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Licenziamento ritorsivo: non basta la sproporzione

Un dipendente, dopo aver vinto una causa contro un trasferimento illegittimo, subisce una serie di contestazioni disciplinari che culminano nel licenziamento. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 741/2024, chiarisce un punto fondamentale: per qualificare un licenziamento come ritorsivo non è sufficiente dimostrare che la sanzione fosse sproporzionata rispetto alla condotta contestata. È necessario che il lavoratore provi che la ritorsione sia stata l’unico e determinante motivo alla base della decisione del datore di lavoro, degradando ogni altra giustificazione a mero pretesto. La Corte ha quindi annullato la decisione d’appello che aveva dichiarato nullo il licenziamento, rinviando il caso per un nuovo esame.

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Pubblicato il 18 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento Ritorsivo: la Sproporzione non Basta a Provarlo

Un licenziamento ritorsivo è una delle più gravi violazioni che un datore di lavoro possa commettere, poiché colpisce il lavoratore non per una sua colpa, ma come vendetta per aver esercitato un proprio diritto. Tuttavia, provarne l’esistenza in giudizio può essere complesso. La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 741/2024, ha ribadito un principio cruciale: la semplice sproporzione tra la colpa contestata e la sanzione del licenziamento non è, da sola, sufficiente a dimostrare l’intento ritorsivo del datore di lavoro. Vediamo insieme i dettagli di questo importante caso.

I Fatti di Causa

La vicenda riguarda il responsabile di un negozio di abbigliamento, il cui rapporto di lavoro con l’azienda si era incrinato a seguito di un trasferimento da Roma a San Giuliano Milanese, poi dichiarato illegittimo dal Tribunale di Lodi. Dopo essere stato reintegrato presso la sede di Fiumicino, il lavoratore si è trovato al centro di una serie di eventi che suggerivano un clima ostile.

Secondo quanto emerso in giudizio, il suo superiore gerarchico aveva sollecitato gli altri dipendenti a segnalare ogni possibile mancanza del collega. Da quel momento, il lavoratore ha iniziato a ricevere una serie di contestazioni disciplinari per motivi di varia natura: dalla gestione organizzativa del negozio all’errata custodia di una carta di debito, fino alla scorretta esposizione dei prezzi. La tensione è culminata in un episodio specifico: una discussione con una collega, degenerata in un lieve contatto fisico (strattonamento), a cui si aggiungeva un errore formale su un cartellino promozionale. Sulla base di questi fatti, l’azienda ha proceduto al licenziamento per giusta causa.

Il Percorso Giudiziario

Il caso ha avuto un iter complesso nei tribunali di merito.

* Il Tribunale di Padova, in un primo momento, ha ritenuto legittimo il licenziamento. Successivamente, nel giudizio di opposizione, ha cambiato orientamento, dichiarandolo illegittimo per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva. Ha quindi applicato la tutela indennitaria prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
* La Corte d’Appello di Venezia ha ribaltato nuovamente la decisione. Accogliendo il reclamo del lavoratore, ha qualificato il licenziamento non solo come illegittimo, ma come nullo perché ritorsivo. Secondo la Corte territoriale, l’intento di vendetta era l’unico vero motivo del recesso, condannando l’azienda alla reintegrazione piena del dipendente nel posto di lavoro e al risarcimento completo del danno.

La Prova del Licenziamento Ritorsivo secondo la Cassazione

L’azienda ha impugnato la sentenza d’appello dinanzi alla Corte di Cassazione, che ha accolto il suo ricorso. Il punto centrale della decisione dei giudici supremi è la netta distinzione tra un licenziamento illegittimo per sproporzione e un licenziamento nullo per ritorsione.

La Cassazione ha chiarito che, per aversi un licenziamento ritorsivo, il motivo illecito (la vendetta) deve essere stato l’unico e determinante fattore che ha spinto il datore di lavoro a interrompere il rapporto. Non è sufficiente che l’intento ritorsivo sia uno dei tanti motivi; deve essere l’unica vera ragione.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto che la Corte d’Appello abbia commesso un errore logico e giuridico, confondendo i due piani. I giudici di secondo grado hanno dedotto il carattere ritorsivo del licenziamento unicamente dalla constatazione che i fatti addebitati non erano abbastanza gravi da giustificare una sanzione così estrema. Questo, secondo la Cassazione, non è corretto.

La sproporzione della sanzione può essere un indizio importante (un elemento presuntivo), ma non è la prova conclusiva. Per dimostrare la ritorsione, il lavoratore deve fornire elementi ulteriori che facciano emergere come la giustificazione disciplinare addotta dall’azienda sia in realtà un mero pretesto, una facciata costruita per nascondere l’unica vera intenzione: punire il lavoratore per motivi estranei al rapporto di lavoro.

In altre parole, la presenza di una condotta disciplinarmente rilevante, sebbene non così grave da meritare il licenziamento, impedisce di affermare automaticamente che l’unico motivo del recesso sia stata la ritorsione. Bisogna provare che quella condotta è stata solo la scusa per liberarsi di un dipendente “scomodo”.

Conclusioni

L’ordinanza della Cassazione ha quindi annullato la sentenza d’appello e ha rinviato la causa ad un’altra sezione della stessa Corte per un nuovo esame. I nuovi giudici dovranno attenersi al principio enunciato: non potranno desumere il carattere ritorsivo dalla sola sproporzione della sanzione, ma dovranno valutare se, alla luce di tutti gli elementi (la storia del trasferimento illegittimo, le pressioni sui colleghi, la sequenza di contestazioni), l’intento di vendetta sia stato l’unico ed esclusivo motore della decisione aziendale.

Questa pronuncia rafforza un orientamento consolidato, ponendo un onere probatorio significativo a carico del lavoratore che denuncia un licenziamento ritorsivo. Al tempo stesso, funge da monito per i datori di lavoro: mascherare una ritorsione dietro un pretesto disciplinare debole è una strategia rischiosa, che un’attenta analisi giudiziaria può smascherare, portando alle conseguenze più gravi previste dalla legge, ossia la nullità dell’atto e la reintegrazione del dipendente.

Quando un licenziamento è considerato ritorsivo?
Un licenziamento è considerato ritorsivo quando si dimostra che l’unica e determinante ragione della decisione del datore di lavoro è stata la vendetta o la rappresaglia per un comportamento legittimo del lavoratore, e non una reale mancanza disciplinare.

La sproporzione della sanzione disciplinare è sufficiente per provare che il licenziamento è ritorsivo?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la sola sproporzione tra la condotta addebitata al lavoratore e la sanzione del licenziamento non è di per sé sufficiente a provare il carattere ritorsivo. Può costituire un importante indizio, ma devono esserci altri elementi che dimostrino che la motivazione disciplinare era solo un pretesto.

Su chi ricade l’onere di provare il carattere ritorsivo del licenziamento?
L’onere della prova grava sul lavoratore che afferma di aver subito un licenziamento ritorsivo. Egli deve dimostrare che l’intento illecito del datore di lavoro è stato il motivo unico e determinante del recesso, anche attraverso presunzioni.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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