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Licenziamento orale: l’onere della prova sul lavoratore

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di una lavoratrice che sosteneva di aver subito un licenziamento orale. La Corte ha ribadito che, in caso di licenziamento orale, l’onere della prova grava interamente sul lavoratore, il quale deve dimostrare in modo inequivocabile la volontà del datore di lavoro di interrompere il rapporto. Il comportamento della lavoratrice, che ha continuato a chiedere incarichi dopo il presunto licenziamento, è stato considerato contraddittorio e ha contribuito a indebolire la sua posizione.

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Licenziamento Orale: A Chi Spetta l’Onere della Prova?

Il licenziamento orale, ovvero comunicato a voce e non in forma scritta, è una questione delicata nel diritto del lavoro. Sebbene la legge richieda la forma scritta per la validità del recesso, dimostrare che esso sia avvenuto verbalmente può rivelarsi complesso. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fatto luce su un punto cruciale: l’onere della prova. Vediamo insieme cosa ha stabilito la Suprema Corte.

I Fatti del Caso

Una giornalista si rivolgeva al tribunale sostenendo di essere stata licenziata verbalmente da una società editoriale. Il tribunale di primo grado le dava ragione, dichiarando l’inefficacia del licenziamento. Tuttavia, la Corte d’Appello ribaltava la decisione, ritenendo che la lavoratrice non avesse fornito prove sufficienti a dimostrare l’effettiva sussistenza del licenziamento orale. Secondo i giudici d’appello, le circostanze del presunto recesso non erano state dettagliate a sufficienza e, inoltre, il comportamento successivo della giornalista – che aveva continuato a sollecitare l’assegnazione di articoli – contraddiceva l’idea di un rapporto di lavoro ormai concluso per volontà del datore.

Insoddisfatta della decisione, la lavoratrice presentava ricorso in Cassazione, lamentando principalmente due aspetti: la mancata considerazione della non contestazione dei fatti da parte dell’azienda e un’errata valutazione delle prove.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della giornalista, confermando la sentenza della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno colto l’occasione per ribadire alcuni principi fondamentali in materia di prova del licenziamento orale.

I giudici hanno chiarito che spetta esclusivamente al lavoratore che impugna il licenziamento dimostrare che l’interruzione del rapporto sia dovuta a una chiara e inequivocabile volontà del datore di lavoro. Non è sufficiente, a tal fine, provare la semplice cessazione dell’attività lavorativa.

L’onere della prova nel licenziamento orale

La Corte ha sottolineato che, secondo i principi generali del nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), chi agisce in giudizio per far valere un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Nel caso del licenziamento orale, il fatto costitutivo della domanda è proprio l’atto di recesso del datore. Pertanto, il lavoratore deve fornire prove concrete che la risoluzione del rapporto sia ascrivibile alla volontà datoriale, anche se manifestata tramite comportamenti concludenti.

Nel caso specifico, la Corte di merito aveva correttamente evidenziato le discrasie nel comportamento della lavoratrice. La sua continua richiesta di ‘pezzi’ da scrivere dopo il presunto licenziamento è stata interpretata come un comportamento incompatibile con la convinzione di essere stata licenziata, indebolendo così la tesi accusatoria.

La valutazione delle prove e il vizio di omesso esame

La ricorrente lamentava anche che la Corte d’Appello non avesse considerato elementi decisivi, come una conversazione in cui lei affermava di essere stata ‘buttata fuori dal giornale’ e il suo interlocutore rispondeva ‘so tutto’. La Cassazione ha ritenuto che tali elementi, seppur da valutare, non avessero il carattere della ‘decisività’. Un fatto è decisivo solo se la sua considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa. In questo caso, la conversazione, inserita nel più ampio contesto probatorio, non era sufficiente da sola a ribaltare l’esito del giudizio, che si fondava su una valutazione complessiva di vari elementi.

Le Motivazioni

La motivazione della Suprema Corte si fonda sul rigore del principio dell’onere della prova. Affidare al lavoratore il compito di dimostrare il licenziamento verbale è una conseguenza diretta delle regole processuali. Se, al termine dell’istruttoria, permane un’incertezza probatoria sulla reale volontà del datore di recedere dal rapporto, la domanda del lavoratore deve essere respinta. La Corte ha chiarito che il giudice di merito ha il compito di valutare tutte le prove, comprese le allegazioni e il comportamento delle parti, per raggiungere un grado di certezza sufficiente ad affermare l’esistenza del recesso orale. La valutazione espressa dal giudice di merito, se logicamente motivata, non può essere rivalutata in sede di legittimità.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame conferma un orientamento consolidato: nel contenzioso sul licenziamento orale, il lavoratore parte in salita. Deve raccogliere e presentare prove chiare, precise e concordanti per dimostrare non solo di aver smesso di lavorare, ma che questa interruzione sia stata causata da un’esplicita o implicita manifestazione di volontà del datore di lavoro. Il comportamento tenuto dal lavoratore dopo il presunto licenziamento assume un’importanza cruciale e può essere utilizzato dal giudice per valutare la coerenza e la credibilità della sua versione dei fatti. Questa decisione serve da monito: prima di impugnare un licenziamento verbale, è fondamentale avere un quadro probatorio solido e privo di contraddizioni.

A chi spetta l’onere della prova in un caso di presunto licenziamento orale?
Secondo la Corte di Cassazione, l’onere della prova grava interamente sul lavoratore. È il lavoratore che deve dimostrare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro.

La semplice cessazione dell’attività lavorativa è sufficiente per dimostrare un licenziamento orale?
No, la mera prova della cessazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa non è sufficiente. Il lavoratore deve provare che tale cessazione è stata causata da un atto di recesso del datore, anche se manifestato tramite comportamenti concludenti.

Il comportamento del lavoratore dopo il presunto licenziamento è rilevante ai fini della prova?
Sì, è molto rilevante. Nel caso di specie, il fatto che la lavoratrice abbia continuato a chiedere incarichi lavorativi dopo il presunto licenziamento è stato considerato un comportamento in contrasto con la tesi del recesso datoriale, indebolendo la sua posizione probatoria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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