Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8154 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8154 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 27/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 4238-2023 proposto da:
COGNOME domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO COGNOME E COGNOME INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 742/2022 della CORTE D’APPELLO DI LECCE SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO, depositata il 27/12/2022 R.G.N. 360/2022;
Oggetto
R.G.N. 4238/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 11/12/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/12/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Rilevato che
La Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda di NOME COGNOME intesa all’accertamento della illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato da RAGIONE_SOCIALE sulla base di contestazione che ascriveva al dipendente di essersi appropriato, per far fronte ad esigenze personali, della somma di 1.300,00 euro prelevata dalla cassa del punto vendita affidato al dipendente.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso NOME COGNOME sulla base di quattro motivi; la parte intimata ha resistito con controricorso.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
Con il primo motivo parte ricorrente deduce: a) omessa motivazione sulla qualificazione giuridica della fattispecie di illecito disciplinare; b) errata qualificazione giuridica della fattispecie disciplinare; c) errata rilevanza alla ammissione resa dal ricorrente di perpetrazione della condotta contestatagli; d) inapplicabilità del principio generale della violazione del rapporto di fiducia. La sentenza impugnata è censurata per avere attribuito al termine ‘appropriazione’ , utilizzato nel codice disciplinare per delineare la fattispecie in concreto contestata, un significato diverso da quello proprio scaturente dall’ordinamento generale ed in particolare dal vigente art. 646 c.p.; si sostiene, in conseguenza, che per poter configurare
l’illecito oggetto di addebito era necessaria la verifica del ricorrere di tutti gli elementi tipici della fattispecie penale quali il dolo specifico, la distrazione e l’inadempimento all’obbligo restitutorio; in questa prospettiva si contesta il rilievo decisivo attribuito all’ammissione del dipendente il quale nell’immediatezza del controllo contabile all’esito del quale era emerso l’ammanco si era limitato a riconoscere esclusivamente l’attività di asportazione del denaro mancante. S i assume, inoltre, che la interpretazione in senso penalistico della ipotesi di appropriazione prevista dal contratto collettivo si giustificava ai sensi dell’art. 1370 c.c. in tema di tutela del contraente non predisponente, posto che il codice disciplinare era contenuto nel regolamento aziendale, atto unilaterale per cui, ai sensi dell’art. 1366 c.c., si imponeva l’interpretazione secondo buona fede delle clausole negoziali ambigue.
Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 646 c.p. censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto in ogni caso la sussistenza del reato di appropriazione indebita in ragione della mancata prova da parte del lavoratore onerato dell’intento restitutorio della somma prelevata; sostiene, viceversa, che costituiva onere della parte datoriale dimostrare la esistenza in capo al lavoratore, al momento del prelievo della somma, dell’intento di trarre un pro fitto ingiusto, definitivo ed irreversibile, a scapito del patrimonio aziendale; evidenzia che il complesso degli elementi in atti deponeva in via indiziaria per la volontà del dipendente di restituire la somma prelevata; argomenta del carattere assorbente del mancato realizzarsi dell’evento giuridico dovuto al prodromico difetto di esigibilità della prestazione contrattuale a carico del lavoratore, custode
del danaro asportato, in uno con l’assenza di alcun tipo di danno arrecato all’azienda.
Con il terzo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 646 c.p. , degli artt. 1183, 1218, 1455, 1703 e 2697 c.c. , censurando la sentenza impugnata per non avere rilevato il mancato verificarsi dell’evento giuridico, elemento strutturale della fattispecie.
Con il quarto motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. censurando la statuizione di condanna del lavoratore alle spese del giudizio di gravame, per avere omesso di riconoscere rilevanza alla straordinarietà e complessità della fattispecie in esame ai fini della relativa regolamentazione.
I primi tre motivi di ricorso, esaminati congiuntamente per connessione, devono essere respinti.
5.1. La sentenza impugnata, a fronte delle deduzioni del Tomai in ordine alla necessità, al fine della configurazione dell’illecito disciplinare, del ricorrere di tutti gli elementi della fattispecie penalmente rilevante dell’appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p. ha ritenuto assorbente il rilievo secondo il quale il licenziamento in tronco era stato intimato anche in virtù della previsione sub l ) del codice disciplinare che contempla l’immediata sanzione espulsiva allorché il lavoratore si renda responsabile di <>; ha ritenuto quindi non pertinenti le deduzioni del lavoratore intorno alla configurabilità del reato di appropriazione indebita , <>.
5.2. Il giudice di merito ha così mostrato di ritenere che il Codice disciplinare contemplasse quale autonoma fattispecie di rilievo disciplinare l’appropriazione di beni o danaro aziendale o di terzi, a prescindere dalla integrazione degli elementi config uranti l’appropriazione indebita quale fattispecie penalmente rilevante. Le conclusioni attinte sul punto dalla Corte di merito non risultano validamente censurate dall’ odierno ricorrente il quale al fine di incrinare la interpretazione delle disposizione del codice disciplinare aziendale fatta propria dalla Corte distrettuale avrebbe dovuto dedurre e dimostrare, nei rigorosi termini delineati dalla giurisprudenza di legittimità, che il risultato ermeneutico alla base del decisum era frutto della non corretta applicazione di specifici criteri legali di interpretazione, come non avvenuto. La condivisibile giurisprudenza di questa Corte ha infatti chiarito che l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece
effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’ interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra ( Cass. n. 19044/2010, Cass. n. 15604/2007, in motivazione; Cass. n. 417872007) dovendosi escludere che la semplice contrapposizione dell’ interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata rilevi ai fini dell’annullamento di quest’ultima (( Cass. n. 14318/2013, Cass. n. 23635/2010).
5.3. Le conclusioni attinte dalla Corte di merito non sono superabili alla luce della asserita esistenza di una unitaria nozione di appropriazione indebita, di derivazione penalistica, che si assume recepita dall’ordinamento generale e destinata, in tesi, ad operare con valenza generale in ogni ambito dell’ordinamento e quindi anche in quello disciplinare. Tale assunto è smentito in relazione al rapporto fra dipendente e datore di lavoro dalla espressa previsione codicistica della <> di reces so dal contratto delineata dall’art. 2119 c.c. quale fattispecie autonomamente giustificativa della
immediata risoluzione del rapporto di lavoro; nell’area della <> di cui all’art. 2119 c.c. confluiscono infatti tutti i comportamenti che determinano il venir meno del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore tali da non consentire la prosecuzione del rapporto, rispetto ai quali risulta tendenzialmente indifferente il rilievo, penale o meno, delle condotte; ciò anche in presenza di ipotesi astrattamente assimilabili sul piano del fatto materiale all’illecito penale.
5.4. Tali conclusioni rappresentano il logico corollario delle differenti finalità alle quali è ispirato il diritto penale nella configurazione delle singole fattispecie di reato rispetto al diritto del lavoro nell’ambito del quale la condotta disciplinarm ente rilevante, con specifico riferimento al profilo di interesse, è quella che, comunque, configuri grave negazione dei doveri scaturenti dal rapporto di lavoro ed in quanto tale giustificativa della immediata espulsione del lavoratore.; ciò a prescindere dal rilievo penale della stessa. In questo ordine argomentativo la giurisprudenza di legittimità, in tema di licenziamento del lavoratore per abusivo impossessamento di beni aziendali ha in particolare chiarito che <>( Cass. n. 5633/2001).
5.5. Alla luce di quanto ora osservato risultano prive di pregio le censure articolate i motivi in esame in quanto tutte condizionate dall’assunto della necessità dell’integrazione di una fattispecie penalmente rilevante per la configurabilità dell’illecit o disciplinare; in particolare non sussiste la violazione dell’art. 2697 c.c. ,denunciata con il secondo motivo, essendo a tal fine sufficiente l’accertamento del giudice di merito fondato sull’ammissione da parte del lavoratore di aver tenuto la condotta appropriativa contestata in relazione alla quale esula ogni necessità della sussistenza del dolo specifico così come della definitività dell’appropriazione, tipici viceversa della fattispecie delineata dall’art. 646 c.p..
Il quarto motivo è inammissibile alla luce della giurisprudenza dei questa Corte secondo la quale con riferimento al regolamento delle spese di lite il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti. ( Cass. n. 19613/2017 , Cass. 24502/2017 , Cass. 15317/2013).
Al rigetto del ricorso consegue il regolamento secondo soccombenza delle spese di lite.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’ art.13 d. P.R. n. 115/2002 (Cass. Sez. Un. n. 23535/2019)
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della società ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Roma, così deciso all’esito della camera di consiglio dell’11