivi, formulati o come violazione o falsa applicazione di legge o come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio o come errore di percezione, mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità.
Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
Questa Corte ha già affermato che, in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 1, della legge n. 300 del 1970, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a
fondamento del licenziamento (Cass. n. 9468 del 2019; Cass. n. 17266 del 2024).
La Corte territoriale si è conformata ai principi innanzi richiamati, sottolineando che -alla luce del quadro probatorio acquisito – la ragione addotta a fondamento del licenziamento (intimato pacificamente verso la fine del periodo di prova) non risultava meramente formale, apparente o, comunque, pretestuoso, bensì consisteva effettivamente nella valutazione negativa dell’esperimento sia da parte del datore di lavoro (in ordine alle capacità e alla personalità della lavoratrice) sia da parte della lavoratrice stessa (in ordine alle condizioni di svolgimento del rapporto).
In ordine alla censura di contraddittorietà e apparenza di motivazione di cui al secondo motivo, va rammentato che la nullità della sentenza per mancanza della motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., è prospettabile quando la motivazione manchi addirittura graficamente, ovvero sia così oscura da non lasciarsi intendere da un normale intelletto. In particolare, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cfr. Cass. n. 3819 del 2020), non essendo più ammissibili, a seguito alla riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012), le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata (Cass. n. 23940 del 2017).
La Corte territoriale ha fornito ampia e approfondita motivazione con riguardo sia ai motivi posti a base del licenziamento (nel periodo di prova) sia all’adeguatezza dei compiti affidati alla lavoratrice rispetto al livello di inquadramento e al ruolo assegnati.
In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, de ll’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 4 febbraio 2025.
La Presidente dott.ssa NOME COGNOME