Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 1686 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 1686 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 22330-2020 proposto da:
NOME COGNOME, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
Licenziamento legge n. 92 del 2012
R.G.N. 22330/2020
COGNOME.
Rep.
Ud. 05/12/2023
CC
avverso la sentenza n. 457/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 22/06/2020 R.G.N. 157/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/12/2023 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
Con la sentenza n. 457/2020 la Corte di appello di Milano ha confermato la pronuncia, emessa dal Tribunale della stessa sede, con cui era stata rigettata l’impugnazione del licenziamento intimato a NOME COGNOME, in data 6.12.2017, dalla società RAGIONE_SOCIALE di cui era dipendente.
Il recesso era stato adottato per le affermazioni proferite dalla lavoratrice alla responsabile del punto vendita, tale COGNOME, ed in presenza di colleghe (‘ce l’ho in pugno, ho fotografato dei capi da uomo e dico che lei li vende’; ‘queste fotografie sono la mia assicurazione’; ‘ho vinto, ho vinto ‘) che integravano gli estremi della insubordinazione e della minaccia grave.
I giudici di merito hanno ritenuto pienamente provati i fatti oggetto di contestazione mentre gli addebiti che la lavoratrice aveva mosso a carico della responsabile del punto vendita per giustificare la propria condotta (e cioè che questa vendeva agli ad detti merce di altri marchi ‘non RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE‘ che si faceva recapitare in negozio) erano risultati indimostrati.
In particolare, la Corte distrettuale ha rilevato una corretta lettura e valutazione, da parte del primo giudice, delle risultanze istruttorie e ha valutato che le condotte addebitate e dimostrate erano gravi e sufficienti ad integrare gli estremi della giusta causa ex art. 2119 cc; inoltre, hanno evidenziato la tempestività della contestazione (del 6.11.2017 rispetto a fatti avvenuti il 21.10.2017) trasmessa con raccomandata ricevuta a mani dalla dipendente; hanno escluso, infine, la asserita ritorsività del disposto recesso.
Avverso la sentenza di secondo grado NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi cui ha resistito con controricorso RAGIONE_SOCIALE.
La società ha depositato memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di legge, ex art. 360 co. 1 n. 3 cpc, in relazione all’art. 2119 cc. Deduce che la Corte territoriale, per giustificare il licenziamento, era partita dal presupposto che essa dipendente aveva tenuto un comportamento insubordinato quando, invece, ella aveva tenuto sempre un comportamento corretto e diligente e che ciò che l’aveva insospettita, nei fatti accaduti il 21.10.2017, era stata la circostanza di avere visto, all’interno d ei locali dove prestava la propria attività lavorativa, vestiti da uomo che non potevano essere di marca ‘RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE‘ che produce e vende solo abiti femminili; inoltre, sostiene che le frasi proferite non integravano una minaccia grave e che non era derivato, dalla vicenda, alcun suo interesse personale né un pregiudizio o nocumento per la società e per le sue dipendenti.
Con il secondo motivo si eccepisce l’omessa valutazione circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, per non avere la Corte territoriale rilevato l’intempestività della co ntestazione, a fronte di una asserita eccezionale gravità della condotta di immediato accertamento, essendo decorsi ben ventisei giorni tra la commissione dei fatti addebitati e la notifica della contestazione disciplinare.
Il primo motivo è infondato.
E’ preliminare ribadire il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n.
5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.
6. Ciò premesso, nella fattispecie è senza dubbio condivisibile la sussunzione, operata dalla Corte di appello, dei fatti contestati e provati (avere, cioè, la incolpata fotografato con il proprio cellulare capi di abbigliamento maschile, acquistati altrove, di proprietà di una cliente che aveva chiesto il permesso di lasciarli in custodia nell’esercizio commerciale e avere pronunciato, in presenza di altri dipendenti, le seguenti frasi: ‘ce l’ho in pugno, ho fotografato i capi da uomo e dico che li vende’; ‘ho vinto, ho vinto’; queste fotografie sono la mia assicurazione’ ) negli estremi della minaccia grave, da intendersi quale prospettazione di volere arrecare ad un superiore un danno ingiusto, e della
insubordinazione, che ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle disposizioni -con violazione, pertanto, degli obblighi di collaborazione e fedeltà- nel quadro della organizzazione aziendale che, nel caso concreto, acconsentiva, come da prassi e nulla disponendo in contrario il relativo regolamento, alle richieste delle clienti che avessero eseguito spese significative di custodire in negozio i prodotti acquistati per poi ritirarli successivamente.
I giudici di seconde cure hanno, però, anche evidenziato, con un accertamento in fatto adeguatamente motivato, che in ogni caso il comportamento della lavoratrice era di per sé di una gravità tale da giustificare il licenziamento per giusta causa, soprattutto in considerazione delle finalità e delle modalità con cui le gravi ed infondate accuse erano state mosse, cioè con dichiarato intento ricattatorio, alla presenza di altre dipendenti oltre che della superiore gerarchica che ne era la destinataria.
Il ragionamento della Corte territoriale non è stato limitato, quindi, al solo profilo della sussunzione della condotta addebitata nelle fattispecie astratte della minaccia grave e della insubordinazione, ma con un giudizio di fatto, esente da vizi motivazionali e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, è stata ritenuta la sussistenza degli elementi che integravano il parametro normativo della giusta causa, secondo gli standards conformi ai valori dell’ordinamento per un grave inadempimento o un grave comportamento del lavoratore contrario alle regole dell’etica e del comune vivere civile.
Il secondo motivo, veicolato ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, è invece inammissibile.
In tema di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo (quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura
organizzativa dell’impresa), con valutazione riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (per tutte, Cass. n. 281/2016; Cass. n. 16841/2018).
La Corte distrettuale, in punto di diritto, si è attenuta al principio di diritto sopra precisato e con un accertamento in fatto, conforme a quello del primo giudice, ha ritenuto che il periodo trascorso, tra i fatti e la contestazione disciplinare, fosse adeguato con riguardo alla tempestività dell’addebito.
Vertendosi, pertanto, in una ipotesi di cd. ‘doppia conforme’, relativamente ad una questione in fatto decisa allo stesso modo dai giudici di merito e fondata, in diritto, su consolidati orientamenti giurisprudenziali di legittimità, la doglianza si rivela, pertanto, inammissibile.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.