Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 12277 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 12277 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/05/2025
SENTENZA
sul ricorso 11076-2024 proposto da:
IL RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1056/2024 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/03/2024 R.G.N. 2643/2023;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/02/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
R.G.N. 11076/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 19/02/2025
PU
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n. 1056/2024, ha rigettato il reclamo proposto avverso la pronuncia del Tribunale di Roma che, all’esito del giudizio ex art. 1 comma 51 legge n. 92 del 2012, aveva confermato quanto statuito in fase sommaria in ordine alla dichiarazione di nullità del licenziamento intimato a NOME COGNOME dalla RAGIONE_SOCIALE con raccomandata del 4.5.2022, con conseguente ordine alla società di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e con condanna al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella della reintegra, calcolate sulla base dell’ultima retribuzione globale di fatto pari ad euro 3.092,83, oltre accessori e regolarizzazione contributiva previdenziale e assistenziale.
La Corte territoriale, per quello che interessa, ha rilevato che: a) correttamente, nel caso in esame, era stato ritenuto dal primo giudice che il rito da applicare fosse quello cd. Fornero in quanto la nuova disciplina per i licenziamenti, di cui all’art. 441 bis e ss. c.p.c., si applicava solo ai procedimenti introdotti a far data dal 28.2.2023 mentre, per quelli pendenti a tale data, continuava ad applicarsi la normativa di cui alla legge n. 92 del 2012, che non doveva ritenersi immediatamente abrogata dall’art. 37 D.lgs. n. 149/2022; b) la missiva datata 28.2.2022, con la quale contemporaneamente veniva disposta la reintegra del COGNOME nel precedente posto di lavoro ed il nuovo licenziamento per g.m.o., inviata dopo un periodo di oltre venti mesi dalla ordinanza n. 45192/2020 del 3.6.2020, che aveva già disposto la reintegra del lavoratore all’esito di altro giudizio, adduceva in sostanza il medesimo giustificato motivo già ritenuto illegittimo in sede giudiziale; c) era, pertanto, ravvisabile la sussistenza di un intento elusivo del precedente ordine di reintegra e, quindi, la nullità del
licenziamento per motivo illecito; d) comunque la cessione/esternalizzazione dei servizi, posta a base della società per giustificare il licenziamento, era stata una operazione illegittima e fittizia; e) in realtà l’unico motivo determinante il licenziamento era stato quello illecito, concretizzatosi in una reazione a provvedimenti giudiziari legittimamente ottenuti dal lavoratore a tutela dei propri diritti.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi cui ha resistito con controricorso NOME COGNOME.
Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso; le suddette conclusioni sono state confermate in sede di udienza di discussione.
Le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 35 e 37 D.lgs. n. 149/22, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., per avere erroneamente la Corte territoriale ritenuto applicabile, alla controversia in esame, l’art. 1 commi da 47 a 69, della legge n. 92 del 2012. Si rappresenta che l’art. 37 del D.lgs. n. 149/2022 prevedeva l’abrogazione immediata delle norme del cd. Rito Fornero, disciplinando alcune abrogazioni esplicite di disposizioni, che costituiva una deroga al regime delle disposizioni transitorie di cui all’art. 35 stesso decreto legislativo: ciò in virtù dell’inciso ‘salvo che non sia diversamente disposto’ .
Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 1345 e 2729 cod. civ., nonché dell’art. 3 della legge n. 604/1966, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., per avere la Corte territoriale stravolto l’indagine sull’elemento costitutivo del recesso (provato e non contestato) rappresentato dalla dismissione in ambito aziendale di figure professionali di addetto allo svolgimento delle mansioni a suo tempo assegnate al COGNOME o di altre equivalenti, riconducendolo aprioristicamente e presuntivamente ad una fattispecie di licenziamento nullo, perché ritorsivo, e/o connotato da un motivo illecito, anche in violazione
dell’orientamento giurisprudenziale affermatosi sulla questione; si deduce, altresì, che vi era stata una inversione logico consequenziale, costituente violazione di legge, in quanto prima avrebbe dovuto essere accertata la effettiva reintegrabilità del COGNOME nelle mansioni precedentemente assolte e, solo in caso di esito negativo di tale indagine, si sarebbe potuto procedere a valutare il carattere ritorsivo del licenziamento; si rappresenta, infine, che dalla analisi della sentenza non era possibile ricavare alcun argomento che inducesse a ritenere che l’elusione dell’ordine di reintegra fosse stato il motivo illecito effettivo e soprattutto, unico e determinante.
Con il terzo motivo si obietta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1344 cod. civ., 3 Legge n. 604/1966, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., per essere stato il recesso di cui è processo ricondotto ad un licenziamento in frode, rilevante ai sensi dell’art. 1344 cod. civ. quando, invece, di tale fattispecie, la cui natura è costituita dal fatto che viene raggiunto un risultato vietato dalla legge nonostante il mezzo impiegato sia lecito, non sussistevano i presupposti perché il COGNOME era stato licenziato a causa dell’impossibilità di riceverne la prestazione e detta impossibilità non consentiva di individuare i plurimi elementi soggettivi e oggettivi ai fini del perseguimento, da parte del datore di lavoro, di un fine illecito.
Il primo motivo è infondato.
Giova premettere che, secondo l’ordinamento giuridico processual-civilistico, il concetto di litispendenza del giudizio è stato così delineato: per i giudizi introdotti con l’atto di citazione, la litispendenza della controversia sia ha con la notifica dell’atto di citazione; per i giudizi introdotti con ricorso, la litispendenza si verifica con il deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice adito; per i provvedimenti monitori, introdotti con il ricorso ingiuntivo, ai sensi dell’art. 643 c.p.c. che costituisce una eccezione alla norma generale, la pendenza della lite è determinata dalla notificazione del ricorso e del decreto.
Orbene, va detto che l’art. 35 richiamato ha previsto, in un contesto attuativo della legge delega proprio attinente alla materia
processuale, che le disposizioni del decreto legislativo abbiano effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applichino ai procedimenti instaurati solo successivamente a tale data.
Per poter procedere all’applicazione del nuovo testo dell’art. 441 bis c.p.c., occorre dunque far riferimento al momento di instaurazione della controversia, coincidente con la proposizione dell’azione dinanzi al giudice di primo grado: momento che, nel caso di specie, all’epoca del varo del d.lgs. n. 149 si era già compiuto.
Come puntualmente e correttamente rilevato dall’Ufficio della Procura Generale, al momento dell’instaurazione del procedimento la riforma, dunque, non era ancora in vigore: ipotizzare l’abrogazione delle norme della l. n. 92/2012 in corso di causa, comporterebbe, dunque, null’altro che un vuoto di disciplina, rispetto al quale la stessa parte ricorrente non prospetta alcun rimedio processuale.
L’abrogazione di cui alle norme del rito Fornero comporta ex se la necessaria entrata in vigore delle nuove disposizioni: ma per espressa volontà legislativa a queste ultime poteva darsi applicazione solo ai procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023. Tale tecnica legislativa, del resto, è coerente con il principio della perpetuatio iurisdictionis ai sensi del quale il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda.
L’art. 37 dello stesso decreto, in quanto disposizione oggetto della disciplina transitoria, priva di una espressa diversa disciplina intertemporale, va ritenuto applicabile dunque solo ai giudizi introdotti successivamente alla data indicata nell’art. 35 comma 1, cit.; del resto, la disposizione transitoria appare formulata proprio al fine di evitare possibili dubbi interpretativi, disponendo espressamente che ai procedimenti pendenti a quella data siano applicabili le disposizioni anteriormente vigenti.
Nella stessa relazione, poi, al citato decreto legislativo, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 19 ottobre 2022 – Serie generale, sempre come condivisibilmente sottolineato dall’Ufficio della Procura Generale, è precisato che l’articolo 35
comma 1, è stato introdotto proprio ‘al fine di consentire un avvio consapevole, da parte degli operatori, delle novità normative’, e che ‘le disposizioni recate dal decreto legislativo si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data, con la precisazione – a fugare possibili dubbi interpretativi – che ai procedimenti pendenti a quella data continuano ad applicarsi le disposizioni anteriormente vigenti’. Così facendo, ci si è assicurati che l’abrogazione delle norme preesistenti e l’applicazione delle nuove norme (si pensi, ad esempio, all’abrogazione del c.d. ‘rito Fornero’ e alle nuove disposizioni in tema di procedimenti di impugnazione dei licenziamenti) operino contestualmente.
Avendo riguardo a tutti i criteri ermeneutici delle disposizioni legislative, pertanto, da quello letterale a quello teleologico e sistematico, deve convenirsi che l’interpretazione fornita dalla Corte di merito è quella esatta, in un contesto esegetico in cui il termine ‘procedimenti’ è stato adoperato quale sinonimo di ‘giudizi’.
Il secondo motivo è parimenti infondato.
Deve evidenziarsi che, nelle more del giudizio, con l’ordinanza di questa Corte n. 20083/2024 è passata in giudicato la pronuncia del Tribunale di Roma che, dichiarando nullo il trasferimento del contratto di lavoro di NOME COGNOME intercorso in data 23.12.2015 tra il Messaggero RAGIONE_SOCIALE aveva dichiarato persistente il rapporto di lavoro dell’odierno controricorrente con il Messaggero S.p.A. e aveva condannato quest’ultima a riammettere il COGNOME in servizio e a versare i relativi contributi previdenziali al cd. Fondo Casella dal momento della illegittima interruzione del rapporto di lavoro.
E’ opportuno ricordare che, nel giudizio di cassazione, in caso di giudicato esterno conseguente ad una sentenza della stessa Corte, la cognizione del giudice di legittimità può avvenire anche mediante quell’attività di ricerca (relazioni, massime ufficiali e consultazione del CED) che costituisce corredo del collegio giudicante nell’adempimento della funzione nomofilattica di cui all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario e del dovere di
prevenire contrasti tra giudicati, in coerenza con il principio del ne bis in idem (Cass. n. 24740/2015).
Inoltre, anche il precedente licenziamento, intimato dal RAGIONE_SOCIALE il 25.6.2019 al RAGIONE_SOCIALE, è stato dichiarato nullo dal Tribunale di Roma perché ritorsivo.
Orbene, in primo luogo va osservato che non sono meritevoli di accoglimento le doglianze circa una asserita inversione logico-giuridica della Corte distrettuale la quale, a differenza di quanto ritenuto dalla ricorrente, per giungere alla verifica della natura ritorsiva del licenziamento della cui legittimità era stata investita, ha preliminarmente valutato gli elementi giustificativi del recesso come intimato.
In secondo luogo, in relazione a tale specifico profilo, questo Collegio rileva che tutte le questioni inerenti, secondo parte ricorrente, alla intervenuta completa dismissione delle attività estranee al settore giornalistico e alla conseguente impossibilità di ricollocare il lavoratore -che non era giornalista-, sono superate dal giudicato formatosi sul fatto che l’intervenuto trasferimento del ramo di azienda, che avrebbe giustificato tale dismissione per la posizione del COGNOME, è stato ritenuto nullo in via definitiva.
In relazione a tale problematica non può valere l’argomentazione della società che la reintegra non sarebbe stata possibile perché avrebbe comportato un costo aggiuntivo non previsto nei piani aziendali: trattasi di costo necessario per adempiere ad un ordine del giudice. L’obbligo di reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro a seguito di sentenza con cui, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, il licenziamento sia stato dichiarato illegittimo, viene meno, per impossibilità sopravvenuta della prestazione, solo in presenza di cause che impediscano oggettivamente e in modo assoluto il potere di assunzione da parte del datore di lavoro o lo svolgimento della prestazione da parte del lavoratore (Cass. n. 9307/2000): ipotesi non ravvisabile nel caso concreto ove, comunque, l’attività editoriale della società era in essere e il dipendente era addetto all’archivio redazionale inserito nella segreteria di redazione.
10. Accertata, quindi, correttamente dalla Corte territoriale l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo, va, poi, sottolineato che le valutazioni circa l’interpretazione delle motivazioni del secondo recesso intimato al COGNOME, che i giudici di seconde cure hanno ritenuto uguale a quelle già in precedenza precisate e poste a fondamento del primo licenziamento, nonché alla ricorsività del secondo recesso, caratterizzato dalla presenza di un motivo unico e determinante costituito dalla volontà di eludere l’ordine di reintegra già disposto, reiterando le ragioni del 2016 già sconfessate da una precedente valutazione dei giudici cui non si è mai dato seguito, costituiscono accertamenti di merito insindacabili in sede di legittimità.
11. Invero, va rilevato che nell’interpretazione degli atti unilaterali, il canone ermeneutico di cui all’art. 1362, primo comma, cod. civ., impone di accertare – mancando una comune intenzione delle parti -esclusivamente l’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, ferma l’applicabilità, atteso il rinvio operato dall’art. 1324 cod. civ., del criterio dell’interpretazione complessiva dell’atto e senza che possa farsi ricorso alla valutazione del comportamento dei destinatari di esso (Cass., n. 25608 del 2013). Nell’interpretazione dei negozi unilaterali tra vivi, non essendo utilizzabile il criterio della comune volontà delle parti, né quello del loro comportamento complessivo, i criteri ermeneutici principali sono quelli del senso letterale delle parole, e dell’interpretazione complessiva delle clausole le une per mezzo delle altre (Cass. n. 2399 del 2009). Secondo i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità rispetto ai contratti, ma che può trovare applicazione anche con riguardo all’interpretazione degli atti unilaterali, la contestazione proposta in sede di legittimità non può limitarsi a prospettare una interpretazione alternativa della dichiarazione unilaterale, fondata sulla valorizzazione di talune espressioni ivi contenute piuttosto che di altre, ma deve rappresentare elementi idonei a far ritenere erronea la valutazione ermeneutica operata dal giudice del merito, cui l’attività di interpretazione dell’atto è riservata (cfr., Cass., n. 15471 del 2017): nel caso de quo , invece, l’interpretazione dell’atto del
secondo recesso, fornita da parte ricorrente, si contrappone puramente e semplicemente a quella adottata dalla Corte distrettuale.
Inoltre, deve sottolinearsi che la prova del carattere ritorsivo del licenziamento, che grava sul lavoratore, ben può essere ricavata dal giudice di merito valorizzando tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova medesima (Cass. n. 23583/2019).
Nella fattispecie, la Corte capitolina, nella ricostruzione di tutta la lunga vicenda, con un accertamento di fatto adeguatamente motivato, ha rilevato l’identico presupposto fattuale posto a base dei due recessi; ha, poi, escluso la sussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto (intervenuto trasferimento di azienda) e ha ritenuto, infine, che il secondo licenziamento aveva l’obiettivo sostanziale di rendere vano il diritto del lavoratore di riottenere il proprio posto di lavoro, valutando tutti gli elementi, cronologici, comportamentali, materiali e giurisdizionali che il lavoratore aveva offerto in giudizio e concludendo con l’affermare, quindi, che l’elusione dell’ordine di reintegra era stato il motivo illecito unico e determinante del secondo licenziamento.
Si è, dunque, in presenza di una motivata valutazione di merito, in quanto tale insindacabile in questa sede.
Il terzo motivo, infine, è inammissibile.
In presenza dell’accertato carattere ritorsivo del licenziamento, ogni questione sulla natura fraudolenta di esso resta superata. In ogni caso, deve rilevarsi che il riferimento ad uno schema fraudolento è stato adoperato dai giudici di seconde cure richiamando un precedente di legittimità, senza che lo stesso nell’impianto decisionale abbia assunto una valenza determinante: in sede di legittimità, le censure rivolte avverso argomentazioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata e svolte
ad abundantiam o costituenti obiter dicta sono inammissibili per difetto di interesse, poiché esse, in quanto prive di effetti giuridici, non determinano alcuna influenza sul dispositivo della decisione (Cass. n. 1770/2025).
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 febbraio 2025