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Licenziamento per cessazione attività: quando è valido

La Corte di Cassazione conferma la validità di un licenziamento per cessazione attività, respingendo la tesi di un lavoratore che sosteneva l’esistenza di un unico centro di imputazione con un’altra società. L’ordinanza chiarisce che la semplice partecipazione a un Raggruppamento Temporaneo di Imprese non implica l’obbligo di repêchage se manca una gestione unificata e un uso promiscuo del personale. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile per motivi procedurali.

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Licenziamento per cessazione attività: la Cassazione chiarisce i limiti del repêchage tra aziende

Il licenziamento per cessazione attività rappresenta una delle cause di risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo. Ma cosa succede quando l’azienda che chiude fa parte di un raggruppamento temporaneo con altre società? Esiste un obbligo di ricollocare il dipendente? Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali, sottolineando come la semplice collaborazione tra imprese non crei automaticamente un unico datore di lavoro né l’obbligo di repêchage.

I fatti del caso: il licenziamento dopo la fine di un importante appalto

Un lavoratore veniva licenziato da una società (Società A) a seguito della cessazione totale dell’attività produttiva. Tale cessazione era coincisa con la conclusione di un rilevante appalto per una grande società ferroviaria nazionale, per il quale la Società A si era unita in un Raggruppamento Temporaneo di Imprese (ATI) con un’altra azienda (Società B).
Il dipendente impugnava il licenziamento, sostenendo che fosse illegittimo perché ritorsivo e, soprattutto, perché le due società costituivano in realtà un unico centro di imputazione. A suo dire, la Società A avrebbe dovuto tentare di ricollocarlo presso la Società B prima di procedere al licenziamento (il cosiddetto obbligo di repêchage).

La decisione della Corte d’Appello

Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello avevano respinto le richieste del lavoratore. I giudici di merito avevano accertato che la Società A aveva effettivamente e completamente cessato ogni attività nel dicembre 2016, tanto da essere posta in liquidazione. Inoltre, non erano emersi elementi sufficienti per considerare le due società un unico datore di lavoro. Mancavano, infatti, i requisiti chiave identificati dalla giurisprudenza: un coordinamento amministrativo e finanziario unitario e, soprattutto, un utilizzo promiscuo e indistinto dei dipendenti delle due aziende.

Il ricorso in Cassazione e il licenziamento per cessazione attività

Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, insistendo sulla violazione di legge e sull’omesso esame di un fatto decisivo: il contratto di ATI avrebbe dovuto essere interpretato in modo da riconoscere l’esistenza di un unico complesso aziendale. Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe errato nel non considerare la stretta interconnessione tra le due realtà imprenditoriali.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, basando la sua decisione su diverse ragioni, sia di natura procedurale che di merito.

Inammissibilità per vizi procedurali

In primo luogo, il ricorso è stato giudicato inammissibile per la sua formulazione confusa e generica, che mescolava diverse censure senza articolarle in modo chiaro e specifico, violando il principio di specificità dei motivi. Inoltre, il ricorrente non aveva riportato nel suo atto il contenuto del contratto di ATI, documento fondamentale per la sua tesi. Questa omissione ha violato il principio di autosufficienza del ricorso, che impone al ricorrente di fornire alla Corte tutti gli elementi per decidere, senza che questa debba ricercarli altrove.

L’insussistenza del centro unico di imputazione e la validità del licenziamento per cessazione attività

Nel merito, la Cassazione ha smontato la tesi del lavoratore, chiarendo che la Corte d’Appello aveva correttamente escluso la presenza di un unico centro di imputazione. La Suprema Corte ha ribadito che non era emersa alcuna prova di un’utilizzazione promiscua del personale. L’attività di formazione svolta da due dipendenti della Società B nei confronti del personale della Società A non era un indice di gestione unitaria, ma una normale attività di coordinamento e avviamento necessaria nell’ambito di un’ATI per garantire il buon esito dell’appalto. Di conseguenza, non sussistendo un unico datore di lavoro, non vi era alcun obbligo di repêchage.

Conclusioni: Implicazioni pratiche della sentenza

Questa ordinanza rafforza un principio fondamentale: la collaborazione tra imprese, anche se stretta come in un’ATI, non è sufficiente a creare un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro. Per affermare ciò, è necessaria la prova rigorosa di tre elementi: unicità della struttura organizzativa e produttiva, integrazione tra le attività economiche, e un coordinamento tecnico-amministrativo-finanziario che porti a un’unica direzione. Soprattutto, è decisivo l’utilizzo promiscuo del personale, che in questo caso mancava completamente. La decisione conferma che un licenziamento per cessazione attività è pienamente legittimo quando la chiusura dell’impresa è effettiva e reale, e non sussistono i presupposti per estendere l’obbligo di repêchage ad altre società collegate solo da un contratto di collaborazione temporanea.

Quando due società che collaborano in un’ATI sono considerate un unico datore di lavoro?
Solo quando esistono prove concrete di una gestione unitaria (stessa direzione, coordinamento finanziario e amministrativo) e, soprattutto, di un utilizzo condiviso e indifferenziato dei dipendenti tra le due aziende. La mera collaborazione per un appalto non è sufficiente.

Un licenziamento per cessazione di attività è valido se l’azienda fa parte di un gruppo o di un’ATI?
Sì, il licenziamento è valido se la società datrice di lavoro cessa effettivamente e completamente la propria attività produttiva e se non sono presenti gli indici sintomatici di un unico centro di imputazione con le altre società. In assenza di questi elementi, non scatta l’obbligo di ricollocare il lavoratore (repêchage) nelle altre imprese.

Per quali motivi principali la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore?
La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile principalmente per vizi procedurali. Il ricorso era stato redatto in modo confuso, violando il principio di specificità, e non conteneva i documenti essenziali per la valutazione del caso (come il contratto di ATI), violando il principio di autosufficienza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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