Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 18552 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 18552 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 08/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso 29148-2021 proposto da:
NOME, elettivamente domiciliato in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 294/2021 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 06/05/2021 R.G.N. 1084/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/04/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
Oggetto
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 24/04/2024
CC
Fatti di causa
La Corte d’appello di Catanzaro, con la sentenza in atti, sull’appello proposto da NOME avverso la sentenza del tribunale di Castrovillari, ha accolto l’appello e, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato inefficace il licenziamento orale intimato il 2/4/2011 ed ha condannato la società appellata RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno in favore dell’appellante, commisurato alla retribuzione maturata dal 2/4/2011 al 12/4/2011, data di intimazione di un secondo licenziamento, oltre accessori.
Ha confermato per il resto la sentenza impugnata, tanto in relazione alla legittimità del licenziamento intimato in data 12/4/2011, quanto alla domanda relativa al mancato riconoscimento di crediti pretesi da superiore inquadramento nel livello quarto, nonché relativamente alla compensazione opposta dalla società datrice di lavoro.
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME NOME con tre motivi ai quali ha resistito RAGIONE_SOCIALE. Il ricorrente ha depositato memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo si sostiene violazione e falsa applicazione della legge n. 604/1966, art. 2 ed art. 1423 c.c. in relazione all’art. 360 numero 3 c.p.c.; inoltre violazione falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 numero 3 c.p.c.; ed ancora violazione falsa applicazione della legge 604/1966 articolo 2 e degli articoli 1362-1363 in relazione all’articolo 1324 c.c. e dell’articolo 1423 c.c., dell’articolo 115 c.p.c. in relaziona all’art. 360 numero 5 c.p.c e violazione dell’articolo 132, comma 2 numero 4 c.p.c. e dell’articolo 118 disp. att. CPC in relazione all’art. 360 numero
1, 3 e 4 c.p.c., per avere la Corte d’appello riconosciuto che nella lettera dell’8 aprile 2011 fosse contenuta da una parte una conferma della volontà di recedere dal rapporto e dall’altra un nuovo licenziamento.
Nella stessa missiva, inoltre, la società resistente affermava che il licenziamento era decorrente dal 2/4/2011 non già dalla data di effettiva comunicazione (“in relazione a quanto sopra si fa rilevare che il provvedimento, già comunicatole verbalmente avrà efficacia pari date cioè dal 2/4/2011”). Il datore di lavoro avrebbe potuto intimare un nuovo licenziamento ma non certo convalidare il precedente intimato verbalmente. Era necessaria anche la diversità dei motivi posti a fondamento del secondo licenziamento rispetto a quelli a fondamento del primo, inoltre quando vengono in rilievo due distinti licenziamenti i motivi del secondo dovrebbero essere anche sopravvenuti, nel senso di non essere noti al datore di lavoro nel momento in cui ha intimato il primo licenziamento (in questi sensi Cassazione nn. 1244/2011 e 106/2013).
1.1.- Il motivo è infondato alla stregua della giurisprudenza consolidata pure richiamata dalla Corte di appello.
1.2. Anzitutto, secondo quanto affermato da Cass n. 28120/2017, è consentita la rinnovazione del licenziamento disciplinare nullo per vizio di forma in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso, anche se la questione della validità del primo licenziamento sia ancora “sub iudice”, purché siano adottate le modalità prescritte, omesse nella precedente intimazione.
1.3.- Tale rinnovazione, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell’art. 1423 cod. civ., norma diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti “ex tunc” e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia
negoziale (Cass. n. 6773 del 19/03/2013, Cass. n. 23641 del 06/11/2006, Cass. n. 11946 del 08/06/2005);
1.4.- Inoltre, come ribadito da Cass 3187/2017, il motivo è infondato nella parte in cui asserisce che, una volta dichiarata l ‘ inefficacia del licenziamento orale, andavano emesse le pronunce conseguenti e non doveva essere neppure esaminata la domanda tendente ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del secondo recesso, essendo la stessa subordinata al non accoglimento della principale. Premesso che nulla impedisce al datore di lavoro privato di rinnovare il licenziamento nullo per difetto dei requisiti di forma (cfr. Cass. 19.3.2013 n. 6773), va detto che in tal caso opera il principio, già affermato da questa Corte (cfr. fra le più recenti Cass. 20.1.2011 n. 1244), in forza del quale il secondo licenziamento sarà produttivo di effetti nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il primo atto di recesso, con la conseguenza che il risarcimento del danno derivato dalla illegittimità del primo atto dovrà essere limitato alle retribuzioni maturate nell’arco temporale compreso fra i due licenziamenti e, nei rapporti soggetti alla tutela reale, non potrà comprendere la reintegrazione nel posto di lavoro ove il secondo recesso sia legittimo o non venga impugnato (Cass. 6.3.2008 n. 6055).
1.5.- Da detti principi discende che qualora, come nella fattispecie, al primo licenziamento, intimato in forma orale, faccia seguito un secondo licenziamento, non affetto da vizi formali ma illegittimo per assenza di giusta causa, la tutela che il lavoratore può invocare per l’assenza del requisito di forma sarà limitata al periodo compreso fra i due atti di recesso, sicché, ove non sussista il requisito dimensionale richiesto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, dalla illegittimità del secondo licenziamento deriveranno unicamente gli effetti previsti dalla legge n. 604 del 1966.
2.Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma uno n. 3 c.p.c.; violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c; violazione dell’articolo 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. e violazione dell’articolo 132 comma 2 n. 4 c.p.c. e dell’articolo 118 disp. att. cpc in relazione all’art. 360 n. 3 e 4 c.p.c., in quanto, al contrario di quanto affermato al punto 8 della sentenza impugnata, seppur l’appellante abbia invocato differenze retributive sulla scorta di un differente livello di inquadramento, giovava porre in evidenza che, per quanto concerne la richiesta di pagamento avanzata in primo grado, la stessa traeva origine dall’effettivo e orario di lavoro prestato.
3.- Con il terzo motivo si deduce la violazione falsa applicazione dell’articolo 2697 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c; violazione falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.; violazione dell’articolo 115 in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. e violazione dell’articolo 132 comma 2 n. 4 c.p.c. e dell’articolo 118 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 4 c.p.c., nonché all’articolo 21 del d.p.r. 633/1972. 3.1. I due motivi possono essere affrontati insieme per connessione.
Entrambi i motivi sono inammissibili in quanto confusi e perché violano il principio di specificità del ricorso per cassazione.
3.2. Quanto al secondo motivo, va osservato che la Corte d’appello ha in realtà affermato che in sede di gravame era stata proposta una richiesta di un differente livello di inquadramento di cui in realtà il lavoratore godeva già; non parla di una richiesta di differenze retributive in appello, mentre risultava che la richiesta fosse stata fatta solo in primo grado ed ivi rigettata, senza che fosse stata riproposta nei motivi di appello.
3.3. Il terzo motivo critica genericamente la decisione della Corte di Catanzaro di ritenere compensati alcuni crediti del lavoratore (senza però che gli stessi crediti vengano precisamente indicati) con alcuni suoi debiti. Il ricorrente formula una lunga serie di domande e di punti interrogativi, meravigliandosi che siano stati compensati anche crediti relativi a fatture intestate al suocero.
3.4. In effetti la Corte d’appello sul punto ha confermato la decisione del giudice di primo grado che ha ritenuto provati i crediti che la datrice di lavoro ha opposto in compensazione disattendendo le censure sollevate dall’appellante sulla base degli accertamenti di fatto e delle prove testimoniali e documentali partitamente analizzate nella pronuncia.
La Corte d’appello ha rilevato che le due fatture (una del 5/5/2009 intestata al suocero del ricorrente, nell’importo di euro 8246,21, e una del 30.4.2011 intestata al ricorrente, dell’importo di euro 10.777,18) erano supportate dagli esiti della prova testimoniale.
I testi di parte resistente avevano confermato che il ricorrente aveva acquistato dalla società materiale edile da destinare alla propria abitazione e che nel 2009 una fattura dell’importo di circa 8000/ 9000 € per merce ordinata e presa materialmente dal signor COGNOME NOME era stata intestata al di lui suocero, COGNOME NOME. Tali risultanze erano sufficienti a comprovare i crediti della società nei confronti del lavoratore non avendo quest’ultima offerto alcun elemento concreto di contraria valutazione. Non solo, infatti, il ricorrente non aveva specificamente contestato in primo grado né la specifica allegazione della resistente circa il mancato pagamento del corrispettivo per merce da lui acquistata, né la documentazione contabile a corredo di tale assunto, tempestivamente prodotta dalla società datrice, ma non aveva neanche articolato mezzi
istruttori in merito ai fatti dei quali si discute; solo con il gravame aveva chiesto di poter deferire l’interrogatorio formale ovvero interrogatorio decisorio al legale rappresentante sulle circostanze non capitolate in primo grado relative alla consegna della merce di cui alla fattura del 30.4.2011 e alla avvenuta corresponsione al datore di importi di euro 7750 di euro 3.1250 e 4600. Ma tali istanze istruttorie erano da ritenersi inammissibili in appello stante il divieto dell’articolo 437, comma 2 c.p.c. e quanto al giuramento decisorio, inammissibile alla stregua di Cassazione 21073/2015.
3.5. Le censure sollevate dal ricorrente in entrambi i motivi sono pertanto inammissibili perché censurano valutazioni probatorie e vizi di motivazione del tutto inesistenti anche alla luce del dirimente e corretto accertamento effettuato dalla Corte di appello, il quale risulta argomentato e conforme all’ordinamento. Esse solo formalmente denunciano plurimi errores in iudicando, anche attraverso l’improprio riferimento all’art. 115 (cfr. Cass. n. 23940 del 2017 e Cass. n. 25192 del 2016, con la giurisprudenza ivi richiamata), mentre nella sostanza criticano la sentenza impugnata per come ha valutato le prove e ricostruito, in base ad esse, i fatti di causa
4.- In proposito, occorre considerare che gli accertamenti di fatto non sono sindacabili in sede di legittimità oltre i limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici), di cui parte ricorrente non tiene alcun conto, pretendendo piuttosto una rivalutazione degli accadimenti storici ed una revisione del giudizio di fatto non ammissibile in questa sede.
5.Deve ancora ribadirsi, in consonanza con l’orientamento di questa Corte (v. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), che la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità qualora il giudice, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale.
6.Infondate sono anche le censure di violazione dell’art. 132, n. 4 c.p.c. Come è noto, con le sentenze n. 8053 e 8054 del 2014 cit. si è precisato che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione”. La motivazione apparente, che determina nullità della sentenza perché affetta da error in procedendo, è quella che non consente di percepire il fondamento della decisione, perché reca argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. Cass. n. 22232 del 2016; Cass. n. 12351 del 2017).
7.- La motivazione resa dai giudici di appello non contiene alcuno dei vizi atti ad integrare la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. poiché è ben espresso il percorso logico che sostiene il decisum, come sopra riassunto.
8.- Sulla scorta di quanto esposto il ricorso deve essere quindi respinto. Seguono le spese processuali a carico del soccombente secondo l’art. 91 c.p.c. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in € 3.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie, oltre accessori dovuti per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 24.4.2024