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Licenziamento lavoratore detenuto: la Cassazione decide

Un lavoratore in stato di detenzione cautelare è stato licenziato per la sua prolungata assenza. La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento, respingendo il ricorso del dipendente che lamentava irregolarità nella procedura di conciliazione. La Suprema Corte ha stabilito che la notifica dell’invito alla conciliazione presso l’istituto di pena era valida e che l’assenza per detenzione costituiva un impedimento assoluto alla prestazione lavorativa, giustificando il recesso. Questo caso chiarisce i contorni del licenziamento lavoratore detenuto.

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Pubblicato il 11 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento lavoratore detenuto: legittimo per assenza prolungata

Il tema del licenziamento lavoratore detenuto è complesso e solleva interrogativi sia sul piano sostanziale che procedurale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito importanti chiarimenti, confermando la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della prolungata assenza di un dipendente in stato di custodia cautelare. Analizziamo la vicenda e le conclusioni dei giudici.

I fatti del caso: un’assenza forzata e prolungata

La vicenda riguarda un lavoratore part-time che, dopo un periodo di aspettativa non retribuita, non riprende servizio. Solo in un secondo momento comunica all’azienda di trovarsi in stato di ‘carcerazione preventiva’ da diversi mesi. L’azienda, avendo già provveduto alla sua sostituzione e constatando il perdurare dell’assenza, decide di procedere con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, vista l’impossibilità di proseguire il rapporto di lavoro.

Le decisioni dei giudici di merito

Il Tribunale di primo grado aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento per questioni formali. La Corte d’Appello, invece, pur riconoscendo la validità dell’impugnazione, ha rigettato nel merito la domanda del lavoratore. Secondo i giudici d’appello, la procedura di conciliazione obbligatoria era stata svolta regolarmente e l’assenza prolungata, dovuta alla detenzione, integrava una vera e propria impossibilità assoluta della prestazione lavorativa, rendendo legittimo il licenziamento. Inoltre, era stata esclusa qualsiasi violazione dell’obbligo di repêchage, data la condizione di restrizione del dipendente.

L’analisi della Corte di Cassazione sul licenziamento del lavoratore detenuto

Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando principalmente vizi nella procedura di convocazione per il tentativo di conciliazione. Sosteneva che la notifica presso la casa circondariale, e non al suo domicilio, gli avesse impedito di partecipare e difendersi adeguatamente. Contestava anche il breve preavviso tra la comunicazione e la data dell’incontro.

La regolarità della procedura di conciliazione

La Suprema Corte ha respinto il motivo di ricorso, giudicandolo infondato. I giudici hanno chiarito che la legge prevede un’alternatività dei recapiti per la validità della comunicazione. In questo caso, l’azienda aveva correttamente inviato la convocazione via PEC non solo presso l’istituto di detenzione, ma anche presso la residenza del lavoratore e al suo legale. La comunicazione era stata effettivamente ricevuta dal lavoratore detenuto due giorni prima dell’incontro. Pertanto, la procedura è stata ritenuta pienamente conforme alla normativa (art. 7 della L. 604/1966).

L’inammissibilità del motivo sulla valutazione dei fatti

Il secondo motivo di ricorso, con cui si lamentava un’errata valutazione dei fatti (in particolare l’impossibilità di partecipare alla conciliazione a causa dello stato di detenzione), è stato dichiarato inammissibile. La Corte ha applicato il principio della cosiddetta ‘doppia conforme’, secondo cui, se le sentenze di primo e secondo grado concordano sulla ricostruzione dei fatti, non è possibile contestarli in Cassazione. Inoltre, il fatto storico della detenzione era stato considerato dai giudici di merito, i quali lo avevano ritenuto irrilevante ai fini della regolarità della convocazione, dato che il lavoratore avrebbe potuto comunque attivarsi.

Le motivazioni della decisione

Le motivazioni della Corte di Cassazione si fondano su due pilastri principali. Il primo è il rigoroso rispetto delle procedure: la legge offre diverse modalità per notificare validamente un atto, e l’invio della convocazione sia al luogo di detenzione sia al difensore via PEC è stato considerato sufficiente a garantire il diritto di difesa. Il secondo pilastro è la limitazione del sindacato di legittimità sulla valutazione dei fatti. La Cassazione non può riesaminare il merito della vicenda, ma solo verificare la corretta applicazione delle norme. Poiché la Corte d’Appello aveva già valutato lo stato di detenzione, ritenendolo non impeditivo di una tempestiva attivazione da parte del lavoratore per la conciliazione, la Suprema Corte non ha potuto che confermare tale approccio, dichiarando inammissibile la censura.

Le conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio consolidato: l’assenza prolungata e imprevedibile di un lavoratore, anche se dovuta a cause non imputabili a sua colpa come la detenzione cautelare, può integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento se rende la prestazione lavorativa impossibile e compromette l’organizzazione aziendale. Sul piano procedurale, la decisione conferma che la correttezza delle comunicazioni va valutata secondo un principio di effettività, considerando validi tutti i recapiti che garantiscano la conoscibilità dell’atto da parte del destinatario. La sentenza, rigettando il ricorso principale, ha di fatto assorbito quello incidentale dell’azienda, condannando il lavoratore al pagamento delle spese legali.

È valido il licenziamento di un lavoratore a causa della sua assenza prolungata per detenzione cautelare?
Sì, secondo la sentenza in esame, l’assenza prolungata dal posto di lavoro a causa della custodia cautelare può costituire un’impossibilità assoluta della prestazione, legittimando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La comunicazione per il tentativo di conciliazione è valida se inviata al lavoratore presso il carcere anziché al suo domicilio?
Sì, la Corte di Cassazione ha ritenuto valida la procedura. La comunicazione è stata inviata a mezzo PEC presso l’istituto di detenzione, la residenza e al procuratore del lavoratore, garantendo così la piena conoscibilità dell’atto e rispettando la normativa che prevede l’alternatività dei recapiti.

È possibile contestare in Cassazione la valutazione dei fatti compiuta dai giudici di merito se due sentenze precedenti sono conformi?
No, in caso di ‘doppia conforme’ (decisioni identiche sui fatti in primo e secondo grado), il ricorso per Cassazione per vizi di motivazione è fortemente limitato. Non è possibile censurare l’omesso esame di un fatto storico se questo è già stato preso in considerazione dai giudici di merito, anche se ritenuto non decisivo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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