Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8149 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8149 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 27/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 30225-2022 proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 703/2022 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 04/11/2022 R.G.N. 325/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Oggetto
Licenziamento
per giusta causa
R.G.N. 30225/2022
COGNOME
Rep.
Ud.07/11/2024
CC
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte di appello di Firenze rigettava il reclamo proposto da NOME COGNOME contro la sentenza del Tribunale di Livorno n. 115/2022 che aveva respinto la sua opposizione all’ordinanza del medesimo Tribunale, che, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, pure aveva respinto la sua impugnativa del licenziamento per giusta causa intimatole dalla convenuta Intesa Sanpaolo s.p.a. con lettera dell’8.3.2019, ed aveva parzialmente accolto la domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento dei danni, proposta da detta società; con la stessa sentenza la Corte d’appello accoglieva, invece, il reclamo incidentale proposto da Intesa Sanpaolo s.p.a. e condannava la lavoratrice al pagamento, in favore di Intesa Sanpaolo, delle maggiori somme indicate in dispositivo, oltre accessori.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva che la lavoratrice, dipendente di Intesa Sanpaolo s.p.a. presso la filiale di Portoferraio, inquadrata nella terza area professionale, 4° livello del CCNL applicato, con ruolo di gestore di Privati e Aziende Retail, in data 17.12.2018, previa sospensione cautelare, aveva ricevuto una contestazione disciplinare in cui le si addebitava, a seguito di verifiche ispettive effettuate a seguito di numerosi reclami, il fatto che alcuni clienti avevano disconosciuto un gran numero di operazioni contabilizzate sui propri conti correnti, operazioni consistenti per lo più in prelevamenti di contanti, in alcuni casi di versamenti o altre operazioni; clienti che poi avevano chiesto la restituzione delle relative somme; che, in particolare, era emerso che su 10 conti correnti complessivamente interessati dai reclami, le contabili di ben 131 operazioni (di cui 115 di
prelevamento contanti) effettuate dalla dipendente recavano firme palesemente difformi da quelle depositate dai titolari, e che nella maggior parte dei casi le operazioni erano state eseguite dalla dipendente con il rilascio di credenziali ‘one shot’, successivamente utilizzate per il ritiro di contanti (e per l’esecuzione di versamenti) presso apparecchiature ATM/MTA e Cassa Self Assistita della Filiale, sempre in orari in cui la sua postazione di lavoro risultava inattiva; che in alcuni casi le operazioni effettuate sulla stessa CSA della Filiale risultavano effettuate in stretta sequenza temporale con le operazioni effettuate sulla stessa CSA e a valere sul conto personale della dipendente, e che su tutti i rapporti interessati dalle operazioni irregolari, risultavano poi effettuate dalla lavoratrice quotidiane e ripetute interrogazioni non giustificate da alcuna esigenza di servizio. Aggiungeva la Corte che nella articolata e lunga contestazione disciplinare (a cui rinviava per il dettaglio) venivano poi analiticamente indicati i nominativi dei clienti interessati da dette operazioni.
2.1. La Corte, tra l’altro, dava diffusamente conto di quanto considerato dal primo giudice nella sentenza resa in sede d’opposizione e dei motivi del reclamo principale della lavoratrice, e in apertura della propria motivazione specificava che si trattava prevalentemente di operazioni di prelevamento e quindi di addebiti sul conto corrente; prelevamenti effettuati per lo più attraverso il sistema dello ‘one shot’, che, per come emerso dall’istruttoria, consisteva in una pratica di prelevamento a mezzo bancomat che poteva essere effettuata da qualsiasi operatore bancario, per cui il cliente anche senza carta bancomat poteva prelevare denaro, previo rilascio di credenziali che appunto venivano utilizzate una volta sola per il
prelievo; prelievo che il medesimo cliente effettuava accompagnato al distributore automatico dall’operatore.
Ciò premesso, la Corte territoriale, dopo aver diffusamente e analiticamente riconsiderato tutte le risultanze processuali, riteneva anzitutto che poteva affermarsi la responsabilità dell’allora reclamante principale, senza necessità di dar corso ad una perizia calligrafica.
La Corte, inoltre, osservava che la sanzione inflitta appariva proporzionata, considerata la gravità delle condotte poste in essere in relazione all’inquadramento della lavoratrice nel 4° livello della terza area professionale, livello cui appartengono i lavoratori incaricati stabilmente di coadiuvare in via autonoma -con compiti qualificati di particolare responsabilità -un quadro direttivo o un dirigente ai quali rispondono direttamente, e che stante tale ruolo elevato ricoperto dalla COGNOME era chiar o che l’azienda riponeva nella stessa il massimo grado di fiducia che, nella specie, era stata disattesa; a fronte di ciò, non rilevavano l’anzianità di servizio della lavoratrice e la mancanza di precedenti disciplinari.
Ancora, per la Corte la contestazione doveva ritenersi tempestiva, non potendo condividersi l’affermazione dell’allora reclamante, secondo cui al momento dei rimborsi (luglio-agosto 2018) già poteva effettuarsi la contestazione disciplinare, presupponendo detti rimborsi una accertata responsabilità della dipendente.
Giudicava infondata la deduzione della lavoratrice relativa al fatto che nella procedura non sarebbero stati mostrati alla dipendente tutti i documenti, e quella circa il diverso
trattamento sanzionatorio che altri colleghi avrebbero subito in analoghe situazioni di rilevanza disciplinare.
Infine, la Corte territoriale riteneva di accogliere il reclamo incidentale della banca datrice di lavoro circa il maggior importo (rispetto a quello liquidato dal primo giudice) da riconoscere ad essa a titolo risarcitorio per i rimborsi ai clienti operati dalla stessa banca in dipendenza delle condotte addebitate alla lavoratrice .
Avverso tale decisione NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi.
L’intimata ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia ex ‘art. 360 n. 3) violazione e falsa applicazione art. 5 L. 604 del 1966’. Deduce che la Corte territoriale l’ha ritenuta responsabile dei fatti addebitati sulla base di un ragionamento presuntivo, che non app lica correttamente l’art. 5 L. 604 del 1966; che era preciso onere del datore di lavoro, non solo dimostrare l’inadempimento, ma anche che lo stesso fosse stato svolto con comportamento doloso o negligente, e che nella sentenza impugnata sul punto non si riferisce alcunché, tenendo altresì conto che dal tenore della contestazione disciplinare emerge con certezza che alla ricorrente non si imputa l’appropriazione di somme, ma solamente la difformità delle firme sulla base di contestazioni dei clienti che apparivano strumentali. Assume, ancora, che il datore di lavoro avrebbe dovuto provare che le firme erano false e che sul punto era stata reiterata la richiesta
di perizia grafologica, non ammessa da parte della Corte di appello, tanto per dimostrare concretamente che le firme erano tutte della ricorrente.
Con un secondo motivo denuncia ex ‘art. 360 n. 3) c.p.c. violazione e falsa applicazione art. 1 e 3 L. 604 1966’. Deduce che la sentenza della Corte d’appello ‘si limita a citare 31202 del 2022 senza tenere conto delle circostanze indicate da pag. 24 in poi che avrebbero dovuto comportare per la ricorrente, così come per altri lavoratori l’applicazione di una sanzione conservativa e non del licenziamento o quanto meno un trasferimento per incompatibilità’. Assume, ancora, che ‘in sostanza non vi è stata alcuna motivazione effettiva e che si attagliava alla situazione concreta rispetto alla residualità del licenziamento per giusta causa che doveva comportare l’applicazione unicamente di una sanzione conservativa tenendo conto che quello che si contestava era solo la difformità di firma e non l’appropriazione delle somme e delle circostanze analiticamente dedotte e non analizzate nella sentenza’.
Con un terzo motivo denuncia ex ‘art. 360 n. 4 c.p.c.) Mancata motivazione rispetto alla residualità del licenziamento per giusta causa’. Deduce ‘che la sentenza della Corte di Appello di Firenze non abbia in sostanza motivato sulla residualità del licenziamento per giusta causa essendosi limitata a riportare la declaratoria contrattuale e una sentenza di Cassazione senza motivare in concreto alle deduzioni sopra proposte in appello e riportate che facevano ritenere sufficiente una sanzione conservativa’ .
Con un quarto motivo denuncia ex ‘art. 360 n. 3) Violazione e falsa applicazione art. 7 s.l. per mancato rispetto del principio di immediatezza’. Assume che è vero che la
giurisprudenza interpreti in maniera elastica il principio di tardività, ma nel caso di specie si era di fronte ad un datore di lavoro che effettua dei risarcimenti nelle date indicate e solo dopo quattro mesi effettua la contestazione disciplinare.
Con un quinto motivo denuncia ex ‘art. 360 n. 3) violazione e falsa applicazione art. 7 s.l. per aver adottato in altri procedimenti sanzioni conservative in ipotesi similari’. Secondo la ricorrente, la motivazione resa dalla sentenza impugnata sull’aspetto indicato in rubrica ‘si pone in palese contrasto con quanto disposto da questa Ecc.ma Corte dovendo, al più essere la Banca a dimostrare la motivazione per cui ha adottato sanzioni differenti e la motivazione sul punto appare contraddittoria, non giustificando le motivazioni per cui si è adottato un provvedimento differente e non ammettendo le richieste documentali e istruttorie svolte’, che la ricorrente riportava in ricorso.
Con un sesto motivo (erroneamente indicato con il numero ‘5’ a pag. 36 del ricorso) denuncia ex ‘art. 360 n. 3) violazione e falsa applicazione art. 7 s.l per non aver permesso di prendere visione di tutta la documentazione’. Secondo la ricorrente, al contrario di quanto motivato dal giudice di primo grado e ribadito nella sentenza di appello un’effettiva applicazione dell’art. 7 st. lav. comporta che debba essere permessa un’effettiva possibilità di difesa del lavoratore, che nel caso di specie è stata impedita tenendo conto che non solo non è stata fornita copia di tutta la documentazione, ma solo degli specimen, e che neanche era stata resa edotta la ricorrente che erano già stati effettuati i risarcimenti del danno e non si erano prodotti alla ricorrente i disconoscimenti che avevano portato alla suddetta contestazione disciplinare. Per la stessa era
evidente che la mancata produzione nella fase dell’art. 7 s.l. di copia delle contestazioni dei clienti e dei risarcimenti già avvenuti aveva impedito alla lavoratrice di replicare puntualmente a quanto affermavano i clienti, senza che la ricorrente potesse sapere di quali documentazioni avesse avuto necessità.
Con un settimo motivo (erroneamente indicato con il numero ‘6’ a pag. 40 del ricorso) denuncia ex ‘art. 360 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione artt. 1218 c.c. 2047 c.c. art. 360 n. 4 omessa motivazione rispetto alla responsabilità della ricorre nte sulle somme corrisposte’.
Possono essere congiuntamente esaminati il primo ed il secondo motivo di ricorso, che sono inammissibili.
8.1. Nota infatti il Collegio che erroneamente tali due censure (ma anche altre) muovono dall’assunto che dal tenore della contestazione disciplinare emerge con certezza che alla ricorrente non si imputa l’appropriazione di somme, ma solamente la difformità delle firme sulla base delle contestazioni dei clienti.
8.2. Come già premesso in narrativa (al punto 2), stando alla sola sintesi proposta dalla Corte territoriale nella nota in data 17.12.2018, che la stessa ha evidenziato essere articolata e lunga (come in effetti è: cfr. la trascrizione alle pagg. 10-22 del ricorso per cassazione) ed alla quale ha fatto rinvio per il dettaglio, risulta chiaramente che alla lavoratrice era stato addebitato anche ben altro.
La stessa Corte, infatti, ha poi considerato che alla lavoratrice si addebitava ‘una serie di operazioni che sarebbero state effettuate all’insaputa dei clienti che successivamente
avevano disconosciuto le firme da loro apposte’ (così a pag. 6 dell’impugnata sentenza); condotte che, in base ad esteso ed analitico apprezzamento probatorio, ha poi appurato, al pari delle ‘accertate interrogazioni del sistema da parte della dipendente i n concomitanza con le operazioni’ (cfr. pagg. 6 -12 della sentenza), ossia, altre condotte che pure erano state contestate alla lavoratrice quali ‘ripetute interrogazioni non giustificate da alcuna esigenza di servizio’.
8.3. Vero è, poi, che all’attuale ricorrente non era stata contestata l’appropriazione in proprio favore del denaro corrispondente al gran numero di operazioni irregolari riscontrate, soprattutto, come già evidenziato, prelievi di danaro; ma la Corte ha se nz’altro accertato che tali condotte erano state nondimeno produttive di danni per la datrice di lavoro, tanto che la stessa Corte ha accolto integralmente la domanda riconvenzionale della banca datrice relativa appunto ai danni ad essa derivati per i rimborsi che si era vista tenuta ad eseguire in favore dei clienti risultati estranei a dette operazioni.
Inoltre, è del tutto generico il rilievo della ricorrente nel primo motivo secondo cui la Corte di merito l’avrebbe ritenuta responsabile dei fatti addebitati sulla base di un ragionamento presuntivo che non applica correttamente l’art. 5 L. n. 604/1966.
9.1. In ogni caso, la Corte nella propria ampia motivazione dedicata al proprio accertamento probatorio non ha espresso di far ricorso ad un ragionamento presuntivo, e ha formato il proprio convincimento in base a tutte le risultanze processuali a disposizione.
Parimenti generico è l’assunto della ricorrente, contenuto nel primo motivo, che la sentenza impugnata non riferisce alcunché sul punto che il suo inadempimento ‘fosse stato svolto con comportamento doloso o negligente’.
Esso non si confronta nuovamente con l’accertamento fattuale operato dalla Corte distrettuale che afferisce a condotte indubbiamente dolose, così come erano contestate, e non semplicemente colpose (in termini di imprudenza, negligenza o imperizia, cui non si fa alcun cenno nella nota di contestazione disciplinare).
Anche i rilievi della ricorrente sull’onere a carico della datrice di lavoro circa la falsità delle firme e sulla perizia grafologica in proposito richiesta non tengono conto della motivazione data dalla Corte di merito per escludere ‘la necessità di d ar corso ad una perizia grafologica’ (v. pag. 12 della sua sentenza).
Analoghe considerazioni valgono per il secondo motivo di ricorso.
12.1. Anche in questa censura, infatti, erroneamente si assume che ‘quello che si contestava era solo la difformità di firma’.
12.2. Inoltre, nel secondo motivo, pur essendo formulato in chiave di violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 L. n. 604/1966, ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., si deduce in realtà un’anomalia motivazionale per non aver tenuto conto di dedu zioni contenute nell’atto di reclamo dell’attuale ricorrente per cassazione (cfr. pagg. 23-30 del ricorso per cassazione).
12.3. Comunque, nel sostenere che ‘la sentenza della Corte di Appello di Firenze si limita a citare 31202 del 2022′ (n.d.r., rectius , Cass. n. 31202/2021, richiamata dalla Corte di merito tra la pag. 12 e la pag. 13 della propria sentenza), non considera l’effettiva e completa motivazione resa dalla Corte territoriale che ha spiegato perché ha giudicato la sanzione espulsiva inflitta proporzionata alla gravità delle condotte poste in essere in relazione ad una serie di elementi evidenziati, corrispondenti a quelli considerati nel precedente di legittimità richiamato.
Inoltre, non tiene conto la ricorrente che la Corte d’appello ha anche fatto preciso riferimento all’ ‘art. 44 lett. e) del CCNL, il quale sanziona con tale provvedimento ogni mancanza così grave da non consentire neppure la prosecuzione provvisoria del ra pporto’ (cfr. pag. 13 della sua sentenza).
12.4. Per altro verso, nota il Collegio che anche nei passi richiamati delle proprie deduzioni che assume non considerate dalla Corte territoriale non indica disposizioni dello stesso CCNL che contemplassero sanzioni conservative per le condotte a lei contestate, le quali, come già messo in luce, non si esaurivano solo in difformità di firma.
13. Parimenti inammissibile è il terzo motivo.
Difatti, non solo la ricorrente non deduce la nullità dell’impugnata sentenza per il preteso difetto di motivazione (già profilato nel precedente secondo motivo), ma, come si è visto nell’esaminare i due precedenti motivi di ricorso, è la ricorrente a non considerare la completa motivazione effettivamente resa dalla Corte d’appello.
15. Il quarto motivo è infondato.
16. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, in materia di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione, espressione del generale precetto di correttezza e buona fede, si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro (Cass. n. 19115 del 2013; n. 15649 del 2010; n. 19424 del 2005; n. 11100 del 2006) e va inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, in ragione della complessità di accertamento della condotta del dipendente oppure per l’esigenza di una articolata organizzazione aziendale (Cass. n. 14726 del 2024; n. 1248 del 2016; n. 281 del 2016; n. 15649 del 2010; Cass. n. 22066 del 2007), restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo (Cass. n. 23346 del 2018; n. 16841 del 2018; n. 281 del 2016; n. 20719 del 2013, n. 19115 del 2013).
16.1. Su quest’ultimo aspetto si è puntualizzato che compete al giudice di merito verificare in concreto quando un potenziale illecito disciplinare sia stato scoperto nei suoi connotati sufficienti a consentire la contestazione, mentre costituisce questione di diritto, sindacabile in sede di legittimità, determinare se l’arco temporale intercorso tra la scoperta dell’illecito disciplinare e la sua contestazione dia luogo, o meno, a violazione del diritto di difesa del lavoratore (v. Cass. n. 23346 del 2018). Sotto altro profilo, si è aggiunto che il ritardo della contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che la ponderata e responsabile valutazione dei fatti da parte del
datore di lavoro può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che altrimenti sarebbe esposto ad incolpazioni non adeguatamente meditare o comunque non sorrette da un sufficiente approfondimento (v. Cass. n. 109 del 2024).
Tutti tali principi di diritto sono stati, da ultimo, ribaditi in Cass. n. 22617/2024, la quale ha ricordato che ‘analoghi principi sono stati espressi riguardo alla immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazi one ovvero al momento della contestazione’.
17. Nella specie, la Corte territoriale, nel ritenere tempestiva la contestazione, non ha condiviso l’affermazione dell’allora ‘reclamante secondo cui al momento dei rimborsi (luglio-agosto 2018) già poteva effettuarsi la contestazione disciplinare, presupponendo detti rimborsi una accertata responsabilità della dipendente’. Ha infatti osservato che ‘il rimborso può essere indice di una politica di favore che la banca intende attuare verso il cliente; altro fatto è l’accertamento di una responsabilità di una propria dipendente che può avere necessità di ulteriori indagini che possono essere più complesse, come è avvenuto nella specie: solo a seguito dell’audit del 4.12.2018 furono portati a termine gli accertamenti e quindi la contestazione del 17.12.2018 appare tempestiva (parimenti tempestivo il licenziamento del marzo 2019, considerato che in data 11 gennaio 2019 era stato effettuato l’esame documentale richiesto dalla dipendente e che in data 25 gennaio 2019 e 1 febbraio 2019 la lavoratrice era stata sent ita oralmente)’.
Come s’è visto, in precedenza la Corte di merito aveva evidenziato che si trattava di un gran numero di operazioni, relative a 10 conti correnti complessivamente interessati dai
reclami; la Corte, inoltre, aveva osservato, a proposito di NOME COGNOME, direttore della Filiale di Portoferraio, il quale aveva eseguito dei primi accertamenti appena ricevuta una segnalazione da parte di un cliente, che non sembrava che il COGNOME avess e ‘effettuato operazioni che esorbitavano dalla sua competenza, come affermato dalla reclamante: nel ruolo di direttore che aveva ricevuto una doglianza egli ebbe ad effettuare i preliminari accertamenti, prima di coinvolgere le autorità competenti a svolg ere le indagini’ (così a pag. 8 dell’impugnata sentenza).
Più nello specifico, la Corte ha rilevato che: ‘Dalla deposizione del COGNOME in sede di opposizione si evince che successivamente lo stesso ebbe ad interessare il capo area NOME COGNOME; le mail di cui ai doc. da 9 a 11 di Intesa fase sommaria, afferiscono alla corrispondenza tra il COGNOME e COGNOME Fabio COGNOMEAudit Chief Officer), al quale fu trasmessa una relazione sui fatti. Infine, all’esito di una istruttoria posta in essere dai soggetti competenti, fu redatto l’audit del 4.12.2019, il cui contenuto è stato confermato dal medesimo COGNOME NOME sentito in fase sommaria’ (v. sempre pag. 8).
Ebbene, le considerazioni svolte dalla ricorrente (cfr. pagg. 33-34 del ricorso), sostanzialmente riproduttive della tesi in proposito già sostenuta in fasi e gradi di merito, tengono parzialmente conto, ancora una volta, della risposta in proposito già ottenuta dalla Corte territoriale.
Quest’ultima, infatti, non si è limitata ad osservare che i rimborsi eseguiti in favore dei clienti potevano rispecchiare ‘una politica di favore’ della banca verso gli stessi clienti, ma ha sottolineato la complessità delle indagini espletate dall’apposit a struttura Audit dell’istituto di credito, in relazione a davvero
molteplici operazioni contestate (aspetti già considerati nell’accertare le condotte addebitate alla dipendente), e quindi il limitato tempo trascorso tra l’audit del 4.12.2018 e la contestazione disciplinare del 17.12.2018.
Analogamente, circa la tempestività del licenziamento intimato con lettera dell’8.3.2018, la ricorrente non considera che la Corte distrettuale aveva posto in evidenza che nel tempo intermedio tra la contestazione disciplinare del 17.12.2018 e il reces so vi erano stati l’esame documentale richiesto dalla stessa dipendente e ben due audizioni di quest’ultima.
In definitiva, le argomentate valutazioni dei giudici del reclamo risultano senz’altro conformi ai principi di diritto sopra esposti.
Per completezza di disamina, mette conto aggiungere che Cass., sez. lav., 27.5.2024, n. 14728, richiamata dalla ricorrente nella propria memoria ex art. 380 bis.1. c.p.c., concerne fattispecie concreta del tutto diversa da quella ora in esame, perché in si ntesi, richiamandosi l’indirizzo di legittimità in precedenza premesso, è stato respinto il ricorso per cassazione di una datrice di lavoro, che, fondandosi in parte su accertamento fattuale diverso da quello operato dalla Corte di merito, si riferiva a ca so nel quale quest’ultima aveva motivatamente giudicato che gli oltre quattro mesi intercorsi tra l’acquisizione di una dichiarazione ammissiva del dipendente incolpato e la notifica della contestazione disciplinare erano un tempo sproporzionato e non aderente a buona fede.
Inammissibile è il quinto motivo.
La Corte d’appello sul correlativo motivo di reclamo della lavoratrice relativo al ‘diverso trattamento sanzionatorio
che altri colleghi avrebbero subito in analoghe situazioni di rilevanza disciplinare’, ha considerato che ‘anche in merito le allegazioni della lavoratrice non sono sufficientemente specifiche per poter affermare neppure una identità di condotte illecite e dunque un trattamento discriminatorio’.
22.1. La ricorrente, in primo luogo, non spiega perché questa statuizione della Corte di merito sarebbe ‘in palese contrasto con quanto disposto da questa Ecc.ma Corte’.
In particolare, nell’ambito di una censura formulata esclusivamente in termini di violazione e falsa applicazione solo dell’art. 7 L. n. 300/1970 (senza specificazione di quali commi di esso sarebbero stati violati), adombra in realtà nel contempo un’illegittima inversione dell’onere della prova (perché era la banca a dover dimostrare la motivazione per cui aveva adottato sanzioni differenti) e un’anomalia motivazionale addebitata alla Corte di merito perché ‘la motivazione sul punto’ sarebbe ‘contraddittoria’ in termini non chiariti.
22.2. La censura, inoltre, non è aderente alla ragione per la quale la Corte distrettuale aveva respinto un motivo di reclamo che aveva ritenuto impostato sulla prospettazione di un ‘trattamento discriminatorio’: la Corte, infatti, ha giudicato che le allegazioni della lavoratrice, prima che le prove richieste in proposito dalla stessa, non fossero ‘sufficientemente specifiche per poter affermare neppure una identità di condotte illecite’.
Nota, del resto, il Collegio che la ricorrente neppure si duole esplicitamente della mancata ammissione delle prove che deduce di aver richiesto alle pagg. 4546 dell’atto di reclamo (cfr. pagg. 35-36 del ricorso).
24. Il sesto motivo è privo di fondamento.
25. La Corte d’appello, in merito al motivo di reclamo a mezzo del quale la lavoratrice lamentava che, non esibendole ‘tutta la documentazione durante la procedura disciplinare, era stato violato l’art. 7 Stat. Lav. e soprattutto il diritto ad una replica puntuale e dunque alla effettiva possibilità di difesa’ (v. punto 4) a pag. 5 dell’impugnata sentenza), ha evidenziato ‘che la ricorrente ebbe compiutamente a difendersi, non avendo allegato nell’appello specificamente quali pregiudizi la sua difesa avrebbe subito dal non visionare ulteriori documenti rispetto agli specimen delle firme che non corrispondevano a quelli delle singole operazioni’ (così a pag. 13).
26. Questa Corte anche di recente ha confermato che l’art. 7 della l. n. 300 del 1970 non prevede che, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazioni di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrog ato all’esito del procedimento suddetto, l’ordine di esibizione della documentazione stessa. Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l’onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine (così Cass., sez. lav., 25.10.2018, n. 27093;
Cass. n. 23304/2010; e in termini analoghi id. n. 50/2017, la quale aveva specificato che il datore di lavoro, tuttavia, deve offrire in visione la documentazione posta a base di una contestazione disciplinare, in base ai principi di correttezza e buona fe de, nell’esecuzione del contratto, qualora l’incolpato ne faccia richiesta e l’esame dei documenti sia necessario per una adeguata difesa; da ultimo in termini Cass. n. 6486/2024, la quale ha ribadito che compete al giudice del merito, sulla base degli atti di causa, scrutinare la sussistenza di tale rapporto di necessarietà, incombendo inoltre sul lavoratore l’onere di specificare ‘quali sarebbero stati i documenti la cui messa a disposizione -in tesi negata -sarebbe stata necessaria al predetto fine’.
La sentenza impugnata è conforme ai suddetti principi.
Come si è già visto, nell’esaminare altro motivo di reclamo la Corte d’appello aveva evidenziato che, dopo la contestazione disciplinare, ‘in data 11 gennaio 2019 era stato effettuato l’esame documentale richiesto dalla dipendente’ e che ella era stata sentita personalmente per ben due volte il 25.1.2019 e l’1.2.2019.
Non risulta, per contro, accertato, né dedotto in questa sede, se e quando la lavoratrice incolpata nel corso della procedura disciplinare avesse chiesto alla datrice di lavoro di poter visionare o ottenere copia di documenti ulteriori e quali, né che la stessa avesse fatto presente alla controparte la necessità di accedere a tutta la documentazione posta a base delle contestazioni mossele.
E’, infine, infondato il settimo ed ultimo motivo di ricorso, che presenta profili d’inammissibilità.
Nella censura, infatti, si deduce promiscuamente sia la violazione di norme di diritto ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c. che un error in procedendo ex art. 360, comma primo, n. 4), c.p.c. in termini di ‘omessa motivazione rispetto alla responsabilità della ricorrente sulle somme corrisposte’.
In relazione, poi, al mezzo di cui al n. 3) del comma primo dell’art. 360 c.p.c. si deduce la violazione anche dell’art. 2047 c.c., norma all’evidenza non pertinente rispetto al caso che ci occupa visto che riguarda il ‘Danno cagionato dall’incapace’.
La doglianza, inoltre, non si confronta anzitutto con la precipua motivazione resa dalla Corte di merito per riformare in melius per la banca convenuta quella di primo grado circa la domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento dei danni proposta dalla stessa banca (cfr. in particolare pag. 14 della sua sentenza).
In ogni caso, è privo di fondamento l’assunto della ricorrente, sul quale s’incentra tale censura, e cioè che la Corte non avrebbe accertato quale sia stata l’effettiva responsabilità della ricorrente rispetto alle somme corrisposte dalla banca datrice di lavoro a titolo di rimborso ai clienti risultati all’insaputa delle molteplici operazioni addebitate alla lavoratrice.
Quest’ultima, difatti, ovviamente non considera che tutta la precedente motivazione resa dalla Corte territoriale era stata dedicata appunto ad illustrare, in via di conferma di quanto già accertato nella doppia fase del primo grado, perché la ricorrente fosse responsabile delle gravi condotte addebitale in sede disciplinare.
Del resto, nella parte di motivazione volta a spiegare l’integrale accoglimento della domanda riconvenzionale dell’istituto di credito, la Corte di merito ha puntualmente richiamato, non solo i documenti attestanti gli avvenuti rimborsi in favore dei clien ti interessati, ma anche quelli relativi all’audit e alle operazioni dai clienti disconosciute (v. ancora pag. 14 della sentenza).
La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 7.11.2024.
La Presidente
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