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Licenziamento per giusta causa e prova testimoniale

Un dipendente di un’area di servizio, licenziato per non aver emesso scontrini o averli emessi per importi inferiori, ha impugnato il provvedimento. La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa, rigettando il ricorso del lavoratore. La Corte ha stabilito che la testimonianza degli investigatori privati è valida ai fini della prova, indipendentemente dal loro specifico rapporto contrattuale con l’agenzia investigativa. Inoltre, ha ribadito che la valutazione sulla proporzionalità della sanzione spetta al giudice di merito e che la mancata percezione dell’indennità di cassa non attenua la gravità della condotta, data la rottura del vincolo fiduciario.

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Pubblicato il 11 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento per giusta causa: la mancata emissione di scontrini

Il licenziamento per giusta causa rappresenta la più severa sanzione espulsiva nel diritto del lavoro, applicabile quando la condotta del dipendente è talmente grave da ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia con il datore di lavoro. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato un caso emblematico, confermando il licenziamento di un operaio multiservizi addetto alla cassa di un’area di servizio, accusato di non aver battuto alcuni scontrini e di averne emessi altri per un importo inferiore a quello pagato dai clienti.

I fatti del caso

Un lavoratore, impiegato con mansioni che includevano la gestione della cassa, è stato licenziato in tronco dalla società datrice di lavoro. La contestazione disciplinare si basava sugli esiti di un’indagine condotta da investigatori privati, i quali, fingendosi clienti, avevano acquistato dei prodotti e riscontrato le irregolarità nella gestione degli incassi in contanti. Nello specifico, al dipendente venivano addebitate due condotte: l’omessa emissione dello scontrino a fronte dell’incasso e l’emissione di scontrini per un valore inferiore a quello effettivamente pagato.

Il lavoratore ha impugnato il licenziamento, sostenendone l’illegittimità. Sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’Appello hanno però respinto la sua domanda, confermando la validità del provvedimento espulsivo. La questione è quindi giunta dinanzi alla Corte di Cassazione.

I motivi del ricorso in Cassazione

Il dipendente ha basato il suo ricorso su tre principali motivi:

1. Omesso esame di un fatto decisivo: Si contestava che i giudici di merito non avessero considerato che gli investigatori, sentiti come testimoni, non erano dipendenti diretti dell’agenzia investigativa incaricata, ma di un’altra società ad essa collegata. Secondo la difesa, questo avrebbe minato l’attendibilità delle prove.
2. Violazione di norme processuali: Si lamentava una scorretta valutazione delle prove testimoniali, sostenendo che il giudice non avesse gestito correttamente l’escussione dei testi.
3. Violazione di legge e del contratto collettivo: Si sosteneva che il licenziamento per giusta causa fosse una sanzione sproporzionata, anche perché la condotta non era specificamente prevista dal CCNL come causa di licenziamento e perché il lavoratore non percepiva l’indennità di cassa, che avrebbe comportato un dovere di diligenza superiore.

La valutazione del licenziamento per giusta causa in appello

La Corte d’Appello, confermando la decisione di primo grado, aveva ritenuto provate le condotte contestate. Aveva sottolineato la delicatezza delle mansioni legate al maneggio di denaro e l’essenzialità di una gestione corretta della cassa per il buon andamento dell’azienda. Secondo i giudici, queste circostanze erano sufficienti a giustificare la massima sanzione, a prescindere dal fatto che non fosse stato contestato un ammanco di cassa o che il lavoratore non percepisse una specifica indennità.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, dichiarando i motivi infondati o inammissibili.

Sul primo motivo, la Corte ha chiarito che il rapporto contrattuale tra gli investigatori e l’agenzia che li ha impiegati è un dato del tutto ininfluente ai fini della decisione. Ciò che conta è la deposizione testimoniale resa in giudizio. Il giudice di merito ha il potere di valutare liberamente le prove secondo il suo prudente apprezzamento, e la testimonianza di chi ha condotto le indagini rientra a pieno titolo nel compendio probatorio. L’attendibilità del teste viene valutata nel complesso, non sulla base del suo inquadramento formale.

Il secondo motivo è stato dichiarato inammissibile per violazione del principio di specificità. Il ricorrente, infatti, non aveva trascritto nel ricorso le parti dei verbali testimoniali e dei capitoli di prova che intendeva contestare, impedendo così alla Corte di effettuare la necessaria verifica.

Infine, anche il terzo motivo sulla proporzionalità è stato respinto. La Corte ha ribadito che la mancata percezione dell’indennità di cassa, pur considerata dai giudici di merito, non era un elemento decisivo per attenuare la responsabilità. Il vincolo di fiducia si fonda sulla natura stessa dell’attività di gestione del denaro, che richiede massima correttezza. Inoltre, anche se una specifica condotta non è elencata nel codice disciplinare del contratto collettivo, il licenziamento può essere legittimato dalla clausola generale dell’art. 2119 c.c. sulla giusta causa, quando il comportamento del lavoratore è così grave da compromettere il rapporto fiduciario.

Le conclusioni

L’ordinanza in esame conferma alcuni principi fondamentali in materia di licenziamento per giusta causa. In primo luogo, la prova della condotta illecita può validamente basarsi sulle testimonianze di investigatori privati, la cui attendibilità è valutata dal giudice senza che il loro specifico rapporto contrattuale con l’agenzia incaricata sia rilevante. In secondo luogo, la valutazione della proporzionalità della sanzione è di competenza del giudice di merito e può essere censurata in Cassazione solo per vizi logici o giuridici gravi, non per un riesame dei fatti. Infine, la gestione infedele della cassa costituisce una violazione del nucleo essenziale delle obbligazioni del dipendente addetto, tale da giustificare la massima sanzione espulsiva, anche in assenza di un ammanco diretto o della percezione di un’indennità di cassa.

La testimonianza di un investigatore privato è valida per un licenziamento, anche se il suo rapporto di lavoro con l’agenzia non è chiaro?
Sì. La Corte di Cassazione ha stabilito che ciò che rileva è il contenuto della deposizione testimoniale, che il giudice valuta liberamente. La natura formale del rapporto tra l’investigatore e l’agenzia incaricata è considerata ininfluente ai fini della prova dei fatti contestati.

Un dipendente può essere licenziato per giusta causa per una condotta non specificamente prevista come tale dal contratto collettivo?
Sì. Anche se la specifica condotta (come l’omessa emissione di scontrini) non è elencata tra le ipotesi di licenziamento nel codice disciplinare del CCNL, si può comunque applicare la clausola generale dell’art. 2119 del codice civile. Se il comportamento è talmente grave da ledere irreparabilmente il vincolo di fiducia, il licenziamento per giusta causa è legittimo.

Non ricevere l’indennità di cassa attenua la responsabilità del lavoratore in caso di irregolarità nella gestione del denaro?
No. Secondo la Corte, la mancata percezione dell’indennità di cassa non è un fattore decisivo per ridurre la gravità della condotta. L’obbligo di diligenza e correttezza nella gestione del denaro deriva dalla natura stessa delle mansioni affidate e costituisce un elemento essenziale del rapporto di fiducia, a prescindere da specifiche indennità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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