Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 2160 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 2160 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 30/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso 6926-2024 proposto da:
COGNOME NOME , elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 225/2023 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 09/01/2024 R.G.N. 39/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
17/12/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
Giudizio di rinvio
R.G.N. 6926/2024
COGNOME
Rep.
Ud.17/12/2024
CC
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di Potenza, con la sentenza impugnata, in sede di rinvio disposto da questa Corte con sentenza n. 752 del 2023, ha respinto la domanda di impugnativa del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo dalla società RAGIONE_SOCIALE a NOME COGNOME;
la Corte territoriale, in estrema sintesi, premesso che la pronuncia cassatoria aveva ravvisato una lacuna di tipo motivazionale sulla ipotetica interruzione del nesso di causalità tra l’accertato calo del volume di affari ed il licenziamento della RAGIONE_SOCIALE, a fronte dell’assunzione di due lavoratrici, ha accertato che, al cospetto della riduzione dei ricavi registrata dalla società, l’incremento del costo del personale ascrivibile anche all’assunzione di due lavoratrici a chiamata e con contratto a tempo determinato non potesse ‘qualificarsi come fattore interruttivo del nesso di causalità tra l’accertato calo del volume di affari e l’intervenuto licenziamento della COGNOME‘;
per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso la soccombente con due motivi; ha resistito con controricorso l’intimata società;
parte ricorrente ha comunicato memoria;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
i motivi di ricorso possono essere sintetizzati come di seguito: 1.1. il primo denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 384, commi 2 e 4, c.p.c., per ‘mancato rispetto del principio di diritto sottostante alla sentenza n. 752 del 2023 della Corte di
Cassazione’ ed ‘errata valutazione circa la ricorrenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento’;
1.2. il secondo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 3 l. n. 604 del 1996 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., per ‘mancata verifica’ sia della ‘effettività e non pretestuosità della ragione obiettiva’, sia del ‘nesso di causalità tra motivo di recesso datoriale e licenziamento’;
il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. il primo motivo è infondato, in quanto alcuna violazione di ‘quanto statuito’ da questa Corte con la pronuncia rescindente è ravvisabile nella specie;
nella sentenza n. 752/2023, infatti, erano state rilevate, nella decisione poi cassata, ‘gravi lacune di indagine in ordine alla coerenza logica ed al nesso di causalità intercorrente tra l’accertato calo di volume di affari (posto che il riferimento ai ricavi rappresenta, pur sempre, un indice per valutare l’andamento dell’impresa) e il licenziamento della Sarubbi, a fronte dell’assunzione di due lavoratrici (che, in un contesto di contrazione di attività, ha fatto lievitare i costi del personale)’, lacune che avevano ‘compromesso la corretta verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966 che consentono al datore di lavoro di precedere al recesso’;
è noto che i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l’una e per l’altra ragione: nella prima ipotesi, il giudice di rinvio è tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell’art. 384, comma 1, c.p.c., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di
modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; nella seconda ipotesi, il giudice non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, tenendo conto, peraltro, delle preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza ipotesi, la ” potestas iudicandi ” del giudice di rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ” ex novo ” dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione sia consentita in base alle direttive impartite dalla Corte di cassazione e sempre nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse (cfr. da ultimo Cass. n. 3150 del 2024; tra le altre: Cass. n. 17240 del 2023; Cass. n. 448 del 2020);
nella specie, la prima sentenza di appello era stata cassata proprio su ‘gravi lacune di indagine’, chiaramente demandando al giudice del rinvio il compito di effettuare un nuovo esame della controversia indagando i fatti che risultavano essere stati trascurati dalla sentenza impugnata, con l’unico limite di fondare la successiva decisione sugli stessi elementi ritenuti lacunosi;
tanto ha fatto la Corte del rinvio che ha proceduto ad una nuova indagine, giungendo alla conclusione, involgente insindacabili apprezzamenti di merito, che l’incremento del costo del personale, ascrivibile anche all’assunzione di due unità a chiamata e con contatto a tempo determinato, con diverso inquadramento contrattuale e con l’attribuzione di mansioni diverse, non fosse tale da assurgere a fattore interruttivo del nesso di causalità tra l’accertato calo del volume d’affari e l’intervenuto licenziament o della COGNOME, sicché alcuna
violazione o falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c. può dirsi realizzata;
2.2. il secondo motivo è inammissibile;
con esso solo formalmente si prospetta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ma nella sostanza si criticano accertamenti di fatto circa l’effettività della regione giustificatrice del licenziamento e il nesso causale tra la stessa e il recesso datoriale;
ciò è conclamato dall’improprio riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c.;
come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre);
parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell’art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di
attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, vizi nella specie neanche prospettati;
pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese regolate secondo soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la soccombente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 17 dicembre