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Licenziamento per appropriazione: quando è giusta causa

Un lavoratore è stato licenziato per giusta causa dopo aver prelevato 1.300 euro dalla cassa aziendale. La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento, stabilendo che l’illecito disciplinare di appropriazione è autonomo rispetto al reato penale di appropriazione indebita. L’elemento cruciale, secondo la Corte, è la rottura del rapporto fiduciario con il datore di lavoro, che giustifica il recesso immediato, a prescindere dalla qualificazione penale del fatto. Il licenziamento per appropriazione si fonda quindi sulla violazione dei doveri lavorativi e sulla perdita di fiducia.

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Pubblicato il 20 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento per appropriazione: è giusta causa anche senza reato

Il licenziamento per appropriazione di beni aziendali da parte di un dipendente rappresenta una delle questioni più delicate nel diritto del lavoro. La recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali, distinguendo nettamente l’illecito disciplinare dal reato penale di appropriazione indebita. La Corte ha stabilito che la rottura del rapporto di fiducia è sufficiente a giustificare il licenziamento per giusta causa, indipendentemente dalla configurabilità di un reato.

I Fatti del Caso: Il Prelievo dalla Cassa e il Licenziamento

Il caso esaminato riguarda un lavoratore licenziato per giusta causa da un’azienda dopo che un controllo contabile aveva rivelato un ammanco di 1.300 euro. Il dipendente aveva ammesso di aver prelevato la somma dalla cassa del punto vendita a lui affidato per far fronte a esigenze personali. Sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d’Appello avevano confermato la legittimità del licenziamento, ritenendo che la condotta del lavoratore avesse irrimediabilmente compromesso il vincolo fiduciario.

Il Ricorso in Cassazione: La Difesa del Lavoratore

Il lavoratore ha impugnato la decisione davanti alla Corte di Cassazione, basando la sua difesa su un’argomentazione principale: il termine “appropriazione” utilizzato nel codice disciplinare aziendale doveva essere interpretato secondo la nozione penalistica di “appropriazione indebita” (art. 646 c.p.). Secondo questa tesi, per giustificare il licenziamento, il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare non solo il prelievo del denaro, ma anche tutti gli elementi tipici del reato, come il dolo specifico (l’intenzione di trarre un profitto ingiusto) e il carattere definitivo dell’appropriazione. Il dipendente sosteneva di aver semplicemente ammesso l’asportazione del denaro, non la volontà di non restituirlo.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto integralmente il ricorso, fornendo motivazioni che consolidano un importante principio in materia di diritto del lavoro. I giudici hanno chiarito che l’illecito disciplinare e l’illecito penale viaggiano su binari paralleli ma distinti.

Il codice disciplinare aziendale, nel prevedere il licenziamento per appropriazione di beni o denaro, delinea una fattispecie disciplinare autonoma. Il suo scopo non è punire un reato, ma sanzionare una condotta che viola gravemente gli obblighi contrattuali e, soprattutto, il rapporto fiduciario. Questo rapporto è l’elemento essenziale che lega datore di lavoro e dipendente.

La Corte ha sottolineato che la “giusta causa” di licenziamento, come definita dall’art. 2119 c.c., comprende tutti quei comportamenti che minano la fiducia nella correttezza dei futuri adempimenti del lavoratore. L’impossessamento di beni aziendali, anche se non integra gli estremi del reato di furto o appropriazione indebita (ad esempio, per mancanza del dolo specifico), costituisce una grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e giustifica l’espulsione immediata. Di conseguenza, l’ammissione del lavoratore di aver prelevato il denaro era sufficiente per l’accertamento dell’illecito disciplinare, senza che fosse necessario indagare sulla sua intenzione di restituire la somma.

Conclusioni: L’Autonomia dell’Illecito Disciplinare

La decisione della Cassazione ribadisce con forza l’autonomia della valutazione disciplinare rispetto a quella penale. Per il licenziamento per appropriazione non è necessario attendere una condanna penale né dimostrare tutti gli elementi costitutivi del reato. Ciò che conta è la gravità del comportamento del dipendente in relazione ai suoi doveri contrattuali e l’impatto che tale condotta ha sul legame di fiducia. Un atto come il prelievo di denaro dalla cassa aziendale è di per sé sintomatico di un atteggiamento inaffidabile, tale da porre in dubbio la futura correttezza della prestazione lavorativa e da legittimare la sanzione più grave, ovvero il licenziamento in tronco.

Un licenziamento per ‘appropriazione’ di beni aziendali richiede che sia provato il reato di appropriazione indebita?
No. Secondo la Corte di Cassazione, l’illecito disciplinare di appropriazione è una fattispecie autonoma rispetto al reato penale. Per la legittimità del licenziamento è sufficiente che la condotta del lavoratore abbia leso in modo grave e irreversibile il rapporto fiduciario, a prescindere dalla configurabilità di un reato.

Su chi ricade l’onere di provare l’intenzione di restituire il denaro prelevato?
La sentenza chiarisce che, ai fini disciplinari, l’onere della prova non si concentra sull’intenzione restitutoria. L’ammissione da parte del lavoratore di aver tenuto la condotta appropriativa contestata è sufficiente per l’accertamento dell’illecito, in quanto ciò che rileva è la rottura del vincolo di fiducia e non la sussistenza del dolo specifico richiesto dalla norma penale.

Il concetto di ‘giusta causa’ per il licenziamento è uguale alla commissione di un reato?
No. La giusta causa di licenziamento (art. 2119 c.c.) ha una portata più ampia e riguarda qualsiasi comportamento che determini il venir meno del rapporto fiduciario, rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro. Questo può includere condotte che non costituiscono reato ma che sono comunque una grave violazione dei doveri del lavoratore.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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